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21 Maggio 2004: 11° anniversario della morte di 
don Tonino Bello

21 Maggio 2004: 11° anniversario della morte di don Tonino Bello

INTRODUZIONE VEGLIA: 

Un anno fa, a dieci anni dalla morte di don Tonino, ci siamo ritrovati nelle sue terre, in un percorso di continua scoperta iniziato con un convegno organizzato dalla Meridiana dal Titolo: “Don Tonino, vescovo secondo il concilio”.
Tra le persone intervenute c’era anche don Luigi Ciotti.
Usiamo delle sue parole per iniziare la veglia di questa sera:


“L’attenzione agli altri, a tutti gli altri, ha attraversato la vita di don Tonino. Li ha sempre chiamati per nome, quei volti, li ha fatti conoscere anche a noi perché sono diventati anche un po’ nostri amici. Perché i suoi scritti, le sue testimonianze, i suoi interventi ci hanno consegnato quei nomi.
Chiamare per nome, dare un nome, vuol dire dare dignità alle persone. E oggi troppi parlano di casi, di numeri, di utenti. No! Dobbiamo ridare nome alle persone.
Chiamare per nome, per incontrare sempre le persone prima, per poi affrontare i problemi e non viceversa.
Perché oggi sono troppi quelli che affrontano le persone. Invece le persone si incontrano. I problemi si affrontano. E Tonino questo ce l’ha testimoniato con quella sua coerenza evangelica.
Noi tutti che siamo qui, io credo sentiamo nella nostra pelle che dobbiamo impegnarci di più.
Chiamando per nome, guardando in faccia le persone. Ognuno cominciando dalle azioni minori, nel suo contesto, nella sua realtà, per creare le condizioni perché tutte le persone siano libere.
La libertà di tutti si gioca sul terreno dei diritti e della giustizia. Dobbiamo fare in modo che nessuno debba dipendere da altri, da sostanze o da forme di schiavitù, di sfruttamento.
Questa trasversalità di attenzione agli altri, agli ultimi è cresciuta nell’arco del suo cammino di prete e di vescovo, ma il cambiamento, e ce lo dice direttamente e indirettamente, è stato, e lo è anche per noi se lo vogliamo, di più nel faccia a faccia con le persone. Le persone ci cambiano.
E poi ci parla di Bartolo. Ma Bartolo non è di Molfetta, non è della Puglia. Dove l’ha scovato don Tonino?
E’ un mio amico -dice-. Quando andate a Roma, vicino all’Editrice Ancora, proprio sulla sinistra, ci sono dei cartoni sul gradino. La sera Bartolo si copre con quei cartoni. E’ da anni che sta lì. Quei cartoni per me sono un’ostensorio. Avete capito? Egli dice: quei cartoni per me sono un’ostensorio. All’interno ci sono frammenti di santità perché Dio si prende cura anche di Bartolo.
Ecco il faccia a faccia.
Ecco il salto che ci catapulta in avanti perché in tutte le storie delle persone c’è il frammento di Dio.
E’ questa coerenza, questa radicalità, questa dimensione profonda che Tonino ci ha offerto nella sua umiltà, nella sua straordinaria ordinarietà delle cose. Ecco il valore del suo messaggio.
Chiede ad ognuno di essere capaci di fare e di vivere questa coerenza con il Vangelo. Di non dimenticarci che Dio si prende cura di tutti.

Ecco quindi la preghiera di questa sera: lasciamoci guidare dai testi, dai volti, dalla testimonianza preziosa che ascolteremo per uscirne rinnovati e trasformati, pronti a lasciarci provocare dai volti che incontriamo ogni giorno nel nostro cammino!


CANTO INIZIALE: Te al centro del mio cuore


Da omelie e scritti quaresimali

Cari amici,
l’idea me l’hanno data alcuni ragazzi di Azione Cattolica, i quali qualche sera fa, durante una veglia di preghiera sulla pace, hanno steso uno striscione con su scritto: “Ogni volto, una cometa”.
Ho dovuto sentire la loro spiegazione prima di afferrare l’eloquenza di questo slogan, che alla fine mi ha convinto. Parlavano della cometa di Halley, attesa con trepidazione, resa oggetto di studio e di dibattiti, scrutata da occhi attentissimi. Essa compare nel firmamento ogni settantasette anni. Il che vuoi dire che chi la osserva nelle notti del 1986 difficilmente tornerà a vederla nel secolo prossimo. Incontro esaltante, quindi. Esperienza unica. Avvenimento irrepetibile nella vita di una persona.
Bene. Il volto di un uomo è un fatto ancora più irrepetibile. Perché, se la cometa di Halley, secondo scansioni cicliche, tornerà ancora inesorabilmente a solcare i nostri cieli, il volto di un uomo, con la sua individualità unica, con la sua esclusiva ricchezza spirituale, con tutta la sua valenza di dono, non tornerà mai più a illuminare la terra.
Ecco allora la ricerca del volto del prossimo come fondamentale allenamento di pace. Ricerca del volto, non della maschera. Scoperta del volto, non lettura della sigla. Contemplazione del volto, non gelida presa d’atto della “funzione”. Accarezzamento del volto, non adulazione cortigiana del ruolo. Rapporto dialogico tra volto e volto, non litigiosità feroce tra grinta e grinta.
In quest’epoca caratterizzata dalla “serialità” massificatrice, in cui neppure l’uomo (fatto pur esso in serie) sfugge ai pericoli dell’appiattimento, l’etica del volto ci sembra l’unica in grado di costruire la pace. Sì, perché le guerre, tutte le guerre, da quelle interiori a quelle stellari, trovano la loro ultima radice nella uniformizzazione dei volti. Nella dissolvenza dei volti. Nella perdita della identità personale. Nella prevaricazione del numero di matricola su nome e cognome e indirizzo. Nella malinconia di sentirsi “uno, nessuno, centomila”. Nell’incapacità di guardarsi negli occhi.
“Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto”. Se, oltre che al Signore, fossimo capaci di dire anche al prossimo: “Il tuo volto, fratello, io cerco. Non nascondermi il tuo volto”, la causa della pace sarebbe risolta.
Riconciliamoci con i volti. Col volto di ogni fratello, scrigno di tenerezze e di paure, di solitudini e di speranze. Col volto del bambino che già vive nel grembo materno. Col volto rassegnato del povero, sacramento del Crocifisso. Col volto fosco del nemico, redento dal nostro perdono.
Ci riconcilieremo così col volto di Dio, unica terra promessa dove fiorisce la pace.
2 marzo 1986

+ don TONINO, Vescovo


SALMO 27 (26)

1 Di Davide.

Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?

Rit. : Jésus le Christ lumière interieure
        
ne laisse pas mes ténèbres me parler
       
Jésus le Christ lumière interieure
       
donne-moi d’accueillir ton amour.

4 Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per gustare la dolcezza del Signore
ed ammirare il suo santuario.  Rit.

5 Egli mi offre un luogo di rifugio
nel giorno della sventura.
Mi nasconde nel segreto della sua dimora,
mi solleva sulla rupe. Rit.





7 Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi.
8 Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»;
il tuo volto, Signore, io cerco. Rit.

9 Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.   
                                                               Rit.

13 Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
14 Spera nel Signore, sii forte,
si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.
                                                               Rit.


Ero all’inizio del mio ministero episcopale, quando abbiamo celebrato la Giornata della gioventù. Il giorno dopo hanno ammazzato un giovane. Io l’ho saputo da un ritaglio di giornale. Non era stato identificato. Ho telefonato al cimitero e ho parlato con il cappellano .‘L’hanno portato qui e domani lo seppelliamo”. Il giorno dopo sono andato al cimitero e ho voluto celebrare le esequie.
Nessuna campana suonava per questo giovane; aveva ventidue anni. Poi sono andato a vedere colui che l’ha ammazzato: un metronotte. L’aveva ucciso perché era un giovane ladro. Comunque quando sono tornato a casa ho scritto questa lettera:
“Ho saputo per caso della tua morte violenta, da un ritaglio di giornale. Mi hanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina e sono venuto di buon’ora al cimitero a celebrare le esequie per te.
Ma non ho potuto pronunciare l’omelia perché alla mia Messa non c’era nessuno, solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alle orazioni.
E il vento gelido che scuoteva le vetrate.
Sulla tua bara, neppure un fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima.
Sul tuo feretro, neppure un rintocco di campana.
Ho scelto il Vangelo di Luca, quello dei due malfattori crocifissi con Cristo, durante la lettura mi è parso che la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: “Gesù, ricordati di me!...
Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a ventidue anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che rotolava nel fango con te! Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome.
Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello, oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai è troppo tardi, questo dolcissimo nome.
Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto.
Ma non per la tua morte. Perché stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale forse te lo meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente e lui si è difeso. E stamattina quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi ha detto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, con quei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, deve mantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di un anno e mezzo.
No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzione. Questa città che finge di ignorare la presenza accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco!
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane che, sì, non sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l’icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbruttito che è fosco come il tuo, che ha cessato di battere per sempre.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch’io, che l’altro giorno, quando c’era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica.
Perdonaci, Massimo.
Il ladro non sei tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo. Perdonaci per l’indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire.
Perdonaci se, ad appena otto giorni dall’inizio solenne dell’anno internazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sventurato, il primo estratto conto della nostra retorica.
Addio, fratello ladro.
Domani verrò di nuovo al Camposanto, e sulla tua fossa senza fiori in segno di espiazione e di speranza accenderò una lampada”.
                                                                                           La pace come ricerca del volto


SILENZIO

CANTO: Benedici il Signore anima mia

GIOVANNI cap 4;5,9
Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6 qui c'era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. 7 Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere». 8 I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. 9 Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?».

da Al pozzo di Sichar 
Gesù di fronte all’alterità. 
Possiamo dire che la samaritana è la concentrazione delle alterità. O per lo meno delle alterità più emergenti.
L’alterità sociale, che non è solo anagrafica. Perché l’essere donna, ai tempi di Gesù, non è solo una diversità anagrafica, ma anche culturale, giudaica.
L’alterità razziale. È una samaritana. Spregevole, quindi, per un ebreo nella cui mente veniva introdotto con forza il concetto di superiorità.
L’alterità morale. È una “poco di buono”. Che, per giunta, si confronta con un uomo di Dio.
L’alterità religiosa. Appartiene ad un’altra parrocchia. A un’altra confraternita.
È un simbolo. È per questo che non ha un nome proprio. Ed è un simbolo anche delle alterità più vistose con le quali anche noi oggi ci confrontiamo. È per questo che l’atteggiamento di Gesù può offrirci un forte paradigma comportamentale.
Protagonista di scambio  
Dammi da bere.
L’incontro comincia con una richiesta di Gesù che, essendo uomo, è solidale con tutte le necessità dell’uomo. Chiede una dimostrazione di solidarietà al livello umano più elementare, che unisce gli uomini al di sopra delle culture e delle barriere politiche, razziali, spirituali, religiose. È come se dicesse: ”io sono come te”.
Dare acqua, elemento scarso e quindi prezioso, era un segno di accoglienza e di ospitalità. Chiedendola, stanco del cammino, Gesù chiede di essere accolto in Samaria.
Gesù che va mendicando un sorso d’acqua, si mette al livello dell’altro. Gli dice: tu mi puoi aiutare. Ho bisogno di te. Mi puoi dare una mano. E nello stesso tempo afferma la sua disponibilità a corrispondere con un favore anche più grande. “Se tu conoscessi il dono di Dio, chi è colui che ti chiede da bere, saresti tu a chiederne a lui e ti darebbe acqua viva”.
Ecco, qui è affermata la legge forse più importante che può farci superare i guasti della diversità: la reciprocità del dono. Questa legge noi la conosciamo poco. Siamo bravi solo a dare. Mai a ricevere. Che cosa può darmi un terzomondiale, se non un pericolo di infezioni? Quando capiremo che l’altro, il povero, non chiede aiuto, ma chiede scambio? Quando capiremo che dare la pelle per i poveri o lasciarsi scorticare vivi per loro vale meno che mettersi sulle spalle una camicia che ci è stata da loro regalata?

TESTIMONIANZA DI MARIELLA

SILENZIO

GIOVANNI cap 20;11,18
11Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto». 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. 15Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù le disse: «Maria!». Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: «Rabbunì!», che significa: Maestro! 17Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». 18Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: «Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto.

Da Scrivo a voi…

COINCIDENZE.  
OVVERO: LE GIOIE DEI POVERI

Quella notte ero salito su un vagone di seconda classe.
Con i pochi viaggiatori che imbarcava e con i tanti scompartimenti vuoti a disposizione, quel treno per Roma era molto comodo per me, soprattutto quando, non avendo avuto tempo per prepararmi di giorno, ero costretto a studiare di notte.
Quella volta, poi, ero particolarmente preoccupato. La mattina seguente avrei dovuto tenere la relazione di fondo in un convegno importante, e contavo proprio su quelle otto ore di viaggio per organizzare il mio discorso.
Mi ero già sistemato in uno scompartimento vuoto e avevo appena tirato le tendine, dopo avere sparpagliato sui sedili libri e riviste, quando sentii scorrere il portello, e un signore sulla trentina mi chiese con un sorriso: “Scusi, lei non è il vescovo di Molfetta?”.
Non feci in tempo ad accennargli di sì, che replicò soddisfatto:
“Che bella fortuna! Ora me ne vengo qui da lei e così, chiacchierando, la notte passerà in un baleno”.
Pensavo che la freddezza con cui mostrai di accogliere la sua proposta lo avrebbe scoraggiato. Ma quello, nonostante il fastidio che mi si leggeva chiarissimo in faccia, dopo qualche minuto fece irruzione nel mio rifugio con due pesanti valigie, e io fui costretto a ritirare gli appunti sparsi qua e là sui sedili di velluto, in attesa, speravo, che il mio importuno interlocutore si potesse addormentare.
Attaccò subito discorso, dopo essersi seduto di fronte a me. Parlava a ruota libera e, benché, io gli replicassi con monosillabi avari, dilagava come un fiume in piena.
Mi disse che era un marittimo, e che andava a raggiungere la sua nave ancorata a Livorno. Era scappato a casa per due giorni, poiché la. più grande delle sue bambine aveva fatto la prima comunione. Mi fece vedere le foto di famiglia, mi spiava l’espressione del viso, e pretese il mio giudizio perfino sulla bellezza di sua moglie. Mi confidò che le voleva un bene da morire, che quando poteva le telefonava ogni sera, anche dall’Australia, e che, nonostante le mille seduzioni di tutte le città portuali del mondo, non l’aveva mai tradita.
Chiusi i libri e mi misi ad ascoltarlo: cominciava a interessarmi. Non aveva certo un’aria bigotta. Parlava con incredibile naturalezza di donne, di attrici, di moda, di calcio, di politica, di musica rock... passando da un argomento all’altro senza forzature e con una straordinaria carica di simpatia.
Crepitavano nelle sue parole sarmenti di antichi focolari.
Mi disse che amava la vita. Che l’unico rimpianto era quello di avere scelto un mestiere così triste che lo teneva otto mesi su dodici lontano dalla famiglia. Ma che doveva ancora continuare per qualche anno, se il Signore gli dava salute, perché si era comprato un appartamento delle case popolari e doveva finire di pagarlo. Che anzi aveva intenzione di acquistare un campicello per camparsi la vita. Che lui non ci teneva ad arricchirsi dopo che aveva visto la miseria dell’Africa sui cui porti sbarcava spesso con la nave. E che la ricchezza più grande è la salute. E che non c’è nessuna cosa al mondo che possa darti tanta gioia quanto l’amore della tua donna, la buona riuscita dei figli, e una partita a carte in casa con gli amici nelle sere d’inverno.
Il treno cadenzava i ritmi del mio interlocutore, e io mi andavo chiedendo se il soprassalto di tenerezza che provavo nell’ascoltarlo derivava dal ridestarsi di archetipi sepolti ormai da tempo nella mia coscienza, oppure dalla sorpresa di trovarmi di fronte a un rarissimo esemplare scampato al cataclisma dei costumi, oppure dalla constatazione che c’è ancora nel mondo un’economia sommersa di bontà più estesa di quel che si pensi.
Vibrava nelle sue espressioni la gioia di vivere. Ogni frase grondava di allusioni a ineffabili letizie di povera gente: l’attesa di sagre paesane straripanti d’incontri, l’incanto di vigilie natalizie popolate di parentele, la fitta trama di rapporti umani profumati di solidarietà.
Parlando dei suoi sacrifici, faceva spesso dell’autoironia scoppiando a ridere, e gli occhi gli brillavano, di commozione o di fierezza, quando raccontava della premura giornaliera con cui sua moglie assisteva un’anziana vicina di casa.
Ero letteralmente assorto nell’ascolto di quel compagno di viaggio, che mi aiutava a scoprire, nei sotterranei del mio essere, piccole gioie antiche che avevo rimosse da tempo: sapori verginali di intimità casalinghe, misteri di brividi nuziali che ti legano alle cose, freschezza di abbandoni all’ala fragile dell’amicizia.
Mi andavo chiedendo quale fosse il segreto di quell’esistenza umanamente così armonica, quando, all’improvviso, mi rivelò:
“Io leggo ogni giorno il Vangelo! Lo faccio sempre ogniqualvolta, durante la navigazione, ho un momento di libertà”.
Non dovetti mostrare di prendere sul serio la sua dichiarazione, perché aggiunse: “Vedo che non crede molto a ciò che le ho detto”. E si alzò a prendere una valigia che depose pesantemente sulla poltrona. La spalancò e in cima alla biancheria, fermato dalla cinghietta, scorsi “Il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo”.
Me lo porse e io, invece che alla prima, lo sfogliai per caso all’ultima pagina, su cui, scritte in matita, lessi queste annotazioni:
“Finito di leggere la prima volta il 3 ottobre del 1980 presso lo stretto di Gibilterra.., finito di leggere la seconda volta nella baia di Sidney... finito di leggere la quinta volta...”.
Chi sa per quale suggestione, mi vennero in mente le parole della Gaudium et spes: Le gioie degli uomini d’oggi... dei poveri soprattutto, e di coloro che soffrono... sono le gioie dei discepoli di Cristo.
Il Vangelo mi rimase aperto tra le mani su quell’ultima pagina. Ma dovetti chiuderlo subito: ero giunto a Roma. Anzi, molto più in là di Roma. Ero giunto in quell’arcana stazione dello spirito, dove il treno delle gioie dei poveri e il treno delle gioie dei discepoli di Gesù facevano coincidenza, O meglio, coincidevano. Formando lo stesso convoglio verso l’unica direzione del Regno.
P.S. La conferenza andò benissimo. Non mi ero mai preparato così!

SILENZIO

CANTO: Ora è tempo di gioia

Da scritti di pace
Ho trovato l’altro giorno - e me la sono trascritta - una poesia nel libro dei Chassidim, gli interpreti della Sacra Scrittura, del 1600, 1700, 1800. La raccolta è di Martin Buber, un maestro rabbino. Questa poesia è rivolta a Dio; è l’etica del volto; è il “Tu” divino che noi potremo intuire se sapremo dare del “tu” alla gente che ci sta accanto. E intitolata “Tu”.

“Dovunque io vada, Tu / dovunque io sosti, Tu / solo Tu, ancor Tu, sempre Tu I Tu, Tu, Tu / Se mi va bene, Tu / se sono in pena, Tu / solo Tu, ancor Tu, sempre Tu / Tu, Tu, Tu / Cielo, Tu, Terra Tu / Sopra, Tu, sotto, Tu / Dove mi giro, dovunque miro / solo Tu, ancor Tu, sempre Tu / Tu, Tu, Tu,”.

Credo che se potessimo cambiare certi versetti della Bibbia che dicono “Fammi scorgere, o Signore, il tuo volto, il tuo volto, Signore, io cerco” e dire “Il tuo volto, fratello, io cerco, fammi vedere il tuo volto”, allora avremmo trovato non soltanto le radici, ma anche gli alberi, i. rami, le fronde, i fiori, i frutti della nonviolenza.

PADRE NOSTRO

CANTO FINALE: Tu sei vivo fuoco

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