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SPECIALE GENOVA

Non abbiamo assolutamente la pretesa di essere originali, ma con questa pagina, vogliamo provare a raccogliere testimonianze e racconti, che nella cosiddetta stampa ufficiale, probabilmente non troveranno spazio. Tali testimonianze e racconti, sono scritti esattamente come ci sono pervenuti dagli autori stessi.

 

INDICE

 

LA PRIMA GIORNATA DI GENOVA

Cronaca e testimonianze dei fatti accaduti in piazza Manin e dintorni il 20 Luglio 2001.

Per chi non era a Genova nei giorni drammatici del G8 non e facile capire cosa sia  veramente successo. Le cronache televisive hanno dato una visione parziale e forse distorta della realtà. Quella che segue è una piccola testimonianza che tenta di dare una logica agli avvenimenti genovesi. Si tratta di una ricostruzione in divenire, costruita in base ai tasselli di
singole, parziali  testimonianze. Per completare il quadro, per aiutarci a capire che cosa e successo, le logiche che hanno guidato gli avvenimenti, sono graditi  contributi dei tanti che hanno condiviso quei drammatici momenti.

Venerdì 20 Luglio, a Piazza Manin sono stato testimone (e ho in parte documentato fotograficamente)  degli effetti degli   ordini  ricevuti dalla polizia per tutelare l'ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini genovesi. I fatti che descriverò, con l'aiuto di numerose testimonianze di chi era  in quella piazza,  hanno una loro logica spiegazione solo se alla loro origine   ci sono i seguenti ordini impartiti alle forze di polizia: lasciare liberi i Black Block di distruggere indisturbati quello che
vogliono,  usare questi gruppi  per disperdere i manifestanti pacifisti.
A  Piazza Manin, era regolarmente autorizzato il raduno
d'ambientalisti,  scout, gruppi femministi, Lilliput, Mercato Equo e Solidale. Nessun Black Block era presente. La manifestazione era assolutamente pacifica e senza tensioni. Le "armi "del dissenso erano palloncini colorati e mutandoni giganti, accompagnati da canti e musica.
Don Gallo, con  Franca Rame, era riuscito a mediare con il colonnello responsabile delle forze dell'ordine, schierate  a 40 metri dalle cancellate, in fondo a Via Assarotti, la possibilità di poterci avvicinare in fila indiana alle cancellate stesse e di affiggere cartelli e striscioni, cosa che e stata fatta, in un clima relativamente calmo.
Analoga situazione nella  vicina  piazza Marsala dove, dopo qualche momento di tensione, si  e assistito anche ad episodi di fraternizzazione  tra polizia e dimostranti.
Improvvisamente, verso le  ore 14,   provenienti da via Montaldo, alcune decine   di Black Blocks, sono  arrivati in Piazza Manin.
"Venivano dall'assalto del carcere di Marassi, effettuato nella tarda mattinata, con  bombe molotov,  un attacco durato almeno 15 minuti sotto gli occhi di numerosi cittadini della Val Bisagno ma anche dei carabinieri alla guida di tre blindati e due jeep,  fermi a distanza di sicurezza. 
I Black Block (una cinquantina) sono poi saliti indisturbati per una scalinata, raggiungendo via Montaldo.  In questa via, all'ora di pranzo, hanno tranquillamente bivaccato, mangiando focaccette farcite e bevendo birra,  regolarmente acquistate e pagate (sic)  all' unico ristorante rimasto aperto.  Riposati e rinfocillati, dopo aver fatto razzia della benzina delle moto parcheggiate, sono ripartiti alla volta di piazza Manin. ( Testimonianze di un genovese della Val Bisagno e del gestore del ristorante).
Appena i primi B.B. (15-20 persone)  arrivano in Piazza Manin, diverse decine  di esponenti di Lilliput , alzando le mani  dipinte di bianco facevano barriera per impedire loro di dirigersi verso la zona rossa, alla fine di Via Assarotti. Questa situazione avrebbe messo in grave pericolo i dimostranti  ancora presenti lungo questa via  che,senza scampo, sarebbero
rimasti schiacciati tra Black Blocks e polizia. I ragazzi con i bastoni si guardano in giro un pò smarriti  poi decidono di imboccare  Corso Armellini.
Per pochi attimi la situazione resta tranquilla, ma  sopraggiunge un gruppo piu nutrito di B.B., seguito a breve distanza dalla polizia, preannunciata dal lancio di lacrimogeni.
"Poi, in pochi attimi, la devastazione. Ho visto del fumo in fondo alla piazza, poi sono arrivati una quantità enorme di lacrimogeni. I B.B., che sembravano pochi, si sono moltiplicati, fino a sembrare essere 100-200, sono filtrati agevolmente tra le nostre mani bianche alzate, le nostre menti stordite. In una frazione di secondo, quindi, i lacrimogeni, il loro passaggio e, tra il fumo, la visione dei celerini che ci caricavano a manganellate! Noi, ragazze e ragazzi, signore, signori, tutte persone con le mani alzate, pitturate di bianco, noi! Non hanno seguito i B.B.. Si sono accaniti su di noi. "Testimonianza di Sasa Raichevic".

"Arrivano poco dopo, vestiti di nero, volti coperti, armati di spranghe (pali di cartelli stradali, pezzi di panchine, il tutto sfasciato poco prima); arrivano in gruppo, con qualche bandiera; qualcuno rimane sulla strada che attraversa la piazza, altri si mischiano a noi.
Li guardiamo negli occhi, sono ragazzini, anche meno di vent'anni. La polizia che li seguiva da un po' senza infastidirli (mentre loro sfasciavano la citta) si ferma poco prima della piazza e sta a guardare.
Una trentina di pacifisti cerca di impedire alle tute nere di andare a disturbare il sit-in, mettendosi all'imbocco della via con le mani bianche alzate; noi siamo molto tesi, loro sembrano indifferenti.
Dopo pochi minuti, d'improvviso, cominciano a correre e la polizia carica, il blocco dei lillipuziani si scioglie, le tute nere scompaiono in un attimo, la polizia non rincorre loro ma ci accerchia da tutti i lati; i manganelli e i lacrimogeni volano e non sappiamo da che parte scappare; i più fortunati trovano una via di fuga in Via Assarotti o in una scalinata vicina, ma sulla piazza la polizia sfascia le bancarelle e manganella tutti, compreso chi ha le mani alzate, le ragazze a terra, chi urla "Io non c'entro".
La polizia prende il controllo della piazza mentre noi ci raccogliamo nelle vie attorno; solo nella nostra zona contiamo quattro ragazzi sanguinanti dalla testa, altri tre ammaccati, una ragazza con una mano rotta; alcuni hanno vomitato per i lacrimogeni; una ragazza del nostro gruppo e stata colpita sulla schiena, sull'orecchio e sul collo."
"Testimonianza Cooperativa Chico Mendes".

Mentre la polizia aggredisce i pacifisti , i Black Blocks  percorrono tranquillamente Corso Armellini erigendo barricate con i cassonetti dei rifiuti  e  sfasciando i vetri delle macchine in sosta.
All' altezza di piazza S. Bartolomeo degli Armeni,  i B.B.  creano una nuova  barricata e, raccolte le bottiglie  rovesciate da una campana per la raccolta differenziata del vetro,  una decina di loro si attarda, per aspettare la polizia.
A questo punto i B.B. erano chiaramente separati  dai manifestanti che si erano dati alla fuga e, all' approssimarsi della polizia iniziava, da parte dei B.B., un nutrito lancio di bottiglie verso la pattuglia che rispondeva con il lancio di lacrimogeni.
I poliziotti,  lanciando lacrimogeni,   avanzavano in gruppo compatto ed ordinato verso la barricata. Giunti a una ventina di metri di distanza, tutti i  B.B lasciavano la posizione,  dirigendosi, senza fretta, lungo Corso Solferino.
A questo punto, contro ogni apparente logica, i poliziotti, invece di inseguire i Black Blocks, chiaramente individuabili  nelle loro azioni violente ed ostili e ormai rimasti  gli unici occupanti  del Corso, giunti nei pressi della barricata, su comando del caposquadra, si fermavano e deviavano  compatti sulla loro sinistra, verso l' adiacente  piazza di San
Bartolomeo dove aveva trovato rifugio, oltre al sottoscritto, un gruppo di pacifisti, in maggior parte donne e ragazze, assolutamente inermi  e senza vie di fuga .
"Sono stata tra i primi a vedere i carabinieri arrivare e non avendo vie di fuga ho provato a nascondermi sotto una macchina, ma ne sono uscita vedendo una manifestante impietrita dalla paura, contro il muro del palazzo e ho cercato di scuoterla. Vicino a lei c'erano due signore molto anziane che si trovavano a passare di li, per caso. I carabinieri, entrando nella piazzetta, procedevano molto lentamente, come chi vuole accertare chi ha di fronte. Ad un certo punto, il responsabile del gruppo, usando il manganello, ha fatto un gesto deciso alle due signore, affinchè passassero rapidamente. Essendomi accorta di quel gesto, ne ho approfittato e ho spinto addosso alle due vecchiette anche l'altra manifestante, riuscendo a passare entrambe assieme a loro ed evitando la carica che hanno iniziato subito dopo il nostro passaggio.  Questo per dire che, a fronte del macello che i black stavano compiendo a pochi metri di distanza, l'unica
preoccupazione che hanno avuto i poliziotti e stata quella di essere nelle condizioni di manganellare esclusivamente i manifestanti.
"Testimonianza di Elisabetta Zucchi".

Una delle ragazze, pesantemente picchiata, era strappata con forza dal gruppo  delle  sue amiche e portata via.
La polizia scendeva quindi verso Via Assarotti, dove altre testimonianze raccontano di ulteriori aggressioni ai manifestanti presenti, nonostante, lo ricordiamo, fossero autorizzati ad occupare quella strada ed avessero atteggiamenti assolutamente pacifici, anche verbalmente.

"Sono una delle persone massacrate venerdì dalla polizia in Piazza Manin.
I poliziotti hanno fatto irruzione, ci hanno bloccato le vie di fuga coi lacrimogeni e poi, invece di andare verso i Blacks, hanno puntato dritto verso di noi: poichè tenevo le mani alzate, mi hanno fratturato la destra e poi, quando sono caduta a terra, hanno continuato a pestarmi con violenza incrinandomi la spalla. Vicino a me c'erano molte teste sanguinanti. Poi si
sono fermati, soddisfatti; i black nel frattempo si erano allontanati indisturbati; le ambulanze sono arrivate dopo un'ora buona e non mi hanno voluto caricare, non ero abbastanza grave; sono stata accompagnata in ospedale da un giornalista, anche lui pestato, e immediatamente operata; qui ho evitato la denuncia o il fermo solo grazie alla solidarietà di medici e impiegati dell'ospedale. Testimonianza di Simona."

"I Black Block passano, senza considerarci degni della loro attenzione, hanno altri progetti , andare in giro a sfasciare tutto. Ma quali progetti ha la polizia? Li seguira senza muovere un dito, fino a quando? Fino al loro quartier generale? Magari rimboccheranno loro le coperte? No, la polizia ha altri piani. Esco dal vicolo, mi faccio vedere dai poliziotti
per dire loro che ci sono donne e bambini terrorizzati,  che vogliamo uscire e tornare sani e salvi nella piazza, se non ci sono più i neri. Il poliziotto ci vede, chiama tutti gli altri, nessuno si preoccupa più dei black block che se ne vanno indisturbati (eravamo la terza piazza visitata da loro, quindi gli ultimi) e circa quindici poliziotti vengono verso di noi.  Quando capisco che non hanno intenzione di "scortarci", grido ancora la mia richiesta d'aiutare le donne e i bambini dietro di me, alzando le mani in alto. Tutti alziamo le mani in alto, tutti si prendono le manganellate. Ho guardato quello che sembrava il più anziano negli occhi, dietro il vetro dell'elmetto, dicendogli ancora un volta che c'erano con me
donne e bambini; non ha avuto il coraggio di colpirmi alla testa guardandomi in faccia, mi ha girato e poi colpito sulla spalla. Gli altri hanno avuto il compito più facile, semplicemente lasciarsi andare, colpendo alla testa una ragazzina, colpendo con i manganelli e con i calci quelli che avevano scelto di rannicchiarsi per terra, bastonando la telecamera di
un operatore che poi e stato colpito alla testa anche lui."
Testimonianza di Davide

Nel frattempo, i Black Blocks continuavano indisturbati la loro opera di distruzione lungo Corso Solferino e Via Palestro.

"In piazza Manin ho visto i manifestanti pacifici terrorizzati e sconvolti, la polizia schierata in posizione e in Corso Armellini (verso ponente) una scia di fumo e devastazione... segno del passaggio del Black Block. Mi aspettavo che la polizia partisse all'inseguimento dei Blacks, invece niente, hanno girato e se ne sono andati....probabilmente a picchiare
qualche altro manifestante pacifico.
Io  ho seguito i B.B.  e, all'altezza di Largo Pacifici, li ho superati. Erano fermi ai giardinetti, intorno alla fontanella: alcuni bevevano, altri si riposavano, nessuna sentinella, erano tranquillissimi, per niente in allarme.
Evidentemente sapevano che non dovevano temere nulla dalla polizia."  
Una Testimonianza

"I "neri" sono apparsi in cima alla salita di Via Palestro, hanno dato fuoco ad una Mercedes, hanno danneggiato altre macchine, hanno levato i freni ai cassonetti che sono arrivati, in discesa, sul fronte compatto dei poliziotti, sempre in Piazza Marsala. Intanto il 99 per cento dei manifestanti pacifici era andato via.
La polizia si e mantenuta sempre in Piazza Marsala, compatta dietro gli scudi, e si e limitata a sparare alcuni lacrimogeni. Non e stato fatto nessun tentativo di fermare i danneggiamenti, ne d'inseguire od identificare i "neri". Ritiratisi i "neri" in circonvallazione, sono salito in cima a Via Palestro per osservare. Essendo la situazione ormai "tranquilla" sono salito in corso Magenta. Decine di "neri" giravano indisturbati, tranquilli. Giovanissimi, molti centro-nord europei, alcuni con
bastoni. Diversi tondini di ferro, neanche nascosti, ma semplicemente appoggiati nelle aiuole.  Nessun poliziotto in giro. Questo fino a tutto Corso Paganini"
Testimonianza di Alessandro Paganini, privato cittadino di Genova.

Ed ecco,  come uno  dei Black Block  in questione ha visto  gli episodi che abbiano  appena narrato, confermando a pieno le testimonianza dei pacifisti:

"Dopo  Piazza Da Novi, il gruppo di Tute nere ha attraversato Brignole e Marassi fino a Piazza Manin, dove sostavano i pacifisti. Li, ci siamo fermati per una decina di minuti. E' arrivata la polizia di corsa e noi siamo scappati  verso Piazza Corvetto, dove sono uscito dal gruppo. La polizia pero, non ci ha seguito: si e fermata a manganellare i pacifisti che stavano li fermi, con le mani alzate. Paradossale, da non crederci. Certo, noi eravamo molto rapidi nei movimenti, creavamo barricate in un batter d'occhio, ma fino a quando sono rimasto con i neri (alla fine, alle 18, saranno stati meno di un centinaio), nessuno ci ha bloccato."
Testimonianza di  Mattia, uno dei Black Block,  raccolta  da Alberto Burba di Clarence.

Eppure sarebbe bastata  la presenza di un'altra squadra di forze dell'ordine a meta di Corso Solferino   e pochi uomini  posti a presidiare salita San Rocchino e le altre stradine laterali, per  bloccarli in modo definitivo,  soluzione  realizzabile senza difficoltà se solo si fossero voluti spostare,  lungo Via Bertola  e Via Palestro, parte degli uomini  schierati a difesa della zona Rossa,  alla fine di via Assarotti  e nella vicina piazza Marsala. Questa operazione sicuramente si sarebbe
potuta realizzare anche in  accordo e con la collaborazione  dei dimostranti  che,  preoccupati dal preannunciato arrivo dei Black Blocks, avevano gia sgombrato la parte bassa di via Assarotti, temendo di rimanere chiusi tra la polizia e i B.B..
Siamo certi che  la polizia schierata in piazza Marsala  era a conoscenza dell'arrivo dei <Neri>, in quanto ha collaborato al rapido  sgombero dei dimostranti  presenti in questa zona, anch'essi preoccupati dell'arrivo dei Black Blocks.  Tuttavia, durante le devastazioni  in Corso Solferino, nessun poliziotto ha lasciato la sua posizione a difesa della zona rossa.
Questa incredibile verità lascia perplessi tutti,  compreso un poliziotto intervistato da Michele Vari, della Gazzetta del Lunedì:
"E' inspiegabile. Di certo potevamo isolarli dopo poche ore, ma non è stato fatto. In piazza Corvetto, per esempio, avremmo potuto accerchiarli con facilita, ma non è stato fatto. E dire che erano riconoscibilissimi".
Peraltro, sul finire della prima giornata di Genova,   anche la singolare parentesi di collaborazione tra manifestanti e polizia, nata  in Piazza Corvetto, svanisce, insieme ai fumi degli incendi e dei lacrimogeni:

"Era finito l'assalto dei Black Bocks ai poliziotti in fondo a via Assarotti verso la zona rossa e noi manifestanti pacifici, che avevamo cercato di difenderli (i poliziotti, n.d.a) dall'attacco dei Black Blocks, mostrando le mani bianche, discutevamo con i poliziotti con cui, oramai, si era allentata la tensione. Stiamo per andarcene ed alcuni di loro iniziano a togliere i nostri striscioni pacifici attaccati alle cancellate della strada. Mi rivolgo ai poliziotti per dire di lasciare stare le nostre bandiere, i nostri colori, le nostre frasi che sintetizzano la voglia di giustizia e di un nuovo mondo possibile. Uno di loro subito mi minaccia, mi offende, mi spintona e scalciona. Io non reagisco, mi giro, vedo una donna che, fino a poco fa li difendeva dagli attacchi dei Black, ed ora era circondata da 5-6 poliziotti che l'insultavano e la colpivano.
Alcuni le gridavano che volevano arrestarla. Lei, impulsivamente, reagisce.
Mi avvicino per portarla via, per dirle di non reagire, per difenderla. Uno dei poliziotti, con violenza inaudita mi prende da dietro, mi straccia la maglietta, mi da' un calcio e mi sbatte lontano. Io ancora non reagisco, cerco di mantenere la calma, mi allontano, impotente di fronte alla carica e alla violenza gratuita" 
Testimonianza di Filippo Ivardi Ganapini Padova.

Si conclude cosi, con rancore, rabbia, violenza, intolleranza (e, purtroppo, con la morte di un ragazzo) la prima delle giornate di Genova che, insieme  agli amici di Legambiente, era cominciata  gonfiando tanti allegri palloncini gialli.

Quel giorno, il copione recitato  nella zona di Manin si e ripetuto, seguendo lo stesso canovaccio, in tutte le altre zone della città presidiate pacificamente  dal Genova Social Forum e si ripeterà,  con ancora più violenza nei confronti dei dimostranti, il giorno dopo.
Troppe coincidenze,  per pensare che non ci sia stata   un'abile ed accorta regia.

Un vecchio ambientalista genovese
Federico Valerio

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Ho seguito come volontario i lavori dell'ufficio stampa del gsf dal febbraio del 2001 volendo contribuire ad un movimento nonviolento e di contenuti sono imbarazzato dal silenzio mediatico del gsf in questi giorni, le uniche persone che lavorano, si esprimono sono gli avvocati che stanno seguendo con sollecitudine le persone arrestate (per chiarezza: vanno seguite al di là delle presunte colpevolezze o innocenze) e chi organizza le testimonianze (anch'esse faccenda legale e di emergenza)
Mi chiedo se il gsf ha intenzione di lasciare parlare il resto del paese, degli intellettuali, dei politici per se dando al gsf una immagine casuale (anche positiva a volte) e non scelta, o il gsf è finito e segue solo le testimonianze delle giornate del 20 e 21 luglio e delle vicende legali o continua e deve esprimersi sulle sue responsabilità passate, presenti, future. Responsabilità che sono, ad esempio, continuare una ricerca di movimento pacifico e nonviolento. (...)
a questo punto due domande:  i portavoce del gsf? quando tornano? che decisioni hanno preso? a chi dobbiamo rivolgerci se vogliamo
indicazioni? d'ora in poi ogni associazione parlerà per sè? (...) Consapevole delle difficoltà personali, del movimento, delle associazioni vi inoltro questa mail di domande
Enrico Testino

Penso che questo messaggio di Enrico evidenzi un notevole problemi relativo alle modalità consensuali all'interno del GSF. Enrico parla di "decisioni dei portavoce", ma se fossero stati portavoce dovevano riportare la voce dei propri gruppi, altrimenti sarebbero stati dei delegati o dei rappresentanti. Invece ad un certo punto è spuntato questo gruppo di pseudo portavoce che si  è auto-nominato parlamentino esclusivo per tutto il movimento. E se a un certo punto forse poteva esserlo per le associazioni da cui provenivano i  "portavoce" non certo poteva e soprattutto potrà valere per tutte quelle persone che non hanno, e forse non per caso, una appartenenza associativa che tra i 200.000 non erano poche.
Analogamente è successo in alcuni gruppi. Il "solerte" Stefano Lenzi ha deciso autonomamente di avere la responsabilità del gruppo stampa formato da un certo numero di persone che si sono date disponibili ed è perfino arrivato a decidere da solo chi ci poteva stare e chi no escludendo di fatto chi aveva deciso di "cacciare".
Attualmente a gestire gli aspetti "legali" sono rimaste soprattutto persone che si erano attivate negli ultimi tempi e che per altro pare abbiano ben imparato a delimitarsi la loro parte di "potere". Con la scusa che il materiale è delicato vengono escluse dalla collaborazione molte persone che si sono date disponibili coinvolgendo solo coloro che eseguono le indicazioni di pochi senza fare tante domande sulle scelte.
Per non aver accettato una organizzazione verticistica in cui i "capetti" decidevano per tutti, rivendicando di agire "senza rappresentare nessuno" come in varie volte mi è stato rinfacciato, sono sempre stato guardato con diffidenza e osteggiato.
Per aver cercato di diffondere il più possibile l'informazione in modo da rendere quante più persone partecipi nelle scelte spesso sono stato escluso dall'informazione stessa dovendomela andare a cercare da solo.
Nonostante questo, o forse anche per questo, sono riuscito, con poco aiuto da parte di altri, a creare un rapporto anche con i mass media, che ha creato un notevole cambiamento di attenzione e disponibilità nei confronti dei  "nostri" temi e penso ancora adesso sia uno dei migliori risultati del  GSF.
Ma aver osato dire che anche il GSF aveva fatto degli errori mi ha perfino procurato delle minaccie.
Penso che la questione dei processi decisionali, della qualità dei decisori (nel caso si intenda identificarli) e delle modalità di comunicazione debbano essere i primi temi da affrontare prima che questa nuova "rivoluzione" finisca guidata da direttori che fanno rimpiangere gli attuali governanti.
Un altro mondo è possibile prima di tutto se sarà possibile un altro modo di decidere. Altrimenti sarà il solito "un passo avanti e due indietro". E non basterà una assemblea universale via Internet se poi buona parte dei  "capetti" neanche sa cosa si dicono le persone del movimento perché non hanno tempo di leggere le cose che vengono scritte. La democrazia
partecipativa non basta auspicarla, bisogna provare ad attuarla.
Carlo Schenone

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11 agosto, ore 15.30

COMUNICATO STAMPA GENOA SOCIAL FORUM - GENOVA

Lunedì mattina il tribunale di Genova procederà al riesame delle posizioni  dei 26 ragazzi e delle ragazze del Folx karavane theatre, arrestati il 22 luglio e deciderà se proscioglierli dalle gravi accuse che sono state loro mosse. L'incredibile accusa che viene loro contestata è "associazione armata finalizzata alla devastazione e al saccheggio", sulla base di attrezzature per il teatro itinerante scambiati per strumenti atti a offendere.
Si tratta di artisti di strada, persone che attraverso il teatro hanno scelto di prendere posizione sulle tematiche del razzismo e della globalizzazione, e di essere con noi, col linguaggio pacifico e non violento della rappresentazione teatrale itinerante, nelle giornate del 19-21 luglio.
Genova per loro era una tappa di una tournee vasta, che li aveva portati in diverse città europee.
Il GSF di Genova, che da subito ha chiesto verità e giustizia per tutti, porterà solidarietà a questi artisti e ne chiede la liberazione così come ha già fatto il Governo austriaco, l'europarlamentare austriaca Kareen Scheele, il Premio Nobel Dario Fo e molta stampa internazionale.
Essi sono per noi il simbolo di una strategia giudiziaria finalizzata a colpire tutto il nostro movimento.
Organizziamo un sit-in, al quale è invitata tutta la cittadinanza, davanti al Palazzo di Giustizia di Genova Lunedi' 13 a partire dalle ore 9.00. Saranno con noi artisti e gente di teatro.
Ciò che è in gioco non sono solo le vicende giudiziarie di queste persone, ma il diritto stesso ad esprimere il dissenso in maniera pacifica e non violenta, il diritto a dire, ognuno col proprio linguaggio, che "un altro mondo è possibile".
Ciò che è in gioco sono i diritti civili di tutti noi.

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INTERVISTA A MONS. DIEGO BONA PRESIDENTE DI PAX CHRISTI ITALIA
"LA STAMPA" mercoledì 15 agosto 2001

NOI cattolici non possiamo restare indifferenti al grido d'aiuto dei poveri. E' giusto scendere in piazza per dare voce al Terzo Mondo ridotto al silenzio. Ed ora, dopo l'anti-G8, nulla è più come prima». 
Monsignor Diego Natale Bona, presidente del movimento internazionale «Pax Christi» e vescovo di Saluzzo, cita don Milani per dettare la linea dell'associazionismo ecclesiale antiglobal: «chi non si schiera, sta con i ricchi». Monsignor Bona, il mondo cattolico si è diviso sui fatti di Genova ?
«Abbiamo analizzato ogni dettaglio della contestazione. Siamo tra i fondatori della rete Lilliput ed è nostro dovere tenere alta la speranza nata da una colossale mobilitazione dei cattolici, impossibile da immaginare solo un anno fa. Più che diverse letture, nella Chiesa si confrontano diversi modi di mettere in pratica la dottrina sociale ecclesiale. A volte è questione di sfumature. Con Comunione e Liberazione, che ha criticato i cattolici antiglobal, possiamo pure avere obiettivi in comune, ma le strade percorse per raggiungerli differiscono. Stesso fine, stili diversi».
Può farci un esempio ?
«Prendiamo il tema della giustizia sociale. Eravamo rimasti in pochi a confrontarci sul tema dell'equa distribuzione delle risorse. Dopo Genova è tutto un proliferare di forum ed iniziative di riflessione. 
Ci rendiamo conto, però, che per ottenere risultati concreti e di ampio respiro occorre avere un progetto. Il volontariato e l'associazionismo ecclesiale devono ricompattarsi per aree omogenee, altrimenti si rischia di sperperare l'immenso patrimonio ideale del movimento antiglobal».
C'è qualcosa che non è andato come pensavate ?
«Sì, quando abbiamo consegnato il nostro programma a Vattani eravamo fiduciosi che fosse seriamente preso in considerazione dagli otto grandi. Bisogna riconoscere che nel documento finale del summit c'è ben poco della nostra impostazione. Evidentemente leader dell'Occidente industrializzato non hanno messo al centro dei colloqui l'orientamento solidaristico e l'attenzione agli indigenti. Come cattolici, poi, dobbiamo assolutamente darci un regolamento interno che escluda ogni forma di violenza, perché l'anti-G8 è stato un momento molto alto che richiede un progetto di spessore, in grado di saldare le varie componenti. Un movimento non può reggersi soltanto sulla consonanza di ideali, va strutturato lo spontaneismo emerso durante la contestazione».
Non c'è il rischio di confondersi con le frange estremiste ?
«Oggi è assurdo agitare lo spettro della lotta armata. Il movimento sceso in piazza a Genova allarga gli orizzonti della Chiesa e della società. A noi impegnati a dialogare con il popolo di Seattle i violenti hanno provocato danni immensi. Non c'è da stupirsi se nel mondo cattolico ci interpretazioni tanto diverse della contestazione e non si può demonizzare nessuno, ma occorre riflettere e agire con coerenza. Come seguaci del Vangelo non possiamo non schierarci, non
possiamo non prendere posizione di fronte a un mondo fatto di pochi ricchissimi e miliardi di disperati. Don Milani ci ha insegnati che davanti alle ingiustizie chi si proclama neutrale, dopo due settimane, si schiera dalla parte dei ricchi».
E adesso cosa farete ?
«Abbiamo verificato una crescita di interesse straordinario attorno alle nostre tradizionali battaglie per il Terzo Mondo. Tanti giovani cattolici hanno scoperto il fascino della solidarietà e del concreto impegno a favore dei bisognosi. Rispetto al colossale potere economico delle multinazionali, è questo il nostro patrimonio da investire nel modo più produttivo. Per noi di Pax Christi è normale fare da cerniera tra mondi diversi. Sa da quando i pontefici si rivolgono non solo ai credenti, ma agli uomini di buona volontà? Dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII. Allora la guerra atomica era più di una minaccia, adesso sarebbe utile a tutti ascoltare attentamente il Papa.
Soprattutto quando parla di giustizia sociale».

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DOCUMENTO (da La Stampa)

Fermi alla "Diaz": ecco il verbale della Polizia

Di seguito pubblichiamo ampi stralci del verbale che la polizia ha inviato alla Procura della Repubblica di Genova dopo i fermi nella scuola Diaz.

«Il 22 luglio, alle ore 3», nell'ufficio «trattazione atti presso il VI° Reparto Mobile della Polizia di Genova, noi sottoscritti Ufficiali e Agenti di Polizia Giudiziaria, al Servizio Centrale Operativo di Roma, alle Squadre Mobili di Roma, Napoli, Genova, La Spezia e Nuoro , diamo atto che all'1,30 circa, in via Cesare Battisti nell'istituto scolastico Diaz al termine di una perquisizione domiciliare, abbiamo proceduto all'arresto» delle 93 persone in elenco perché «responsabili di
associazione per delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio nonché, in concorso tra loro, di detenzione abusiva di arma da guerra (bombe molotov). Si è resa necessaria l'adozione della misura pre-cautelare
(il fermo n. d. r.) per i fatti di seguito elencati».
«Alle 22,30 circa un contingente della Polizia» mentre transitava «in via Cesare Battisti, davanti alla scuola Diaz, veniva fatto oggetto di un violento lancio di oggetti contundenti da parte di numerose persone, verosimilmente appartenenti alle cosiddette "Tute Nere"», attuando «un tentativo di aggressione» agli agenti «Alla luce dei gravissimi disordini che il 20 e 21 luglio» c'erano stati in centro città, «e determinati dalla condotta eversiva delle cosiddette "Tute Nere", responsabili di
gravissimi episodi di devastazione e saccheggio e di atti di violenza verso le Forze dell'Ordine», gli agenti «erano costretti ad allontanarsi immediatamente dal luogo, anche per far convergere sul posto contingenti di rinforzo. Esemplificative sono le drammatiche immagini che le tv» di tutto il mondo «hanno mandato in onda e che hanno consentito di percepire nei
termini adeguati le difficoltà incontrate dalle Forze dell'Ordine nel contenere la violenza dei citati manifestanti sia contro le persone che verso i beni materiali. Nel dettaglio, le riprese tv hanno evidenziato i ripetuti e violenti lanci di molotov che hanno causato incendi in diversi punti della città coinvolgendo autoveicoli, esercizi commerciali ed arredi urbani». Ciò premesso «e in considerazione della concreta possibilità che la scuola Diaz fosse rifugio delle frange estreme delle "Tute Nere"» veniva organizzato «un adeguato programma d'intervento finalizzato 
1) alla ricerca di armi o materiale» esplosivo «che in quel luogo poteva essere occultato, 
2) all'identificazione dei responsabili dell'aggressione che poco prima aveva coinvolto gli agenti di Polizia,
3) all'identificazione dei responsabili dei gravissimi disordini citati. 
Appena giunti sul luogo, gli agenti notavano un gruppo di giovani che alla loro vista» ed eravamo «chiaramente riconoscibili dall'uniforme o per le casacche», con l'obbiettivo «di compromettere lo svolgimento dell'operazione di polizia giudiziaria», chiudevano la scuola dall'interno «impedendo che gli agenti vi potesse entrare». [...] In questo modo - scrive chi ha redatto il verbale - i ragazzi hanno avuto «il tempo necessario per occultare armi e per organizzare un'attiva
resistenza». Gli agenti, «dopo aver forzato il cancello d'ingresso utilizzando un furgone» ed essere entrati dell'edificio «subivano un fittissimo lancio di oggetti di ogni genere». Tutto questo «rafforzava il profondo convincimento che effettivamente nella scuola i giovani manifestanti» avessero « armi di ogni genere. Pertanto appena riusciti a forzare il portone d'ingresso, veniva effettuata una perquisizione ai sensi dell'articolo 41 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza. I
giovani presenti all'interno, resisi conto» dell'arrivo della polizia «cercavano di resistere ulteriormente: prima ingaggiando
colluttazioni con gli agenti, poi disperdendosi per i vari piani dell'edificio, anche per poter tendere inaspettatamente ogni sorta d'agguato». «Quanto segnalato trova conferma nell'accoltellamento al torace dell'agente Nucera Massimo, in forza al Nucleo Antisommossa del I° Reparto Mobile di Roma, episodio che non aveva ulteriori e drammatiche conseguenze solo grazie all'utilizzo da parte dell'agente di un giubbotto protettivo. La resistenza» dei ragazzi era vinta «solo grazie alla
presenza di un nutrito contingente di poliziotti». Nel referto, a questo punto, si racconta che «nelle concitate fasi d'ingresso e durante la colluttazione, i giovani provvedevano intenzionalmente a lanciare verso ogni luogo i propri zaini, ciò, evidentemente, per rendere impossibili le operazioni di attribuzione delle responsabilità penali relative all'eventuale rinvenimento di armi. La cui ricerca, resa ancor più complessa proprio in considerazione dell'atteggiamento di questi
giovani, consentiva di trovare e sequestrare, i seguenti oggetti: 2 bottiglie contenenti liquido infiammabile e innesco, cosiddette «molotov»; 7 coltelli a serramanico, con manico in legno di varie dimensioni; 10 coltelli, tipo svizzero, manico in plastica, di varie dimensioni; 1 coltello multiuso in acciaio; 1 coltello multiuso con manico in plastica nero; 2 coltelli da cucina in acciaio; 1 coltello da cucina con manico in legno; 1 coltello da cucina con manico in plastica nero; 1 paio di forbici da cucina; 1 set da tasca di chiavi esagonali e cacciavite; 2 mazze da carpentiere con manici in legno; 1 piccone con manico in plastica dura; 1 pala da carpentiere con manico in legno; 1 mezza bottiglia di plastica con chiodi; 1 tubo Innocenti ricurvo; 1 Kriptonite, con due chiavi; 3 mazze di ferro; 6 mazzette in alluminio ricurve; 2 spuntoni di ferro; 5 bombolette di vernice spray; 2 thermos; 2 dadi in alluminio; 1 scatolato in ferro; 1 lastra in porfido; 2 cinghie borchiate; 1 cinghia metallica; 1 cinta in tela; 1 bracciale cuoio borchiato; 1 catena in ferro legata ad una camera d'aria; 1 elastico di gomma; 4 contenitori per sostanze lacrimogene del tipo usato dalla polizia; 1 capsula spray urticante usata; 1 manetta in ferro; 15 maschere antigas; 8 maschere da sub; 13 occhialetti da piscina; 1 filtro maschera antigas; 3 caschi da motociclista; 2 caschi da cantiere; 1 brandello di bandiera rossa; 1 parrucca color castano; 1 rotolo di imballaggio; 5 passamontagna modello Mefisto; 1 cappello lana nero; 3 mascherine paraocchi da lavoro; 6 parastinchi di plastica uso sportivo; 4 ginocchiere di tipo sportivo; 11 protezioni fisiche artigianali di plastica resistente; 1 paio di guanti di lana nera; 2 minidisk di marca Sony; 6 rullini; 3 cassette audio; 1 floppy disk privo di etichetta; 3 cellulari; 17 macchine fotografiche; 2 walkman; 1 agendina di colore rosso e nero; una bustina trasparente contenente 14 pasticche di colore bianco; 4 capsule con polvere marron e una capsula vuota; 1 bandiera rossa con effigie riportante pugno chiuso di colore giallo; 1 striscione di 10 metri di lunghezza con sfondo nero ed effigie in giallo con su scritto «you can't forbit it and you can't ignore it you try to frighten but you will not stop it» seguita da una stella a cinque punte; 60 magliette nere, alcune con scritte inneggianti alla resistenza, alla violenza e contro lo Stato; 15 pantaloni neri; 16 giacche nere; 17 giubbotti neri; 5 sciarpe nere; 4 cappelli neri; una pettorina gialla con la scritta «giornalista»; un'agenda blu con la cartina topografica di Genova con riportate a penna indicazioni sulle zone della città interessate ai cortei; vario materiale cartaceo e striscioni di cartone».
«A carico del cittadino tedesco Szabo Jonas, 24 anni, sono stati sequestrati 2 coltelli multiuso; 1 coltello a serramanico e 8 fogli dattiloscritti in lingua inglese, numerati da pagina 3 a pagina 11 e privi della pagina 10 [..]. Quanto sequestrato sostiene l'ipotesi investigativa relativamente alla localizzazione del luogo destinato dai vertici dell'organizzazione delle "Tute Nere" ad accogliere i militanti provenienti da tutta Europa per il G8. Tale luogo era evidentemente indispensabile per il necessario supporto logistico e per attuare l'obbiettivo, attraverso devastazioni e saccheggi, attentati a impianti di pubblica incolumità, detenzione ed uso di armi anche da guerra. 
La certa appartenenza dei citati giovani all'organigramma delle "Tute Nere" è, peraltro, pienamente confermata dal ritrovamento e dal sequestro di numerosissimi capi di abbigliamento proprio di quel colore. Non sarebbe altrimenti spiegabile la presenza nella Diaz di numerosissimi giovani di diversi paesi europei. Quanto accertato consente di stabilire che il sodalizio in oggetto si sia palesemente interessato di reperire sia i mezzi per raggiungere il luogo convenuto che le armi indispensabili per realizzare i delitti indicati». «Il contenuto di un manoscritto trovato fra gli effetti personali di Szabo
Jonas, consente, inoltre di stabilire che egli è uno degli esponenti di maggior rilievo» delle "Tute nere", perché il testo «descrive nei dettagli la preparazione di un giubbotto speciale da usarsi in occasione di contatti con le forze dell'ordine» . Questo «conferma la posizione di rilievo di Jonas nell'organizzazione, e dimostra che la Diaz era il luogo destinato alla pianificazione strategica e al materiale confezionamento degli strumenti destinati all'offesa delle forze dell'ordine.[...] «Dai fatti narrati» si intuisce «anche il programma criminoso dell'organizzazione» che voleva compiere «una serie non determinata di delitti». Pare ovvio, anche, che [...] «ogni componente dell'associazione avesse la consapevolezza che il suo atteggiamento contribuiva in maniera determinante alla realizzazione delle comuni finalità». [...] Nel corso della perquisizione, sono stati feriti numerosi giovani presenti nella scuola, alcuni dei quali ancora ricoverati in ospedale, e molti agenti di polizia...». (29 luglio 2001)

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Ripensiamo, amici, a ciò che è accaduto a Genova, ma smettiamola di parlare solo di botte e manganellate, degli episodi di violenza accaduti nelle giornate del 20 e del 21 se ne è già parlato e se ne continuerà a parlare ancora tanto (speriamo!!!), ma questo non è l’unico fatto scandaloso che è accaduto a Genova. È giusto denunciare le violenze che sono state consumate da parte di polizia e carabinieri all’indirizzo di tutti, pacifisti compresi, ma DOBBIAMO ANDARE OLTRE, non dobbiamo fermarci alla cosa più eclatante. Dobbiamo assolutamente urlare la nostra indignazione nei confronti di quegli otto grandi… (al posto dei puntini potete aggiungerci quello che vi pare!) che si sono seduti attorno ad un tavolo con la presunzione e la pretesa di farci credere di voler risolvere i problemi dei poveri della terra! … e che alla fine del summit hanno avuto la faccia tosta di dire, per bocca di Bush e Putin, che “i manifestanti di Genova non rappresentano i poveri della terra, non hanno alcun mandato da quanti soffrono in tutto il mondo e pertanto la loro protesta appartiene in realtà ai paesi ricchi”. Forse mi sfugge un dettaglio, ma loro che si sentono così autorizzati a decidere del destino del mondo, sono forse stati legittimati dai poveri della terra? Non sono forse loro per primi i rappresentanti dei paesi ricchi?!!
Questo è il mio suggerimento: accantoniamo un attimo il discorso dei manganelli di Genova e riflettiamo di più su quello che hanno deciso (o forse sarebbe meglio dire non hanno deciso), i rappresentanti dei paesi più ricchi della terra per “aiutare” i più poveri. Di questo e del perché 200mila persone siano arrivate a Genova, penso che dovremmo parlare nell’incontro di Lilliput di settembre, sia che si faccia a Bologna, sia che si faccia altrove, perché altrimenti rischiamo di fare il Loro gioco…
L’ultima cosa, poi vi lascio in pace: ho sentito che da più parti è stato sollevato il dubbio se sia gusto o meno continuare a far parte del movimento antiglobal continuando a convivere con esperienze molto diverse dalla nostra. Per quel che mi riguarda, sono un convinto sostenitore di questo movimento anche per la sua eterogeneità, però sarei anche favorevole a discutere sulla possibilità di manifestare nei prossimi due appuntamenti (Napoli e Roma) separatamente dai centri sociali. Questo non per prendere le distanze dalle altre realtà del movimento, a cui in realtà mi sento molto vicino, ma perché sono stanco di leggere sui giornali che a Genova eravamo 200mila persone di cui circa 2mila black block e 10mila giovani dei centri sociali; …e gli altri 188mila chi erano? Inoltre c’è un discorso di sicurezza, la nostra sicurezza, dopo quello che è accaduto a Genova c’è poco da stare allegri, soprattutto se si pensa che il prossimo appuntamento sarà a Napoli, dove i disoccupati organizzati sono presenti a tutte le manifestazione con l’unico intento di fare casino, quindi si rischierebbe di nuovo di prendere delle manganellate perché qualcuno che non fa parte del movimento viene lì a rompere le palle solo per catalizzare l’attenzione dei media. Questo è un argomento importante, che probabilmente meriterebbe di essere approfondito perché ho già sentito più persone che non parteciperanno alle prossime manifestazioni per paura di prendere delle botte. Se invece facessimo le manifestazioni di tutti i movimenti pacifisti del Gsf in altre città (Bologna e Firenze), molto probabilmente riusciremmo a raccogliere molte più adesioni e potremmo vedere in piazza anche le famiglie e i ragazzini delle scuole, e finalmente faremmo parlare di noi!

un saluto da Alessandro

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 Basta con le radicalizzazioni!
La gente comincia a prendere le distanze dal Genoa Social Forum e si corre il rischio che sia etichettato come movimento violento e intollerante. Così passiamo dalla parte del torto! Il fascino tremendo delle barricate lo dobbiamo abbandonare, come ha scritto di recente Dario Fo. Occore rimboccarsi le maniche e dialogare con la gente fare un lavoro di contatto persona per  persona, una sorta di "porta a porta". E' altrettanto chiaro che a poliziotti e carabinieri il "popolo di Seattle" è stato dipinto come uno spauracchio. Molti di loro non solo non condividono motivi della contestazione ma li ritengono al di fuori  della legge. Responsabili delle violenze sono i vertici dello Sco e i dirigenti dei Nocs. I black block hanno disturbato e invaso i cortei pacifici di Genova. Ma le forze dell'ordine hanno fatto di tutta l'erba un fascio e sono arrivate a violenze nei confronti di manifestanti incolpevoli.
Ho molti amici tra i Carabinieri, la polizia, la guardia di finanza, l'aeronautica e l'esercito. In questi ambienti circola in effetti una mentalità squadrista ed anti-democratica. Del resto non possiamo dimenticarci della lezione di Pier Paolo Pasolini che durante gli scontri di valle Giulia a Roma nel 1968 prese posizione a favore dei poliziotti perché per un misero stipendio e per necessità di lavoro furono mandati a sedare i manifestanti che, per la maggior parte erano "figli di papà". Il ministro degli interni Scajola ha fatto notare che le forze dell'ordine non erano pronte ad affrontare la guerriglia urbana. Così queste hanno pensato bene di picchiare e far male alla gente! Quante persone innocenti e non facinorose hanno picchiato! Come non dimenticare poi le strumentalizzazioni politiche da parte dell'opposizione e da parte del governo! Si poteva immaginare che non sarebbero mancate! L'opposizione ha accusato il governo di aver cambiato i piani per Genova durante gli ultimi giorni e il governo ha accusato la vecchia maggioranza di essere responsabile delle violenze di Genova a causa dei piani che aveva preparato!
Non dobbiamo perdere la nostra opposizione contro i potenti e la nostra opzione per i deboli ma dobbiamo anche essere capaci di formulare proposte alternative, di vivere stili di vita più sobri ed equi. Pensiamo al consumo critico e al commercio equo e solidale. Dobbiamo lavorare per disegnare una società meno ingiusta di quella in cui viviamo. Sono in tanti coloro che già lo fanno in modo discreto come la rete di lilliput, bilanci di giustizia, la rete del commercio equo e solidale, alcuni ONG e altri ancora. Credo che ora sia tempo di intensificare questo lavoro, di declinarlo in tutti i risvolti sociali, economici, ambientali possibili. L'obiettivo di certo non deve essere quello di fare proselitismo ma occorre  una guerra dei contenuti, dell'approfondimento delle tematiche della salvaguardia del creato e quindi dell'ecologia, della globalizzazione (che è cosa buona!) e del suo rapporto con la mercantilizzazione (che è cosa cattiva!), della  mondialità, dell'intercultura, della finanza etica, del turismo responsabile. Da Seattle in poi c'è un fermento, una rinnovata stagione di impegno sociale che ora bisogna lasciare che si espanda a macchia d'olio. Bisogna fare proprio una bella chiazza in modo che i potenti ci scivolino sopra e si facciano male, molto male!
Dobbiamo sostituire le manifestazioni a rischio di violenze con degli happening di festa! Dobbiamo fare festa. La festa destabilizza il sistema, è "un altro tempo", è il tempo della solidarietà, dei rapporti sociali, dell'espressione della creatività...
Giuseppe Vitale

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      Genova, vista da quaggiù (di Fabio Pipinato, 22/08/2001)

      Dal Kenya, Fabio Pipinato, già direttore di Unimondo e ora cooperante nel continente africano ci scrive: "Non usano mezzi termini gli opinionisti locali: il G8 un coro di ipocrisie ed ambiguità".
      The Nation, il giornale più letto in Kenya, riporta quasi quotidianamente scritti di politologi e saggisti riguardo i fatti accaduti durante l'ultimo G8. Non usano mezzi termini gli opinionisti locali nel definire il G8 un coro di ipocrisie ed ambiguità essendo i loro paesi esclusi dal meeting annuale.
      Anche gli altri maggiori giornali africani, da Jeune Afrique a The Sunday Indipendent, si sono apertamente schierati con il movimento di protesta per quanto contraddittorio esso sia stato nelle sue diverse anime. Senza questo movimento transnazionale non sarebbe però stato possibile, a loro avviso, 'allargare' il prossimo anno il G8 a dieci governi africani
impegnati sulla strada delle riforme suggerite dal Fondo Monetario Internazionale.
      Ma non si tratterà affatto di un G18 (10+8) ma di un meeting parallelo con tutt'altra Agenda. I Governi, diversamente dagli opinionisti sovracitati, hanno purtroppo accolto l'invito ad andare nelle montagne rocciose del Kanakaskin per il 2002, come una vittoria. Non siamo distanti dal periodo post-coloniale ove i neo governi erano abituati a rincorrere i
donors o le concessioni dei Paesi più industrializzati dimostrando nel contempo incapacità di auto-progettazione economico-politica indipendente.
      Dall'altra parte della barricata vi sono invece alcuni componenti del network per i Diritti Umani del Kenya i quali hanno avanzato l'idea, dopo i fatti di Genova, di un percorso di formazione alla nonviolenza rivolto al 'Popolo di Seattle' con docenti dal Sud del mondo.
      Qui le manifestazioni di protesta hanno infatti cadenze mensili e la polizia non è certo migliore di quella italiana ma vi è forse una maggiore capacità da parte dei contestatori di identificarsi come movimento con un servizio d'ordine che allontana proprio i più esaltati. E' inutile dire che a capo di molte di queste manifestazioni è presente il trentino padre Alex
Zanotelli.
      Recentemente è stata sospesa con la forza una manifestazione a favore della cancellazione del debito estero. Ciò sta a dimostrare che la violenza è sempre accompagnata dall'ignoranza ed entrambe non hanno confini. La manifestazione andava infatti a favore dei conti pubblici del governo che l'ha soppressa.
      Essendo il Kenya tra i paesi più indebitati proprio con i Paesi del G8 si auspicava una definitiva cancellazione del debito estero, ma dal meeting di Colonia in Germania a quello di Okinawa in Giappone le promesse per la
cancellazione del debito sono identiche a quelle fatte a Genova. Sin d'ora solo 23 Paesi dei 41 più altamente indebitati hanno beneficiato di una qualche riduzione pari a 53 miliardi di dollari su un ammontare totale di 2550.
      La cancellazione permetterebbe di far fronte, se venissero utilizzati a dovere i fondi con mirati controlli, a bisogni essenziali della popolazione residente e non. I rifugiati in questo paese sono infatti moltissimi a causa delle guerre circostanti.
      A proposito di guerre circostanti sarebbe impensabile a Nairobi un meeting di Capi di Stato, magari presieduto dall'OUA (Organizzazione per l'Unità Africana) che non affronti il drammatico problema dei Grandi Laghi, forse perché l'attuale mediatore è Nelson Mandela ed il precedente il compianto Maestro Julius Nyerere. Sembra invece possibile un meeting a Genova ove il conflitto macedone e la stabilità nei Balcani non solo non faccia parte dell'Agenda dei Big ma nemmeno di quella dei contestatori. La solidarietà che entrambi propinano, in modi diversi, fuori o dentro la zona rossa, evidentemente non inizia dai rapporti di vicinato ma è una solidarietà lontana.
      All'ordine del giorno c'era invece la lotta all'AIDS. La promessa di un fondo internazionale di un milione di dollari fatta dagli otto big per far fronte alla piaga è stata ripresa dagli opinionisti locali, a differenza di giornali come Le Figaro ed il Wall Street Journal, come una grande farsa.
      A nessuno dei giornali africani, da me consultati, è infatti sfuggito che il Segretario Generale delle Nazioni Unite Koffi Annan aveva chiesto dieci volte tanto solo come fondo di emergenza. E di AIDS in Africa si muore nonostante la recente vittoria a Pretoria del Ministero della Sanità Sudafricano contro le Multinazionali farmaceutiche che ha permesso un estendersi della normativa anche all'Est Africa.
      Anche la proposta di portare l'alta tecnologia nel Sud del mondo, con l'unico documento ufficiale approvato in sede G8, è sembrata assai illusoria. Nei paesi industrializzati la scelta di portare internet là dove ci sono le capanne è sembrato a molti più un business della telefonia che un concreto aiuto mentre qui, dall'altra parte dell'equatore, in molti attendono un accesso meno oneroso all'alta tecnologia per inserire le microimprese nel mercato globale.
      Nelle capitali africane vi sono ovunque scuole di ingegneria multimediale ma il problema non è la formazione ma il costo del bene. Anche internet come il cemento, i farmaci ed altri beni fondamentali che permetterebbero lo sviluppo sono controllati dall'esterno ed hanno prezzi esorbitanti. A titolo di esempio io pago £ 60.000 al mese (pari allo
stipendio minimo di un operaio locale) per la sola connessione alla posta elettronica, attraverso un server che dista duecento chilometri dalla mia attuale abitazione.
      Gli otto grandi baderanno bene in futuro, come è accaduto per la cancellazione del debito, a promettere e nel contempo controllare la limitata espansione di questo bene che ha avuto una rapida diffusione in altri Paesi del sud del mondo come l'India, già leader internazionale in pochi anni. Non è un caso che le compagnie aeree come la Swiss Air stiano fuggendo dall'Europa per rifugiarsi nel Subcontinente indiano ove il costo di ingegneri multimediali è di gran lunga inferiore.
      Sia i capi di stato che le società civili dell'Africa devono smetterla di rincorrere i grandi della terra nelle capitali del nord del mondo e cercare di rafforzare i loro meeting (OUA, gruppo 77), magari organizzandoli parallelamente ai meeting che hanno luogo nel nord del mondo.
      Il Sud, ove è nata la nonviolenza, la capacità di networking (fare rete) proprio della società civile, il microcredito che sta sradicando la povertà in molte microrealtà, ha dimostrato più volte di essere in grado di elaborare una propria Agenda ed un proprio modo di pensare lo sviluppo, nonostante l'incapacità di governo dimostrata dalla maggioranza delle classi dirigenti.
      Come l'America Latina ha creato il World Social Forum a Porto Alegre (Brasile) in contrapposizione al World Economic Forum di Davos (Svizzera) così l'Africa potrebbe elaborare un 'tutt'altro G8' in piena contrapposizione a quello esistente con otto donne di colore in rappresentanza del mondo impoverito al posto degli attuali otto maschi
bianchi in rappresentanza del mondo arricchito; con politiche di sviluppo umano sostenibile al posto di politiche imposte da Istituzioni Internazionali riconosciute solo dai potenti. L'esito di quest'altro G8 non sarà un generico disaccordo sul protocollo di Kyoto ma potrà essere una politica per il 'bene comune'.
      Recentemente il Presidente Senegalese Abdoulaye Wade ha rifiutato all'Eliseo l'offerta di un indennizzo per la schiavitù e la colonizzazione subita in quanto un dramma così intenso non ha prezzo. Uno gesto di dignità fatto di fronte ad uno degli otto big, Jacques Chirac. Un gesto che da speranza al pluriverso di movimenti ed organizzazioni che anche quaggiù lottano per 'un altro mondo possibile'.

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Navigando sotto costa

Scrivere o prendere la parola in pubblico è l’atto politico per eccellenza. Nel ventesimo secolo questo atto politico veniva interpretato contemporaneamente come l’occasione e lo strumento della conquista e dell’egemonia di una parte sul tutto.
Nel ventunesimo secolo questo non è più vero e Genova segna lo spartiacque dei percorsi di cambiamento e innovazione sociale, modifica radicalmente i metodi ed il senso dell’agire comune, cioè della Politica che diviene, finalmente, la condivisione tra pari dello spazio della scelta, l’arte del possibile, progetto di costruzione comunitaria del Comune.
Esiste una frattura, esiste un prima ed un dopo nel nostro interpretare il terzo millenio e la cifra di questa cesura storica insiste nelle giornate del 20 e 21 luglio 2001.
Ci pare che vi sia una centrale differenza tra quanto abbiamo compiuto a Seattle e quanto si è verificato a Genova. Le straordinarie giornate di Seattle hanno sostanzialmente mostrato al Mondo come fosse possibile fermarli, hanno realizzato ciò che per molti, sinceramente anche di noi, era solo un sogno collettivo: violare la legittimità dell’Impero a dirigere spocchiosamente dei destini del Mondo.
Ma i ragazzi di Seattle hanno fatto qualcosa di più: ci hanno spiegato che per fermarli è necessario essere in molti e capaci di ascoltarsi, di camminare insieme. Seattle ci ha detto che per cambiare il loro Mondo è necessario condividere i nostri Molti Mondi.
A Seattle perciò l’Impero ha perso. Si badi che non ha tanto perso militarmente, anche se poi il vertice è stato sospeso, quanto, piuttosto, perduto la vera base su cui costruisce il suo Potere: il consenso.
Dopo Seattle il movimento di movimenti ha compiuto molta strada, è cresciuto, si è ampliato nei temi, nelle sensibilità e nelle culture che hanno cominciato ad attraversarlo ed è arrivato a Genova con tre punti di forza in più: la capacità effettiva di costruire un altro Mondo possibile, un consenso sociale enorme, mai conosciuto dai movimenti dello scorso secolo, la capacità di dialogo e la volontà di camminare insieme di “cattolici” e “laici”.
Questo ultimo quid ci sembra straordinariamente importante perché ha permesso di trovare lessici comuni a due mondi fino a ieri artificiosamente separati dalle diversità di linguaggio e di biografie, rendendoli capaci di dialogare ed una delle scommesse più affascinanti per i nascenti Social Forum insiste proprio sulla capacità di continuare il dialogo tra “cattolici di base” e “disobbedienti”.
A Genova l’Impero non sono è stato reso nudo, ma le moltitudini dispiegate nella lunga, straordinaria e tragica settimana di luglio lo hanno terrorizzato perchè il consenso della Società Civile era con noi e perché nei piccoli passi compiuti insieme, nel nostro essere uniti nelle differenze, abbiamo dimostrato di poter effettivamente praticare un Mondo Migliore.
L’Impero si è trovato con le spalle al muro e la scelta che ha operato è stata di massacrare e distruggere militarmente le nostre idee e di recidere i nodi delle nostre reti con un colpo di spada, militare, violento, assassino.
Genova rappresenta una frattura, che obbliga tutti noi a ridiscutere molte delle scelte che abbiamo fatto: dobbiamo essere onesti e riconoscere che le certezze che avevano supportato il nostro percorso verso Genova, sono venute meno e che dobbiamo essere capaci di ripensare il nostro agire comune tra molti, ripensare il nostro cammino, senza abbandonare alcuni punti fermi che devono sopravvivere e che sarebbe miope, ed anche un po’ incosciente, abbandonare.
Tra questi il più importante è sicuramente il nostro, vostro, desiderio di continuare a ragionare insieme, a discutere, anche aspramente quando serve: camminare domandando nei territori sociali dove la Società Civile si sta già preparando e organizzando in decine di Social Forum, cantieri di un autunno che ci permetterà di ritornare a concentrarci sulla parola, sugli universi di discorso che vogliamo ricominciare a costruire, insieme.
E’ anche per Carlo che dobbiamo dirigere la prua delle nostre barche verso approdi comuni, navigando sotto costa, capaci di scrutare piccole insenature, golfi, fiordi e baie tutte diverse l’una dall’altra, tutte capaci di realizzare un mondo migliore, fatto di equità, solidarietà, democrazia, un Mondo agito comunemente.
Che è già in costruzione.

                                                                                          Gianmarco De Pieri CS TPO
                                                                                          Laboratorio Disobbedienza Sociale dello Stadio Carlini

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GENOVA,  20/21 LUGLIO 2001:

DOVETE SAPERE LA VERITA'!!!!!

Sono Daniele Simondi, di Dronero (CN) e ho deciso di scrivere queste pagine perché, dopo essere stato a Genova per la protesta contro il G8, sono tornato a casa e ho scoperto che i telegiornali vi hanno raccontato un sacco di bugie e vi hanno mostrato solo una parte di ciò che è successo. Io c'ero e senza troppe pretese voglio comunicarvi ciò che ho vissuto, visto e sentito in due giornate impossibili da dimenticare.
Per combattere la disinformazione televisiva, invierò questo resoconto (ovviamente limitato alla parte di eventi di cui sono stato diretto o indiretto testimone) a tutti gli indirizzi e-mail che riuscirò a recuperare nei messaggi pervenutimi in passato. Mi scuso quindi fin d'ora se queste pagine arriveranno anche a chi non è interessato (anche a queste persone chiedo però di leggere ciò che ho scritto, perché in pochi minuti potranno avere l'occasione di farsi un'idea di ciò che è davvero successo laggiù).
Le mie capacità sono estremamente limitate e invito quindi tutti coloro la cui voglia di verità sarà stuzzicata dalla mia piccola testimonianza a visitare il sito internet www.retelilliput.it, dove troveranno ampie e fondate delucidazioni.
A tutti coloro che mi conoscono chiedo di farmi sapere che ne pensano, perché in questo momento è più che mai necessario aprire un profondo dibattito su quanto è successo.
Se poi, invece di fidarvi della televisione bugiarda che cerca di governare le nostre menti, sceglierete di credere al sito della ReteLilliput e alle altre organizzazioni nonviolente che hanno partecipato alla manifestazione di Genova, allora vi chiedo di inoltrare a tutti gli indirizzi della vostra rubrica questo messaggio.
Sono cose che la gente deve sapere: la protesta anti-G8 non è stata solo guerriglia urbana come hanno mostrato i telegiornali.
Anzi, probabilmente la guerriglia urbana è stata abilmente sfruttata dai potenti per delegittimare e zittire la protesta pacifica, di gran lunga superiore numericamente (almeno 150mila pacifici contro poche migliaia di violenti).
Eccovi la mia esperienza.
VENERDI' 20 luglio 2001
Partiamo da Cuneo in cinque, tutti intorno ai vent'anni, col treno delle 5.30. Giunti a Savona proseguiamo con un treno navetta verso Genova Voltri, una quartiere a Ponente della città, dove il treno si ferma. Più in là non può andare. Proseguiamo quindi in bus, arrivando senza difficoltà nel centro di Genova.
La nostra prima tappa, verso le 9.30, è piazzale Kennedy, sul mare, dove è situato il Centro di Convergenza del GSF (Genoa Social Forum, l'organizzazione che raggruppa tutti i movimenti non violenti che hanno aderito alla protesta contro il G8). Lì ci indicano dove dovremmo dormire quella sera: siccome noi abbiamo due tende e i posti al coperto sono limitati, ci consigliano di raggiungere, alla fine della giornata, il parco di Nervi, abbastanza lontano da lì, ma destinato ad accogliere i manifestanti.
Lasciamo piazzale Kennedy dopo aver visitato gli stand di varie associazioni aderenti al GSF e ci dirigiamo verso piazza Manin, più in alto (Genova, per chi non la conoscesse, è una città in discesa verso il mare).
Questa piazza è occupata dai manifestanti della Rete Lilliput (visitate www.retelilliput.it), l'associazione nonviolenta con la quale vogliamo partecipare alla protesta e alla quale ci sentiamo più vicini come metodi (nonviolenti) ed obiettivi (centrati su commercio equo e consumo critico). In piazza Manin sono stati allestiti dalla Rete Lilliput  diversi banchetti informativi su commercio equo e solidale, finanza etica, spese militari ecc.
Verso le 14 si radunano, sempre in piazza Manin, tutti i lillipuziani e si parte verso la zona rossa, quella rigorosamente off-limits, per attuare un sit-in di protesta davanti alle reti che proteggono questa inespugnabile fortezza (e non è un esagerazione chiamare così un'area chiusa da enormi blocchi di cemento con su montate reti d'acciaio alte quattro metri). La strada che da piazza Manin scende verso la rete della zona rossa è abbastanza lunga e la percorriamo tutti con le mani dipinte di bianco in segno di nonviolenza,  facendoci sentire il più possibile. Si canta "Bella Ciao", si scandiscono slogan come "Genova libera" e "Un mondo diverso è possibile". I genovesi rimasti a casa ci guardano dalle finestre, qualcuno applaude: ricordandoci gli ammonimenti del damerino Berlusconi (che li aveva invitati a non stendere al sole i loro poco dignitosi panni.), urliamo loro "Genovesi fuori le mutande!". Alcuni approvano, fanno segno di aspettare e tornano alla finestra con un bel paio di mutandine, accolti dalla nostra ovazione. Gli elicotteri della Polizia volteggiano su di noi ed ogni volta che si abbassano alziamo le mani bianche verso di loro, gridando "Nonviolenza! Nonviolenza!".
I telegiornali hanno detto che alzavamo le mani in segno di resa: ovviamente non era quello il nostro messaggio. Con grande determinazione, rifiutando categoricamente la violenza, volevamo dire alle forza "dell'ordine" che non ci avrebbero fermati e che la loro presenza intorno a noi non era necessaria.
Che andassero piuttosto a fermare i violenti.ma di questo parleremo più avanti.
 Quando la testa del corteo raggiunge la rete e risulta impossibile proseguire, ci sediamo tutti: la strada che scende da piazza Manin è quasi piena di Lillipuziani pacifici che assediano con la forza delle loro idee e della loro voce gli 8 potenti riuniti dietro la rete d'acciaio.
Il sit-in però non dura molto: stanno per entrare in scena quelli che, pur essendo una frangia nettamente minoritaria della protesta, hanno conquistato con la violenza tutti gli spazi dei telegiornali. I responsabili della Rete Lilliput, informati dell'imminente arrivo dei cosiddetti Black Blocks (teppisti armati vestiti di nero, senza proposte politiche e con tanta voglia di fare a pezzi la città), ci dicono di alzarci e tornare su in cima alla salita, in piazza Manin: c'è il rischio che, restando lì, ci troviamo in mezzo tra la polizia e i teppisti.
Con i miei quattro amici, decidiamo di non seguire il grosso dei lillipuziani, che stanno tornando in piazza Manin, ma di restare lì nei pressi della zona rossa. Adocchiamo alcune possibili vie di fuga laterali, per poter scappare in caso di pericolo. Per un po' non succede nulla, poi dalla cima della salita, preceduti dal lugubre suono dei loro tamburi, compaiono i Black Blocks, tutti con il volto coperto, armati di spranghe, mazze, pietre e bottiglie molotov. Non nego di aver avuto davvero paura, e come me tutti i pacifici dimostranti che si trovavano lì. In realtà, chi doveva avere paura per davvero erano tutti quelli che erano risaliti in piazza Manin, come dirò dopo.
I Black Blocks scendono lentamente, preceduti dai loro tamburi. Noi ci spostiamo ai margini della discesa, con la schiena contro i muri delle case e le mani bianche alzate. Mentre ci passano davanti, gli urliamo con tutto il fiato che ci rimane "Nonviolenza! Nonviolenza! Nonviolenza!" per fargli capire che ci dissociamo completamente da ciò che fanno. Ancora non sappiamo degli scontri che stanno avvenendo tra Black Blocks e polizia nella zona della stazione Brignole. Ci guardano male, ma proseguono verso il fondo della strada, bloccato dalle reti della zona rossa. Dopo il loro passaggio, decidiamo che è meglio andarsene e risaliamo verso piazza Manin per un'altra strada, facendo un giro un po' più largo. Passiamo in strade che sono già state percorse dai teppisti neri: è un disastro, come quelli che avete visto in TV.
Quando arriviamo in piazza Manin, c'è una strana agitazione. Ci raccontano che mentre noi siamo rimasti giù nella via che scende verso la zona rossa, il grosso del gruppo della Rete Lilliput, tornato in piazza Manin, è stato caricato dalla Polizia. - Ma come? - chiediamo - quei teppisti sono scesi giù verso la zona rossa senza che vedessimo l'ombra di un poliziotto e la polizia ha caricato voi?-.
Nessuno ha una risposta, ci spiegano solo che la polizia è arrivata dietro un gruppo di Black Blocks che hanno attraversato la piazza e si è fermata a caricare i lillipuziani, che la aspettavano con le mani bianche alzate urlando "Nonviolenza! Nonviolenza!". Hanno usato i manganelli e ci sono diversi feriti.
Intanto le notizie dei tremendi scontri tra polizia e teppisti giù verso il mare si susseguono e corre voce che ci sia anche un morto. Iniziamo ad essere consapevoli che i Black Blocks stanno rovinando tutto, quando un altro loro gruppo arriva nella piazza. La rabbia che abbiamo dentro esplode. Sono costretti a passare tra di noi fra fischi e insulti. Teniamo sempre tutti le mani dipinte di bianco alzate. Urliamo "Nonviolenza! Nonviolenza! Buuuuuuuu! Bastardi! Fascisti! Andate via!" Sfilano fra di noi col medio alzato, c'è grande tensione. Uno di loro lancia una spranga contro il gruppo lillipuziano, volano verso di noi anche alcune bottiglie, ma poi i teppisti se ne vanno. La frattura tra noi e loro è totale, ma questa scena in televisione non l'avete certo vista.
L'obiettivo dei potenti era fare di tutta l'erba un fascio. E temo ci siano riusciti.
Solo dopo che se ne sono andati arriva la polizia, che, come scopriremo più tardi, per tutta la giornata è andata dietro ai teppisti senza fermarli, limitandosi a scontrarsi con loro nella zona centrale e permettendo loro di sfasciare completamente la città. Ora la Polizia è in piazza Manin, schierata in ranghi serrati di fronte al nostro gruppo. Ci comunicano che vogliono solo attraversare la piazza, ma dimenticano che pochi momenti prima hanno caricato dimostranti inoffensivi e pacifici. Ci sediamo a terra, occupando tutto il passaggio. Mostriamo loro le mani bianche alzate, urlando "Nonviolenza! Nonviolenza! Andate via, non ci serve la polizia! Siete i Blu Blocks!". La situazione resta tesa per qualche minuto: ci sono una trentina di agenti in tenuta antisommossa con maschera antigas, scudi e manganelli, schierati di fronte a qualche centinaio di dimostranti con le mani bianche alzate.
Se ne vanno.
A questo punto i responsabili di ReteLilliput decidono di farci scendere tutti insieme verso il mare, per raggiungere nuovamente piazzale Kennedy e il Centro di convergenza del GSF (di cui Lilliput fa parte). Per compiere un tragitto che richiederebbe mezz'ora di cammino impieghiamo due o tre ore, costretti a deviare e fare lunghe soste per evitare le zone dove sono in corso gli scontri.
Passiamo, alla fine del tragitto, in corso Torino, completamente devastato. E' una scena apocalittica, che avevo visto solo nei film. Tutte le vetrine sono distrutte, le macchine incendiate, i bidoni dell'immondizia rovesciati e ancora fumanti, le sedi di alcune banche devastate, con i computer sfasciati lasciati sul marciapiede.
Sarebbe stato bello se i telegiornali avessero aperto l'edizione serale facendo vedere non i Black Blocks che sfasciavano tutto, ma i Lillipuziani che sfilavano tra le macerie, avviliti, in un silenzio irreale rotto solo dal rumore dei bidoni della spazzatura, che venivano tutti rialzati e rimessi ai bordi della strada. Era l'unica cosa che potevamo fare, ma ormai quei bastardi teppisti e chi aveva deciso di lasciar loro campo libero avevano rovinato tutto.
Alla fine arriviamo in piazzale Kennedy e mettere qualcosa sotto i denti è il primo pensiero.
Arriva la conferma che è stato ucciso un ragazzo, sul palco si susseguono gli interventi: bisogna continuare la protesta, dicono, ma si è ormai creata un'atmosfera tesissima.
Ci informano che uscire dal Centro di Convergenza di piazzale Kennedy è pericoloso: c'è il rischio di rappresaglie della polizia, che continua a colpire sia i teppisti che i manifestanti. Inoltre, dopo gli episodi del pomeriggio, non vorremmo riincontrare una truppa di Black Blocks. Decidiamo quindi di passare la notte nel piazzale.
Montiamo la tenda lì sul cemento e ci mettiamo a dormire, con gli elicotteri della polizia che girano per tutta la notte bassi sulle nostre teste.
D'altronde, siamo noi quelli pericolosi.. Inutile pensare che sia possibile, per i 20.000 poliziotti presenti a Genova, fermare i duemila Black Blocks per impedire disordini domani.
Che cosa c'è di meglio dei disordini per togliere fiato alla nostra protesta? I telegiornali parlano solo di disastri, il nostro messaggio l'abbiamo gridato al vento e gli otto grandi se ne stanno là tranquilli nella loro lussuosissima nave, felici di aver stanziato un'elemosina contro l'AIDS.
Molti pensieri sul cuscino, ma anche tanta stanchezza, ed è presto mattina.
SABATO 21 LUGLIO 2001
Il sole inizia a picchiare duro sul cemento di piazzale Kennedy e rimanere ancora nelle tende è impossibile. Smontiamo tutto, cerchiamo un bar aperto per una veloce colazione e ci dirigiamo a Punta Vagno, poco distante da piazzale Kennedy, dove sta iniziando la riunione di ReteLilliput. E' coordinata da Francesco Gesualdi (autore della Guida al consumo critico) e da Fabio Lucchesi, un altro dei responsabili della Rete.
Gli interventi si susseguono, mentre sui quotidiani vediamo le foto del ragazzo ucciso il giorno precedente. L'atmosfera è di grande delusione, perché un po' tutti ci stiamo rendendo conto che la nostra protesta non ha fiato sui media e che gli 8 potenti di Palazzo Ducale non ci considerano nemmeno di striscio. Si discute sul come tenere il corteo di oggi. Alcuni propongono di sfilare in silenzio, ma alla fine si decide di manifestare normalmente, cercando di farsi sentire il più possibile e di organizzare ai due lati del gruppo un cordone di sicurezza che impedisca le infiltrazioni dei Black Blocks e le conseguenti cariche della Polizia.
Non sappiamo ancora che finirà proprio in questo modo, con i teppisti che inseguiti dalle forze "dell'ordine" si infileranno nel corteo pacifico, che verrà così violentemente caricato.
Terminata la riunione, ci allontaniamo da piazzale Kennedy dirigendoci verso levante, sul lungomare, fino al luogo di inizio del corteo. C'è grande confusione, molta folla, e presto io ed i miei quattro amici ci troviamo separati dal resto del gruppo lillipuziano. Dopo poco, però, incontriamo per caso un gruppo di cuneesi che conosciamo: sono arrivati stamattina con un pullman organizzato dall'ACLI. Ci aggreghiamo a loro ed iniziamo a sfilare. Gli slogan sono quelli della giornata precedente, la determinazione nonviolenta anche. Il corteo sfila sul lungomare, tornando verso piazzale Kennedy. Dopo poco, però, ci blocchiamo: giunge la notizia di nuovi scontri, proprio in piazzale Kennedy, prontamente confermata dal fumo che vediamo alzarsi da quella zona, laggiù in fondo.
Fumo nero degli incendi dei teppisti e fumo bianco dei lacrimogeni della Polizia: uniti nel distruggere di nuovo la nostra manifestazione.
Ci spiegheranno solo più tardi che cosa stia veramente succedendo là davanti. Giunto sul lungomare nella zona di piazzale Kennedy, il corteo dovrebbe svoltare a nord, salendo verso l'interno della città: viene però spezzato in due, perché i Black Blocks che si stavano scontrando con la polizia in piazzale Kennedy forzano il cordone di sicurezza allestito in quel punto da Rifondazione Comunista e dalle Tute Bianche a protezione del corteo del GSF. I teppisti si mischiamo ai manifestanti pacifici e la polizia carica indiscriminatamente, spezzando in due il corteo. Noi intanto, siamo ancora là dietro, a levante, ignari di tutto questo e bloccati sul lungomare.
Poi possiamo ripartire. Deviamo verso nord un po' prima di piazzale Kennedy, evidentemente per evitare la zona più calda, e ci dirigiamo nell'interno della città. Poco dopo aver abbandonato il lungomare, però, da un corso laterale a quello che stiamo percorrendo sbuca un folto gruppo di teppisti, come al solito seguiti dalla Polizia. Come da copione, i Black Blocks forzano il cordone di sicurezza e si infilano nel corteo: le forze "dell'ordine" arrivano sparando lacrimogeni e la folla dei pacifisti, non preparata ad alcun tipo di scontro, rischia di farsi prendere dal panico. Molti iniziano a correre e la calca si va facendo pericolosa. Riusciamo a fare iniziare il solito coro "Nonviolenza! Nonviolenza!", e proseguendo verso nord la situazione si tranquillizza. Con un po' di spavento e gli occhi un po' gonfi per i lacrimogeni proseguiamo la manifestazione, arrivando alla piazza dove il corteo si deve sciogliere.
La folla inizia a defluire, mentre ci comunicano che in alcune zone della città continuano gli scontri. Grazie agli utili consigli di genovesi molto disponibili, individuiamo i bus da prendere per raggiungere la Stazione di Voltri, dove un treno navetta ci riporterà verso Savona e verso casa.
Su entrambi i bus incontriamo testimoni degli eventi della giornata. Ci raccontano la loro esperienza, che poi vedremo confermata nei comunicati del GSF e sui giornali.
Sul primo bus che prendiamo c'è una signora sui cinquant'anni, con gli occhiali, una lunga gonna e un paio di sandali ai piedi. Il tipico esempio di pericoloso teppista. Ci mostra grossi lividi su un braccio. - Mi sono trovata in mezzo quando la Polizia ha caricato il corteo - ci racconta - non sono riuscita a scappare, mi sono fermata e messa in ginocchio, con le mani in alto. Ho ricevuto delle manganellate, ero spaventata e piangevo, un poliziotto mi ha urlato in faccia "Brutta puttana! Che cazzo piangi! Avevi solo da startene a casa!" -.
Iniziamo a capire meglio che cosa è successo a Genova in queste due giornate, e giunti a casa avremo conferme dai comunicati di Lilliput e del GSF.
Sul secondo bus su cui saliamo troviamo un signore, anche lui più o meno cinquantenne, pantaloni e camicia, che ci racconta: - Ho visto teppisti vestiti di nero e col volto coperto spaccare vetrine e lanciare sassi, poi improvvisamente correre verso le linee della polizia, tirare fuori da sotto la maglietta un cartellino ed infilarsi tra le loro linee -. Rimaniamo di stucco: avevamo già sentito parlare della presenza di agenti provocatori infiltrati, ma credevamo che fossero fantasie. Dopo la testimonianza sentita sul quel bus, arriverà la conferma di don Vitaliano Della Sala, che ha sfilato con le Tute Bianche e che afferma di aver visto tre individui abbigliati da Black Blocks scendere da una camionetta della polizia per unirsi ai gruppi dei teppisti. In seguito, in TV, verremo anche a sapere delle foto scattate dalle Tute Bianche, che ritraggono individui vestiti da teppisti mentre chiacchierano tranquillamente con i poliziotti.
Su questi bus, la gravità di ciò che è accaduto a Genova inizia ad apparirci in tutta la sua enormità: gli scontri tra polizia e Black Blocks ci sono stati e sono stati violentissimi, ma le forze "dell'ordine" sono state organizzate in modo da non fermarli, perché potessero distruggere la città e oscurare così la protesta pacifica. Agenti provocatori infiltrati hanno completato il capolavoro, aiutati anche (secondo rapporti dei servizi segreti divulgati sui giornali nelle settimane antecedenti il vertice) da infiltrazioni tra i teppisti di gruppi neofascisti come "Ordine Nuovo" e "Forza Nuova", nemici giurati del GSF, politicamente molto vicino agli ambienti di sinistra.
Coi bus arriviamo a Voltri e i treni di linea ci riportano a Cuneo, dove arriviamo poco dopo le 23.
A casa, dopo una doccia, davanti ad una videocassetta coi telegiornali dei giorni precedenti, mi viene da piangere. Solo scontri, scontri e ancora scontri.
Il nostro movimento pacifico è stato distrutto e zittito da un gruppo di teppisti da stadio astutamente sfruttato e manovrato dai potenti contro i quali volevamo combattere.
E' ora di andare a letto, sono state due giornate pesanti.
Nella notte, la Polizia assalterà il centro stampa del GSF, facendo numerosi feriti e completando il capolavoro.
Berlusconi dichirarerà : - Non c'era possibile distinzione fra la minoranza violenza e il Genoa Social Forum che li ha favoriti e coperti -.
Ma lui era tra i velluti di Palazzo Ducale mentre i Lillipuziani, in piazza Manin, dopo aver subito la violenta carica della Polizia, urlavano contro i Black Blocks, mostrando loro le mani dipinte di bianco: - Nonviolenza! Bastardi! Andate via! Nonviolenza! Nonviolenza! Nonviolenza! -.
Io c'ero, e farò tutto quanto in mio potere perché la gente sappia.
                                           Con preghiera di massima diffusione,
                                                                                                           Daniele Simondi

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QUANDO LA CHIESA DISTURBA IL MANOVRATORE
Enzo Bianchi, Priore del monastero di Bose, "Repubblica" del 17 Agosto

Rincresce dover constatare che l'opportunità di approfondire il dibattito sul "senso della storia", sul futuro del mondo possibile, auspicabile o ineluttabile - opportunità offerta dallo svolgimento del G8 a Genova - stia finendo vittima anch'essa delle violenze che hanno tragicamente segnato quelle giornate. Così l'attenzione della maggioranza dei commentatori si è concentrata dapprima sui "preparativi" in vista dello "scontro", poi sugli scontri fisici veri e propri e, ultimamente, sulle vere o presunte fratture tra occidente e chiesa, o in seno alla chiesa cattolica, con qualche colorita digressione su una fantomatica risurrezione del cattocomunismo.
Chiamato nominalmente in causa sulla prima pagina di un grande quotidiano nazionale da un commentatore laico, vorrei pacatamente ribadire alcune riflessioni che ritengo non oziose per un proficuo dibattito culturale e sociale, confidando che non vengano nuovamente interpretate come "invettiva contro lo sfruttamento capitalistico". Capisco infatti che il crollo delle ideologie - sarebbe più corretto dire l'affermarsi su scala planetaria di un'unica ideologia, quella del mercato - ha privato molti del comodo schematismo della divisione di persone, idee, stati, economie, visioni della società in due blocchi antagonisti, con la più o meno gradita presenza della chiesa cattolica a suggerire un'improbabile "terza via", a fornire correttivi etici o sterili proteste nei confronti dell'ideologia vincente.
Ma gli schematismi sono più duri da abbattere di qualsiasi muro, così quando un fenomeno sociale vecchio di alcuni secoli - l'interdipendenza tra popoli, risorse ed economie - ha subìto una rapida accelerazione e si è visto assegnare la definizione polivalente di "globalizzazione", gli orfani degli spartiacque ideologici si sono affrettati a dividere il genere umano in pro e contro questa realtà. Ora, trattandosi appunto di un "fenomeno" di portata mondiale, di un "dato di fatto", non si vede come si possa essere "pro o contro": sarebbe come chiedersi se si è pro o contro l'aria che respiriamo o
l'acqua che beviamo. Certo, alcuni saranno soddisfatti della qualità che questi elementi possiedono, altri cercheranno di avere un'aria meno inquinata e un'acqua più potabile, altri ancora faranno di tutto per avere quel minimo di aria e di acqua necessario per vivere... Questa ambiguità si ingarbuglia ancor di più e nel contempo crea le condizioni per una
contrapposizione, quando si opera un'indebita identificazione tra "globalizzazione" e occidente, facendo di entrambi un tutto indivisibile: allora sì che essere contrari o dubbiosi o perplessi nei confronti di alcuni aspetti deteriori del fenomeno significa automaticamente schierarsi contro l'intera civiltà occidentale.
Se invece ci si interroga su come "governare" il fenomeno, come correggerlo, come indirizzarlo, come limitarne i difetti e accrescerne le potenzialità - e questo dovrebbe essere il compito della politica e della cultura - allora certezze e schematismi saltano e difficoltà e problemi emergono: le attuali istanze statali e sovranazionali sono adeguate? Dispongono di strutture decisionali solidamente democratiche e di strumenti applicativi efficaci e riconosciuti? Hanno uomini e mezzi sufficienti per far fronte a un impegno di così vasta portata e di così lunga durata? E non bisognerà porre alcuni principi fondamentali di giustizia, di solidarietà con gli ultimi e i più deboli? La carta universale dei diritti dell'uomo deve lasciare il posto alla legge del più forte economicamente? E, ancora, si dovrà accettare il fenomeno a scatola chiusa, dando per certo che non produce vittime o che queste non devono "disturbare il manovratore"? Non vorrei che chiunque osi sollevare interrogativi di fronte alle "mirabili e progressive sorti" dell'umanità affidata al mercato si veda accusato di "disfattismo" antioccidentale, annoverato tra gli "sconfitti dalla storia" e come tale ridotto al silenzio.
Sintomatico di questo atteggiamento mi pare il tentativo di dipingere la chiesa come maggioritariamente "antiglobale" o affascinata da un rigurgito di analisi marxista della società. La chiesa in questo frangente e su questo argomento si sta muovendo da decenni - perlomeno dalla "Pacem in terris" di papa Giovanni nel 1963, ma si potrebbe risalire fino a Leone XIII, per limitarsi all'epoca contemporanea - in modo sostanzialmente compatto e concorde nonostante il mutare dei pontefici, e lo sta facendo sulla base di "principi radicati nella rivelazione biblica e nella dottrina della tradizione patristica dei primi secoli: è farina del sacco della chiesa, non mendicata da fonti aliene, più o meno veteromarxiste", come ha giustamente osservato un vaticanista cattolico sul quotidiano economico della Confindustria (dunque da un pulpito difficilmente tacciabile di criptocomunismo). Sì, basterebbe leggere le parole di Gesù sui poveri e sui ricchi contenute nei Vangeli, oppure gli scritti di san Basilio o le omelie di sant'Ambrogio, le opere di san Francesco d'Assisi o di Bartolomeo de las Casas per capire che la diffidenza della chiesa verso la ricchezza e la lotta all'ingiustizia che da questa può scaturire ha radici molto antiche e genuinamente evangeliche. Ma tant'è.
Per certi osservatori laici la chiesa "serve", è utile, è ricercata, adulata e corteggiata quando fornisce un supplemento di etica a una società che ne è sprovvista, quando supplisce a carenze assistenziali o educative, quando tranquillizza le coscienze inquiete. Non appena essa accenna però a uscire dal confino dorato della "religione civile" e pretende di alzare la voce a nome di chi è senza voce - siano essi i poveri della terra o gli ammalati di AIDS o i bambini iracheni o i civili serbi o gli immigrati e i profughi - allora viene zittita, tacciata di "falso moralismo", confinata nella dimensione interiore, espulsa dai consessi in cui si ragiona "delle cose dure e prosaiche della politica". "Se mi prendo cura dei poveri sono un
santo - osservava amareggiato Helder Camara, vescovo di Recife - se dico perché sono poveri sono un comunista!". Non si dimentichi che la chiesa, se resta fedele al mandato ricevuto, è sempre capace di alzare una voce profetica e di chiamare con coraggio i problemi con il loro nome: ingiustizia, oppressione, violenza, idolatria. Come ricordavo nella mia
"invettiva" criticata, i cristiani sanno che i poveri sono coloro che giudicheranno l'umanità nel giudizio finale (cf. Matteo 25) e che in loro si ritrova il volto di Dio, di quel Dio che non solo si è fatto uomo, ma si è fatto povero (cf. 2 Corinti 8,9). Davvero la chiesa non ha alcun debito da pagare al marxismo, e chi mi conosce sa che anche per me questa non è una novità dell'ultima ora. 
Del resto, per tastare il polso della chiesa, per verificare dove attinge ancora oggi i suoi criteri di discernimento, per misurare la fondatezza di pretese nostalgie marxiste nella sua lettura della società, qualsiasi commentatore laico potrebbe proficuamente fare riferimento all'intero magistero di Giovanni Paolo II: è lui che in questi anni, così sfavorevoli ai poveri, ha continuato a ricordare la loro presenza e a farsi loro voce, rinnovando costantemente il messaggio del Vangelo, riproposto con forza negli anni del concilio dall'intero episcopato in comunione con il vescovo di Roma. Sì, è nella storia di santità della chiesa, nella sua profezia che vede primi clienti di diritto del Vangelo i poveri, che si può riscoprire
l'afflato spirituale ed evangelico, la preoccupazione pastorale e lo stimolo missionario che anima il cattolicesimo all'inizio del nuovo millennio.

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DAL SETTIMANALE VITA

Cattolici, non tiratevi indietro
di Giuseppe Frangi (g.frangi@vita.it)

30/08/2001

E ora a chi tocca? I 200mila di Genova, le loro domande per uno sviluppo più umano, la loro voglia di essere una presenza costruttiva, che cosa incontreranno sul loro cammino? Sono le domande che domineranno il settembre di quel mondo così variegato ma così vivo, che non si riconosce più in nessuna appartenenza politica, ma che ha dimostrato di "esserci".
A questa domanda, da dentro e da fuori, arriva sempre più insistente un'ipotesi di risposta: a prendere le fila di questo grande movimento dovrebbero provarci i cattolici. Lo dicono personaggi così lontani per storia, per sensibilità, per visioni del mondo. Lo dice un Luca Casarini in evidente difficoltà di leadership, ma i suoi toni suonano sinceri. Lo dice un osservatore severo come Galli Della Loggia che riconosce nei cattolici una presenza non riducibile al modello occidentale vincente. Ma ora sapranno essere i cattolici così aperti, così autorevoli e così appassionati da assumere una guida a cui in
tanti sembrano chiamarli?
La prima verifica la si potrà avere a Vallombrosa, dove per tre giorni oltre mille quadri delle Acli sono chiamati a una riflessione su una questione decisiva: il destino delle persone tra solitudine e rinascita della comunità. Il parterre degli invitati è di grande interesse e copre tutte le appartenenze culturali e politiche. Da Ilvo Diamanti a Marco Revelli, da Marcello Veneziani a Massimo Cacciari, da Franco Garelli a Riccardo Petrella. Poi ci saranno i leader delle più grandi associazioni cattoliche e non solo. E non mancano i rappresentanti della gerarchia ecclesiale con il cardinal Ersilio Tonini e monsignor Giacomo Crepaldi, segretario del pontificio consiglio Justitia et pax. Centro della tre giorni la relazione di
Paul Hirst, docente all'Università di Londra, che presenterà il suo studio sul futuro della democrazia associativa.
E non mancherà, naturalmente, il padrone di casa, Luigi Bobba, presidente delle Acli da tre anni, e ormai diventato interlocutore e punto di riferimento per un mondo che ha rotto con le griglie rigide delle sigle gloriose di storia e che è pronto a giocarsi su un presente appassionante.
Bobba parla con orgoglio e apprensione delle giornate di Vallombrosa e di tutte le scadenze che seguiranno. è convinto che il capitolo Genoa social forum sia un capitolo chiuso. Ma che le domande espresse dal Gsf siano un capitolo assolutamente aperto.
Per costruire è meglio far la spunta degli errori fatti. E Bobba ne ha in mente immediatamente uno: «è l'idea che si debbano inseguire le scadenze istituzionali internazionali. Quando si diventa attori su questi palcoscenici, il carattere teatrale dell'evento prende il sopravvento. E non sai mai chi tenga le fila della regia. La sensazione è che tu alla fine venga usato per una rappresentazione pensata allo scopo di tenere sullo sfondo le questioni vere».
Concretamente questo cosa significa: «Che dobbiamo smetterla di consumarci sulle strategie per Napoli e per il vertice Fao e concentrarci su scadenze nostre, che nessuno può usare per altri scopi». Quindi niente viaggi a Napoli e niente Roma? «Quelle scadenze affidiamole ai soggetti titolati per dire qualcosa di utile e costruttivo. Per esempio, sul vertice Fao ci sono 400 Ong che conoscono nei minimi dettagli le problematiche che li verranno affrontate. Se diventeranno loro gli interlocutori otterremo risultati molto più concreti che non portando in piazza qualche decina di migliaia di persone. Insomma, smettiamola di inseguire i vertici in ogni angolo del mondo. Quella è la logica di Bovè, ma crea una personalizzazione del conflitto, proprio come piace ai media». E gli altri devono starsene tutti a casa: «Beh, non è che un mondo più giusto lo costruisci andando in piazza un paio di volte all'anno. Lo costruisci dove vivi, dove studi, dove lavori dando corpo a reti e a rapporti associativi nuovi. E poi c'è una grande scadenza per tutti, questa sì importante: la marcia Perugia Assisi. Quello è un gesto che appartiene alla nostra storia e che ci permette di dire al mondo le cose che più ci premono». 
In tanti chiedono ai cattolici di esser più protagonisti all'interno di un ipotetico Italy social forum. Lei è d'accordo? «Come potrei non esserlo. Non per il gusto di un'egemonia ma per condividere un'esperienza di vita, fondata sul Vangelo, e che è irriducibile a ogni visione schematica delle cose». E i cattolici che a Genova non c'erano. «C'è una grande positività anche in loro. Anche se non sono d'accordo in questo privilegiare la testimonianza come alternativa a un progetto di dimensione pubblica e di valore politico. Per me non sono alternativi, una dimensione rafforza e rende più vera l'altra».
Lei si riferisce in particolare alla Compagnia delle opere. Settimana scorsa è stato ospite del Meeting, che impressione ne ha tratto: «Ho visto una cosa molto diversa da quella raccontata dai giornali. Ho visto un grande impegno educativo, legato al tema scelto che era davvero decisivo: il rapporto tra l'uomo e l'eternità. Ero con mia figlia quindicenne, che poco sa di chi aveva organizzato il Meeting, ma che è rimasta affascinata da quelle mostre e dalle ipotesi che suggerivano. Poi sui giornali si leggeva un'altra storia»".
Morale? «Come nel caso di Genova dobbiamo imparare che l'illuminazione mediatica porta a volte più danni che benefici. Dobbiamo smetterla di inseguire i titoli dei giornali. La realtà la si costruisce da un'altra parte.»

Alcune opinioni
Galli della Loggia
Quale senso storico, e diciamo pure quale convenienza politica, avrebbe mai oggi, per una Chiesa che si vuole di tutte le genti, identificarsi con un sesto appena della popolazione del pianeta e con un sistema culturale non solo inviso ai rimanenti cinque sesti ma il quale mostra per giunta, con mille segni, cosa farsene di lei e della sua sede? Dopo la secolarizzazione la Chiesa non potrà mai più tornare ad essere la Chiesa dell'Occidente, soltanto dell'Occidente.

Massimo Cacciari
Caso unico in Europa, in questo movimento c'è una componente cattolica molto forte che è cresciuta durante l'anno giubilare. È un fenomeno di grande importanza e valore per questo Paese. Finalmente si vede una nuova generazione
che si appassiona e che partecipa.

Vittorio Agnoletto
Desidero esprimere la mia piena solidarietà a tutte quelle realtà del mondo cattolico che hanno deciso ognuna secondo un proprio originale percorso (dentro o fuori il Gsf), di esprimere il proprio dissenso dalle regole di questa globalizzazione; la testimonianza concreta di un'ispirazione religiosa, che si confronta concretamente con la dimensione storica del presente, è un'importante risorsa per tutti.

Luca Casarini
I cattolici sono una grande risorsa di questo movimento. Te lo giuro: sarei disposto a qualunque sacrificio politico per non rinunciare all'unità coi cattolici. Guarda che la mia non è un'idea tattica, è un'idea strategica, di valori. Perché i gruppi cristiani ci hanno insegnato tantissime cose. La concretezza, il senso vero della solidarietà, e poi ci hanno insegnato la cultura, cioè la necessità di cambiare gli stili di vita, le aspirazioni. La sinistra tradizionale questo non lo aveva mai capito. Era interna al modello culturale del capitalismo. Se perdiamo il movimento dei cattolici perdiamo più della metà del movimento. Anche per questo io sono disponibile a qualunque mediazione. Insieme...

Adriano Sofri
Anche chi non abbia letto Gandhi o visto il suo film, e si ricorderà di quelle file successive di persone che prendevano il loro posto per essere bastonate a sangue in Sudafrica. E che la nonviolenza non è un mezzo, da preferire o meno alla violenza, ma un fine. I cattolici, che hanno preso tanta e così varia parte, allo stato d'animo che un giorno si è messo insieme a Genova, hanno un esempio turbante, a prenderlo sul serio, in quel Gesù e nella sua condanna a morte.

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ore 12,30

COMUNICATO STAMPA DEL CONSIGLIO NAZIONALE DI PAX CHRISTI

Il Consiglio Nazionale di Pax Christi, riunitosi il 15 e 16 settembre 2001 a Firenze, ha effettuato una verifica in merito alle manifestazioni svoltesi a Genova in occasione del vertice dei G8, a cui il movimento ha partecipato con una forte rappresentanza.
Ribadendo ancora una volta la propria condanna per gli atti di violenza perpetrati da una minoranza di manifestanti e parte delle forze dell'ordine durante le manifestazioni di piazza, all'interno delle strutture di Bolzaneto e S. Giuliano e in occasione dell'irruzione alla sede del GSF, esprime tuttavia un giudizio positivo sull'elevata mobilitazione attorno a temi fondamentali, che il vertice del G8 ha completamente ignorato, quali l'esigenza di una globalizzazione dei diritti e delle opportunità al posto dell'attuale modello neoliberista.
Secondo quanto già dichiarato al Comitato di indagine parlamentare, riconosce il valore dell'esperienza del GSF e dell'operato del suo portavoce Vittorio Agnoletto a cui rinnova fiducia e stima ed esprime solidarietà per le accuse verbali e le ritorsioni di cui è stato fatto oggetto.
A tale proposito ritiene pretestuose e ingiustificate le motivazioni per le quali è stato rimosso dall'incarico di consulente presso le Commissioni per la lotta alla tossicodipendenza e per la lotta all'AIDS che rivestiva per le sue riconosciute competenze e chiede che sia immediatamente reintegrato nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali.
Consiglio Nazionale di Pax Christi

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 No global, "arruolate" anche i carabinieri (intervista del settimanale VITA a Sergio Paronetto, 14/09/2001)

      Questa la proposta provocatoria di Sergio Paronetto di Pax Christi. "Il movimento deve scegliere la non violenza se vuole continuare a esistere."
«Pochi giorni prima di morire, Martin Luther King disse: "Non è più questione di scegliere tra violenza e non violenza. Ma tra non violenza o non esistenza"». Per Sergio Paronetto, professore di lettere veronese e consigliere nazionale di Pax Christi (associazione aderente al Genoa Social Forum), da trent'anni studioso di pacifismo e non violenza, questa citazione del grande profeta nero della pace è diventata quasi un'ossessione. La ripete ai suoi studenti, nelle assemblee di Lilliput cui lo invitano a intervenire, ai giornali che lo intervistano. Senza stancarsi, con un tono solenne, quasi da "vescovo laico", che lo rende inattaccabile da ogni accusa di ingenuità o sprovvedutezza. Perché per lui, da cui abbiamo sentito nei giorni scorsi forse la più lucida analisi dei fatti di Genova, nonché la mappa più realistica dei veri nemici degli anti-global, il futuro del movimento «sarà non violento o non sarà».
Vita: Professor Paronetto, a quasi due mesi di distanza, secondo lei che cosa è davvero successo a Genova?
Sergio Paronetto: C'è stata una vasta zona grigia che è bene ora affrontare con calma. Perché le difficoltà di crescita del movimento per la pace riguardano anche il modo di pensare e di fare di alcuni "pacifisti" o "antiglobalizzatori". Penso infatti che ci sia stato un difetto iniziale di coloro che si sono proposti prima di "bloccare il G8", e poi di "violare la zona rossa". L'enfasi su questi obiettivi, più la famigerata dichiarazione di guerra delle tute bianche, ha modificato l'ordine delle priorità. L'attenzione, complici i mass media, si è spostata lontano dai grandi problemi delle ingiustizie nel mondo, e si era in attesa di possibili incidenti. Che purtroppo si sono verificati.
Vita:  Per colpa di chi? 
Paronetto: Anche di una parte dei manifestanti. Che a volte, nel clima teso, ritengono secondaria la presenza di "microviolenti" disposti a usare sassi, bastoni, scudi o a fare guerriglia urbana. Pur dissentendo o denunciando il fatto, qualche "pacifista" pensa che si tratti di compagni che sbagliano. È un abbaglio! I violenti sono pericolosi avversari del movimento per la pace. Lo umiliano. Lo sgretolano. Lo screditano. È per questo che, a volte, vengono lasciati fare da chi dovrebbe fermarli. È una storia vecchia. .. Il modo migliore per eliminare o indebolire un soggetto politico alternativo è quello di minarlo dall'interno, portandolo al suicidio.
Vita: Non le sembra una posizione un po' assolutista? In fondo scendere in piazza con degli scudi non significa automaticamente essere violenti. O no?
Paronetto: Cerco di precisare ulteriormente. Luca Casarini dichiarò a Repubblica che «lanciare i sassi per fermare un inferno mi sembra legittimo». A mio parere, queste frasi rivelano disponibilità a tollerare la violenza. Casarini e gli altri non si rendono conto di usare proprio l'argomentazione di chi prepara le guerre o la corsa agli armamenti. Dire "la vera violenza è quella dei potenti", "ci sono violenze più grandi" è pericoloso. La violenza fa sempre il gioco dei potenti, e le microviolenze rafforzano, imitano e giustificano le macroviolenze. Anzi: sono figlie e complici delle grandi violenze.
Vita: Venendo all'oggi, che rischio corre il movimento se non farà, come suggerisce lei, una scelta assoluta per la non violenza?
Paronetto: Il rischio è arrendersi. Cadere nella disperazione, incubare il cinismo. Il popolo della pace deve esprimere in tutti i modi la sua radicale estraneità, i suo irriducibile antagonismo nei confronti di ogni forma di violenza. La violenza è male perché è disumana. Come disse l'antropologo René Girard quando analizzò il "ciclo della rivalità mimetica". I nemici diventano l'uno lo specchio dell'altro, preda del contagio o "invasamento mimetico". L'automatismo della logica botta-risposta, amico-nemico, occhio per occhio è devastante.
Vita: Qual è l'alternativa, allora?
Paronetto: Lo ripeto: la nonviolenza, che rappresenta una "biofilia operosa". Una forma di sanità mentale, in definitiva. E attenzione: non sto parlando di un ambiguo e generico "pacifismo", ma di una non violenza realista, che assume il conflitto, lo attraversa, lo accompagna e lo conduce in modo costruttivo. Viviamo immersi nei conflitti. La vita personale è un conflitto, così come la storia. Ma il conflitto, che di per sé è un pericolo, può trasformarsi in sfida.
Vita: La prospettiva, in effetti, è affascinante. Ma non sarà un po' troppo teorico quello che lei dice?
Paronetto: Alla base della non violenza c'è un principio molto semplice da realizzare: la reversibilità. Occorre astenersi dall'irreversibile. Non si vince e non si perde mai "definitivamente". La non violenza lavora in profondità, può fiorire in luoghi che sembrano lontani da essa. Nei giorni, 62 studenti israeliani hanno scritto a Sharon dichiarandosi contrari a svolgere servizio militare in un esercito che viola i diritti umani. Marco Revelli dice che oggi stanno nascendo nuovi cittadini "alla ricerca del luogo", animati dal senso di responsabilità e dalla logica di gratuità e solidarietà.
Dobbiamo essere dei loro.
Vita: Il movimento degli anti-global ha un autunno molto intenso davanti a sé. E altre piazze da affrontare. Come evitare che si ripetano i fatti di Genova?
Paronetto: Non ci si deve logorare nell'inseguire tutti i vertici mondiali. Ma valorizzare la formazione personale e collettiva, cioè il lavoro di base e di profondità. Non penso sia nostra intenzione limitarsi a gridare contro i grandi. O parlare ai vicini, ai già convinti. I nostri interlocutori o alleati non possono essere solo le persone o i gruppi già attivi ma gli uomini di buona volontà, le associazioni, le parrocchie, la scuola, gli artisti, i giovani gli anziani. Anche i carabinieri e i poliziotti, i soldati. Occorre moltiplicare i luoghi della comunicazione dentro e vicino ai luoghi della vita quotidiana, e crescere in sovranità civile. La fantasia della nonviolenza è feconda. Usiamola.

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ROMA, 2 OTT. - (ADNKRONOS) -  

G8: VESCOVI, BENE I CATTOLICI MA DISTINTI DA CONTESTAZIONE
APPREZZAMENTO PER CONVEGNO 7-8 LUGLIO, DISTINZIONE NETTA       
      "APPREZZAMENTO" PER L'INIZIATIVA DI "NUMEROSE ORGANIZZAZIONI CATTOLICHE" CHE IL 7 E 8 LUGLIO HANNO SVILUPPATO UNA RIFLESSIONE SUI PROBLEMI TRATTATI DAL G8 APPOGGIATA DALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, "DISTINGUENDOSI PERO' IN MODO
NETTO E INEQUIVOCABILE SIA NEI TEMPI CHE NEI MODI DA ALTRE FORME DI MOBILITAZIONE". E' QUESTA LA CONCLUSIONE ALLA QUALE SONO GIUNTI I VESCOVI ITALIANI SUI GRAVISSIMI FATTI DI CRONACA CHE HANNO AVUTO LUOGO DURANTE IL SUMMIT DI GENOVA, PRESENTATA STAMANE DAL SEGRETARIO GENERALE DELLA CEI, MONS. GIUSEPPE BETORI, AL TERMINE DEL CONSIGLIO PERMANENTE CHE SI E' SVOLTO A PISA.
      IL "PARLAMENTINO' DEI VESCOVI HA VOLUTO SOTTOLINEARE IL "GIUDIZIO POSITIVO" SUL CONVEGNO DELLE ACLI, AGESCI, AZIONE CATTOLICA, COMUNITA' DI SANT'EGIDIO ED ALTRE ASSOCIAZIONI CATTOLICHE CHE HANNO VOLUTO ESPRIMERE "LA VALUTAZIONE DEL MONDO CATTOLICO SUL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE". UNA PRESA DI POSIZIONE, HA
SOTTOLINEATO STAMANE BETORI, NETTAMENTE DISTINTA DA QUANTI HANNO PRESO PARTE IN QUANTO "CATTOLICI" AL GENOA SOCIAL FORUM, AVALLANDO "FORME CONTESTATIVE CHE RIFIUTANO LA GLOBALIZZAZIONE IN SE STESSA E CHE SI DISTINGUONO COSI' DA QUANTO IL PAPA E LA CHIESA ITALIANA HANNO DICHIARATO SULLA SFIDA DEL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE".
      "C'E' STATA FIN DALLE SETTIMANE PRECEDENTI AL VERTICE -HA SOTTOLINEATO BETORI- UNA VIOLENZA VERBALE CHE NON PUO' IN ALCUN MODO ESSERE CONDIVISA, PER QUESTO I VESCOVI APPREZZANO QUEI CATTOLICI CHE PER RENDERE EVIDENTE LA PECULIARITA' DELLA LORO POSIZIONE SI SONO ESPRESSI CON MODI E TEMPI DIVERSI".
      (MBR/IDB/ADNKRONOS)
02-OTT-01 13:11

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Credo sia interessante leggerlo per capire, capirci  tra cattolici ...anche se trovo questo documento davvero assurdo e un pò deprimente!

Firma il manifesto dei cattolici
Non conformatevi!
G8 e Anti G8. Da cristiani a cristiani. Contro il "pensiero unico"

C'è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: Quando il Figlio dell'Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra? Ciò che mi colpisce quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa"
(da "Paolo VI segreto" di Jean Guitton)

Da "Lettera ai cristiani d'occidente" di Josef Zverina (teologo cecoslovacco) anno 1975

Fratelli,
voi avete la presunzione di servire alla costruzione del Regno di Dio, assumendo quanto più possibile dal cosiddetto mondo d'oggi: i suoi modi di vita, il suo linguaggio, i suoi slogans, il suo modo di pensare.
Riflettete, vi prego: che vuol dire simpatizzare con il mondo d'oggi?
Significa, forse, che bisogna lentamente vanificarsi in esso? Sembra purtroppo che vi muoviate proprio in questa direzione "Fratelli ammoniva san Paolo nella lettera ai Romani (12,2) non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi, rinnovando la vostra mente". "Non conformatevi!". In greco: "mè suskèmatìzesthe". Il verbo contiene la radice della parola "schema". Per dirla in breve: ogni modello esteriore, ogni schema è vuotoRiflettete sulle parole di san Paolo e si ridimensionerà tanta ingenua fiducia nella cosiddetta rivoluzione o nella violenza (della quale, comunque, voi non siete capaci) "Esaminate voi stessi, se siete nella fede, mettetevi alla prova" scriveva l'apostolo ai Corinti (2Cor 15, 5). O forse non riconoscete neppure che Gesù Cristo abita in voi? Noi non possiamo ricopiare il mondo, proprio perché ci è chiesto di giudicarlo.
Non, certo, con orgoglio e superiorità. Ma con amore: così come il Padre ha amato il mondo (Gv 3, 16) e per questo ha pronunciato il suo giudizio su di esso.
Josef Zverina

1. Gesù Cristo centro del cosmo e della storia

Noi firmatari di questo manifesto siamo semplici cattolici, non rappresentiamo che noi stessi. Abbiamo deciso di intervenire dopo aver letto con inquietudine il "Manifesto delle associazioni cattoliche ai leaders del G8", sottoscritto da decine di organizzazioni ecclesiastiche. 
Confessiamo il nostro profondo disagio di fronte a un documento che rischia di far tornare i cattolici alla situazione di venticinque anni fa, cioè a una condizione di sudditanza alle ideologie e perfino agli slogan di gruppi e movimenti politici che nulla hanno a che fare con la nostra fede e le cui ricette politiche, peraltro, hanno sempre dato dove applicate risultati terribili. A una situazione cioè dove non è più chiaro qual è l'originalità della presenza dei cristiani nel mondo.
Innanzitutto noi crediamo che il primo e fondamentale contributo che i cristiani portano all'umanità, anche per la promozione sociale e civile dei popoli (come dimostra la storia), sia l'annuncio di Gesù Cristo: Dio fatto uomo per sconfiggere il male e dare all'uomo la redenzione e la vita eterna.
Rileviamo invece che le associazioni cattoliche firmatarie del Manifesto si dilungano a discettare delle materie più varie (dalle percentuali di pil alla proposta di tassare le transazioni valutarie, dal divieto di monopoli nell'editoria agli organismi geneticamente modificati), ma non ritengono di affermare da nessuna parte che Gesù Cristo è l'unico salvatore dell'uomo e che questo annuncio è il loro fondamentale compito.
Non si stanca di ripeterlo invece il Santo Padre, che pure non ha fatto mancare la sua parola e i suoi appelli sui problemi relativi al debito dei Paesi del Terzo Mondo, sulla pace e il rispetto dei diritti umani, sulla protezione della dignità e della vita umana, dal suo concepimento alla sua fine naturale. In tutti questi pronunciamenti di Giovanni Paolo II noi ci riconosciamo e chiediamo alle organizzazioni internazionali di non lasciarli cadere nel vuoto. Dobbiamo assumerci, come Stati e come singoli cittadini, le nostre responsabilità per la difesa dei diritti dell'uomo e dell'ambiente.
Il Manifesto delle organizzazioni cattoliche, oltre a "dimenticare" l'essenziale della presenza dei cristiani nel mondo, prospetta argomenti e soluzioni che sembrano assunte (perché vi si ritrovano tali e quali) dai vari pronunciamenti del movimento anti-globalizzazione, il cosiddetto "popolo di Seattle", al quale questo mondo cattolico sembra essersi
accodato in modo acritico.
Tanto che il documento delle associazioni cattoliche ha addirittura censurato tutti quei temi che invece il magistero di Giovanni Paolo II continuamente e drammaticamente richiama i quali avrebbero potuto diversificarlo dal cosiddetto "popolo di Seattle". Colpisce, ad esempio, la lunga premessa sulla necessità di difendere la dignità e la vita umana che
poi trae conclusioni solamente contro la guerra e la miseria economica (e chi è mai a favore della guerra e della miseria?), ma non proferisce parola per esempio contro l'aborto di massa, l'eutanasia, i programmi di sterilizzazione collettiva nei paesi del Terzo Mondo (questo sì, vero colonialismo), né contro l'uso sperimentale della genetica sull'uomo.
Va detto che il movimento "anti G8", lungi dall'essere vicino alla Chiesa e alla fede cattolica, ha, secondo noi, alla sua base uno schematismo ideologico, una brutalità manichea, uno sprezzo della ragione umana, che sono assolutamente inconciliabili con quella positiva apertura alla ricerca della verità a cui ci educa l'esperienza cristiana, la quale suggerisce così una cultura fondata non sul pregiudizio o sull'anatema, ma su una coscienza critica e sistematica della realtà.

2. Un'ideologia impermeabile all'esperienza

Non a caso, tale movimento è egemonizzato da gruppi che praticano sistematicamente la violenza contro cose e persone (e anche a questo proposito nel documento delle organizzazioni cattoliche si nota un desolante silenzio).
Innanzitutto c'è una fortissima componente marxista (sia pure un marxismo dilettantesco e superficiale) che si esprime come odio ideologico dell'Occidente capitalistico e del libero mercato, considerati come un imperialismo planetario che complotta ai danni dei poveri (dimenticando peraltro che enormi sacche di fame e sottosviluppo sono state lasciate in eredità dai fallimentari sistemi comunisti).
Un marxismo grossolano che riesce perfino a demonizzare oltre alla proprietà e al mercato anche lo sviluppo, la tecnologia e la scienza.
Cosicché va ad incontrare inconsapevolmente ideologie di estrema destra che già da decenni demonizzano "l'americanizzazione del mondo".

3. Un ecologismo da fanatismo religioso

L'altra componente è un ecologismo radicale che oltre ad essersi dimostrato disastroso e oltre ad alimentare irresponsabilmente fobie collettive, fuori da ogni serio dato scientifico, intende abbattere esplicitamente il fondamento della tradizione giudaico-cristiana, cioè il primato dell'essere umano e la bontà della sua presenza sul pianeta.
Non dovrebbe sfuggire ai cristiani quanto sia pericolosa la concezione pagana e panteista connessa con una simile difesa dell'ambiente. La difesa della "Madre Terra" dall'uomo, ritenuto il cancro del pianeta, e l'adorazione di Gaia sono concezioni che appartengono a un mondo pagano.
Vorremmo ricordare quanto terribile sia stato nel XX secolo il riemergere in ideologie politiche del neopaganesimo ispirato a certe concezioni bio-ecologiche.

Condizione umana e mondo comune.
Alcuni dati di fatto, nel merito dei problemi.

1. C'è un progresso innegabile

La storia dell'umanità dimostra che il progresso scientifico, tecnologico, culturale ed economico generato dall'uomo ha reso il nostro pianeta più vivibile. L'umanità vive meglio e più a lungo. Dal 1960 ad oggi, nei paesi in via di sviluppo, i tassi della mortalità infantile sono stati ridotti della metà, i tassi di malnutrizione del 33 per cento e la percentuale di
ragazzi in età scolare che non frequenta alcun corso di studi è calata dalla metà a un quarto. Le famiglie rurali che non hanno accesso all'acqua salubre sono passate dai nove decimi a un quarto. La durata media dell'esistenza nei paesi industrializzati è di 77 anni (era di 50 nel 1900 e di 40 nel 1820) ed è cresciuta anche nei paesi arretrati a più di 60 anni (la media mondiale è di 67 anni). Nell'arco del secolo il reddito individuale medio mondiale è quadruplicato. Naturalmente esistono anche gravi ingiustizie, fame e nuovi drammi sociali che occorre affrontare e risolvere (per questo ci siamo richiamati agli interventi del Papa). Ma è insensato misconoscere gli enormi progressi fatti. Anche il rapporto con l'ambiente con buona pace dei catastrofisti - è notevolmente migliorato. Lo sviluppo delle attività agricole ha permesso di ottenere una produzione alimentare che oggi può sfamare l'intera umanità con un utilizzo di terre e di forza lavoro sempre più piccole (e alleviando enormemente anche la fatica umana). Le zone protette si sono moltiplicate per venti negli ultimi dieci anni. Le città dei Paesi avanzati sono più pulite e anche certe forme d'inquinamento dei mari sono fortunatamente diminuite.

2. E c'è un sonno della ragione che genera mostri

Di fatto i paesi che sono più aperti al commercio hanno una crescita più rapida di quelli che non lo sono. Inoltre è stato dimostrato che non bastano affatto gli aiuti dell'Occidente (che anzi talora possono essere anche controproducenti) per battere la povertà e il sottosviluppo. Occorre prima una crescita giuridica e culturale in quei paesi: senza il
riconoscimento dei diritti umani, civili ed economici delle persone (e senza la formazione e le conoscenze) il Terzo Mondo non esce dal sottosviluppo.
Eppure il modo in cui oggi si discute di fame, processi economici e difesa dell'ambiente mette sul banco degli imputati i Paesi e gli uomini che hanno favorito lo straordinario progresso di questi decenni. Bastano poche voci confuse, argomentazioni pseudo-scientifiche, e tanta ideologia basata sulla lotta di classe per criminalizzare intere categorie sociali e diffondere pena e panico sul futuro. I parametri culturali entro i quali sono stati collocati i problemi di sottosviluppo e ambientali risentono di una visione del mondo in cui le popolazioni ricche vengono accusate di sfruttare i poveri ed il progresso scientifico e tecnologico viene contrapposto alla conservazione dell'ambiente. Sembra quasi che eliminando le economie sviluppate si vincerà la povertà e che tutto ciò che è umano, scientifico e tecnologico rovini il pianeta. Così, in nome di una presunta difesa dei poveri e dell'ambiente sono state scatenate vere e proprie azioni di
guerriglia urbana, uomini sono stati feriti, si sono devastate città.
Peraltro non risulta che il cosiddetto "popolo di Seattle" che pretende di presentarsi come "la voce degli emarginati" - sia stato delegato dai paesi poveri. Al contrario, risulta che i Paesi del Terzo Mondo abbiano idee esattamente opposte a quelle del "popolo di Seattle" su biotecnologie, apertura ai mercati e Protocollo di Kyoto, sulla cui fondatezza, per altro, la comunità scientifica sta ancora discutendo. In vari recenti interventi di personalità dei paesi poveri, il "movimento di Seattle" è stato esplicitamente accusato di impedire una vera lotta alla fame.

3. Il dogmatismo del "pensiero unico"

È sconcertante notare l'adesione acritica a slogan e "frasi fatte" al di fuori di ogni acquisizione scientifica e di ogni seria evidenza storica.
Per esempio, con l'agricoltura biologica non sarebbe possibile produrre risorse alimentari per nutrire tutta l'umanità neanche sfruttando tutte le terre oggi coperte da foreste (che sarebbe, questo sì, un incalcolabile disastro ecologico).Inoltre non è il tanto demonizzato sviluppo che crea fame, ma il sottosviluppo. L'evidenza elementare è che quanti vogliono aiutare il prossimo devono essere consapevoli che solo una ricchezza prodotta può essere distribuita e che per questo è irresponsabile demonizzare la produzione e lo sviluppo. Contrariamente a ciò che recitano i dogmi del "pensiero unico" oggi amplificato dai mass media, il progresso tecnologico e la crescita economica sono gli unici strumenti per sanare le piaghe della fame, per vincere le malattie e difendere l'ambiente.

4. Chi vuole mantenere i poveri più poveri?

Fino a prova contraria è vero che la democrazia politica è compatibile solo con un'economia di mercato. L'unione di capitalismo e democrazia non porterà il Regno dei Cieli sulla Terra; ma, per liberare i poveri dalla miseria e dalla tirannia e per dar spazio alla loro creatività, il capitalismo e la democrazia possono fare molto di più di quanto sia in
potere di tutte le altre alternative esistenti.
Per questo non possiamo non fare nostre le amare considerazioni del noto editorialista liberal americano Thomas Friedman, che sul non certo sospetto di tendenze confessionali e conservatrici New York Times ha descritto il
"popolo di Seattle" come "la coalizione che vuole mantenere poveri i più poveri".

5. La lezione di don Sturzo

Invitiamo dunque tutti i cattolici a riflettere su questa lungimirante pagina una previsione della globalizzazione - scritta nel 1928 da don Luigi Sturzo: "Alcuni hanno timore della potenza enorme che ha acquistato e acquista sempre più il capitalismo internazionale che, superando confini statali e limiti geografici, viene quasi a costituire uno Stato nello Stato. Tale timore è simile a quello per le acque di un fiume; davanti al pericolo di uno straripamento, gli uomini si sforzano di garantire città e campagne con canali, dighe e altre opere di difesa: nel medesimo tempo lo utilizzano per la navigazione l'irrigazione, la forza motrice e così via. Il grande fiume è una grande ricchezza e può essere un grave danno: dipende
dagli uomini, in gran parte, evitare questo danno. Quello che non dipende dagli uomini è che il fiume non esista. Così è del grande fiume dell'economia internazionale. La sua importanza moderna risale alla grande industria del secolo scorso: il suo sviluppo, attraverso invenzioni scientifiche di assai grande portata nel campo della fisica e della chimica, diverrà ancora più importante, anzi gigantesco, con la razionale utilizzazione delle grandi forze della natura. Nessuno può ragionevolmente opporsi a simile prospettiva: ciascuno deve concorrere a indirizzare il grande fiume verso il vantaggio comune (). Contro l'allargamento delle frontiere economiche dai singoli stati ai continenti, insorgono i piccoli e grandi interessi nazionali, ma il movimento è inarrestabile; l'estensione dei confini economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò, è fuori della realtà".

Primi firmatari:

Fabio Massimo Addarii, avvocato
Luigi Amicone, giornalista
Gianni Baget Bozzo, teologo e politologo
Giampaolo Barra, giornalista
Marco Biscella, giornalista
Rino Cammilleri, scrittore
Giovanni Cantoni, saggista
Rodolfo Casadei, giornalista
Ubaldo Casotto, giornalista
Roberto Defez, biologo
Gian Pietro De Gaudenzi, ingegnere
Paolo De Marchi, notaio
Stefano Filippi, giornalista
Gianni Fochi, Scuola Normale Superiore di Pisa
Giovanni Formicola, avvocato
Giusppe Fornari, filosofo
Antonio Gaspari, giornalista
Claudio Gelain, giornalista
Piero Gheddo, giornalista e missonario PIME
Carlo Lottieri, saggista
Andrea Morigi, giornalista
Alessandra Nucci, giornalista
Marcello Pacini, saggista
Giovanni Palladino,Presidente Centro Internazionale don Luigi Sturzo
Ernersto Pedrocchi, ordinario di Energetica al Politecnico di Milano
Carlo Pelanda, economista e Presidente Associazione Nazionale del Buongoverno
Angela Pellicciari, storica
Giuseppe Rasi, economista
Marco Respinti, pubblicista e saggista
Robi Ronza, giornalista
Enrico Salomi, giornalista
Antonio Socci, giornalista
Ugo Spezia, ingegnere nucleare e giornalista scientifico
Marco Tangheroni, Università di Pisa
Stefano Zurlo, giornalista
Anna Bono, docente di Storia e istituzioni dell'Africa all'Università di Torino, facoltà di Scienze Politiche.
Giulio Dante Guerra, chimico, Primo ricercatore delle Ricerche Centro Studi sui Materiali Macromolecolari Polifasici e Biocompatibili del CNR, Pisa.
Giovanbattista Demma, Primo Ricercatore CNR.
Antonio Malorni, Direttore Istituto Scienze dell'Alimentazione, Avellino
Paolo Blasi, professore ordinario di Fisica Sperimentale, Università di Firenze
Tullio Regge, fisico (non sono credente ma concordo con le preoccupazioni esposte nel documento).
Franco Battaglia, docente università Roma Tre
Cosma Gravina, assessore lavoro e attività economiche della Provincia di Milano
Fra Aldo Motta, ofmcapp
Mario Palmaro, docente di Filosofia del Diritto all'Università degli Studi di Milano
Irene Lobeck, membro del consiglio pastorale parrocchiale, S. Maria Liberatrice, Milano
Eugenio Corti, storico e scrittore, Premio nazionale cultura cattolica
Padre Roberto Sirico, presidente Acton Institute for the study of Religion and Liberty
Flavio Felice, responsabile Italia dell'Acton Institute for the study of Religion and Liberty
Michael Novak, ricercatore presso l'American Enterprise Institute
Cesare Cavalleri, direttore di Studi Cattolici
mons. Andrea Gemma, vescovo di Isernia Venafro
Marco Fusco, responsabile comunicazioni sociali di mons. Andrea Gemma, vescovo di Isernia Venafro

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COMUNICATO STAMPA

Bologna, 22.11.2001

"La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili [.]" (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 15)

Chi ha violato la nostra Costituzione a Genova pensa di poter continuare a farlo impunemente.
Una busta contenente una videocassetta prodotta da Indymedia sui fatti del G8 di luglio, che sta circolando da mesi, spedita da Bologna a Ferrara, e che avrebbe dovuto essere proiettata pubblicamente domani sera, è stata aperta.
Qualcuno ha parzialmente distrutto la videocassetta e vi ha tracciato sopra una croce celtica, rendendo manifesta la matrice fascista e intimidatoria del gesto.
Il gesto è ancora più grave per il fatto che la busta è stata spedita da privato cittadino a privato cittadino, e non riportava alcuna palese indicazione del contenuto né simboli di associazioni o partiti politici.
Questo vuol dire che esistono lunghe liste nere in cui figurano nomi di studenti universitari che fanno politica nelle proprie facoltà? Oppure tutta la corrispondenza di questo Paese rischia di passare nelle mani di qualcuno che non resiste alla tentazione di imbrattarla con simboli fascisti?
Chi ha compiuto questi gesti non pensi di intimidirci in alcun modo; oggi abbiamo avuto l'ulteriore conferma che i diritti e la democrazia nel nostro Paese sono più a rischio che mai.
Ci rivolgiamo alle istituzioni, polizia e magistratura, che ci dovrebbero tutelare, perché identifichino al più presto l'autore del gesto e dimostrino di non essere conniventi con la violazione sistematica delle nostre libertà costituzionali.

Gli studenti e le studentesse dello
Spazio Sociale Studentesco
di via Belmeloro

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Da laico (non credente, ateo ... mettetela come volete) forse sono un intruso e se intervengo è solo perchè dopo Genova mi sono reso conto che non si può continuare a vivere nella propria "parrocchia" (i cattolici mi perdonino l'uso profano del termine:-) senza mettere mai il naso fuori. A Genova ho scoperto che i motivi per cui mi trovavo li, per una "chiamata di partito" (Verdi)- che naturalmente condividevo, erano gli stessi della rete lilliput e di tante altre associazioni. Ho visto religiosi con la "divisa" (non conosco il termine appropriato) con su gli adesivi di DROPT THE DEBT.
Mi ha stupito trovare tanti cattolici partecipi alla protesta per le politiche economiche ed alimentari dei signori della terra.
Magari la sinistra ne fa una battaglia di giustizia mentre per i cattolici è più una questione di solidarietà ma l'obiettivo mi pareva lo stesso...
La posta di Nadia mi pone un dubbio.
Un dubbio profondo proprio sugli obiettivi.
Tante forze prima disperse (e quindi ininfluenti) si sono ritrovate nel forum condividendo risorse e conoscenze, mettendo a punto iniziative che reputo "di crescita", se non altro culturale.
Ma la cultura "popolare" e "laica" - nella quale mi riconosco - si colloca in una linea strategica di critica del sistema, cosidetto "capitalista", dove tutto è merce e serve ad accumulare capitale privato. A scapito della qualità del lavoro, del cibo, dell'ambiente nel quale viviamo ...
La lettera di Nadia mi apre uno scenario, invece, che mi pare <<esclusivamente>> di solidarietà verso i più deboli ...
Non che ci sia nulla di sbagliato, anch'io ho lavorato - da adolescente - con l'Operazione Mato Grosso dei salesiani ...
E' quel supposto <<esclusivamente>> che mi lascia perplesso e mi crea nuovi dubbi sulla lettura che avevo applicato a quanto avevo visto a Genova, dove la presenza di tanti cattolici mi era parso il segno di una nuova era, per una società che acquista consapevolezza di se e si alza a reclamare giustizia ed equità per tutti (scusate l'immagine retorica, mi è scappata!). A prescindere dal credo e dai partiti.
Ma in questo discorso CL, che ho sempre considerato la DESTRA cattolica, reazionaria, in difesa dei valori su cui si fonda questo sistema, integralista e furba (Biffi e Andreotti) non dovrebbe centrarci se non come i cavoli a merenda. E la distanza tra il sottoscritto e CL è enorme e felicemente (per me) incommensurabile.
Nadia sostiene, nel suo resoconto, che tutte e due le iniziative, anche se per strade diverse, erano iniziative di "carità" e quindi lodevoli (proprio perchè l'altra organizzata da CL).
Sono convinto che un atto, come raccogliere alimenti per i più deboli, non può essere visto solo per quello che appare ma anche per le implicazioni più celate e recondite, come quella di oscurare la GNA.
Ora, il dubbio che mi prende è il seguente: che non abbia capito niente?
Per favore, spiegatemi ...

Renzo

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dal sito di repubblica:

A sparare in piazza Alimonda a Genova il 20 luglio, quando durante gli scontri del G8 fu ucciso Carlo Giuliani, potrebbe non essere stata solo la pistola di ordinanza del carabiniere di leva Mario Placanica, ma anche un'altra arma. A gettare dubbi sulla ricostruzione della sequenza della morte di Giuliani è la perizia balistica, depositata nei giorni scorsi in procura dal perito d'ufficio Valerio Cantarella.
La perizia ordinata dal pubblico ministero Silvio Franz, che indaga sulla morte di Giuliani, ha stabilito che uno dei due bossoli trovati in piazza Alimonda - quello che era all'interno della camionetta - è stato sparato dalla pistola di Mario Placanica, il carabiniere accusato di omicidio volontario. Per il bossolo ritrovato in terra invece, il tasso di compatibilità con l'arma del carabiniere è bassissimo: a spararlo dunque potrebbe essere stata un'altra arma.
La perizia, sottolineano gli esperti, non modifica la ricostruzione della morte di Giuliani: a uccidere il manifestante, senza nessun dubbio, è stato un proiettile sparato dalla pistola di Placanica. Lo conferma l'autopsia e l'analisi della traiettoria del colpo.
I risultati resi pubblici oggi però mettono in dubbio la versione finora accreditata dei fatti di piazza Alimonda: fino a oggi si era sempre pensato che a sparare fosse stata un'unica pistola. Ora questo non è più certo.
La novità apre anche un altro interrogativo: Placanica ha ammesso di aver sparato due volte. Se il secondo bossolo ritrovato nella piazza non apparteneva alla sua arma chi altro ha fatto fuoco quel giorno? E dove si trova il secondo bossolo della pistola del carabiniere indagato? Tutte domande a cui dovranno rispondere gli investigatori: è probabile che nelle prossime settimane siano interrogati di nuovo tutti i protagonisti della vicenda.

(10 dicembre 2001)

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L'affermazione di Scajola ha proprio colpito la sensibilità di tutti i cittadini se necessita di  una presa di distanza tanto dura ed incondizionata del funzionario di polizia: "..sarebbe stato - un ordine - comunque manifestamente criminoso e i funzionari di Polizia si sarebbero semplicemente rifiutati di eseguirlo".

LA SMENTITA DEI FUNZIONARI DI POLIZIA - «Le dichiarazioni del ministro Scajola lasciano assolutamente sorpresi coloro che a Genova hanno avuto le maggiori responsabilitá dell'ordine e della sicurezza pubblica. C'è da
dubitare che il ministro possa essere stato del tutto frainteso in quanto si può affermare con certezza che nessun funzionario di quelli che avevano, anche ai massimi livelli, le responsabilitá operative dell'ordine pubblico a Genova, abbia mai ricevuto l'ordine di sparare sulle folle in caso di invasione della zona rossa». Lo afferma Giovanni Aliquò, segretario dell'Associazione Nazionale dei Funzionari di Polizia, in prima linea a Genova nei giorni del G8. L'ordine di sparare del quale ha parlato il ministro dell'Interno, in caso di invasione della zona rossa, «ove fosse stato impartito - aggiunge Aliquò - sarebbe stato comunque manifestamente criminoso e i funzionari di Polizia si sarebbero semplicemente rifiutati di eseguirlo mantenendo l'ordine pubblico ed assicurando l'incolumitá dei partecipanti al summit con gli strumenti ordinari, atteso che all'interno della zona rossa era stata provvidenzialmente creata una seconda cintura di sicurezza».

FORZE ARMATE - «Se il ministro intendeva, invece, riferirsi all'impiego dei mezzi e delle potenzialitá delle forze armate in caso di attacco dai cieli o con metodologie di guerra, è certo che ciò travalica le competenze ordinarie
ed implica livelli di responsabilitá diversi e più alti da quello del dicastero dell'Interno - osserva ancora Aliquò -. Conosciamo le minacce che hanno gravato sul G8, e sappiamo che, al di lá di marginali problemi di ordine pubblico, la Polizia di Stato italiana, con le altre forze, ha garantito in condizioni eccezionali un evento eccezionale».

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da Alto Adige, sabato 9 marzo 2002

G8, caccia ai poliziotti che picchiarono i manifestanti Nicola Canestrini: «Denunceremo il funzionario che ordinò le cariche»
Le violenze avvennero in piazza Manin

ROVERETO. Identificare i responsabili delle violenze ai danni dei manifestanti trentini al G8 di Genova. E' questo l'obiettivo più immediato di Nicola Canestrini, che vuole dare un volto ai poliziotti coinvolti nelle cariche e nel lancio dei micidiali lacrimogeni al Cs. «Stiamo lavorando con i colleghi del Genoa Legal Forum per riuscire a risalire ai diretti
responsabili», dice il legale roveretano che è anche direttore del Centro italiano studi per la pace e professore a contratto in Mediazione dei conflitti all'Università di Ferrara.
Attraverso la visione dei filmati prodotti dalle tv nazionali e dai singoli manifestanti, il team di avvocati punta ai nomi e ai cognomi di chi colpì con violenza uomini e donne inermi, insegnanti, preti, impiegati, infermiere, in gran parte membri di associazione pacifiste.
Quasi tutti avevano il volto coperto con caschi protettivi e lacrime antigas. Tranne uno, che era vestito in borghese. Si tratta di Salvatore Pagliuzzo Bonanno, il funzionario della polizia che coordinava gli agenti schierati in piazza Manin venerdì 21 luglio.
«Era lui che aveva la facoltà di dare l'ordine di caricare e sparare i lacrimogeni», dice Canestrini. «Lo denunceremo per responsabilità diretta qualora emergesse che le cariche erano illegittime. Questo avviene quando non ricorrono i presupposti dell'articolo 53, secondo cui la polizia può ricorrere a mezzi di coazione fisica solo se costretta dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza. Ma potrebbe esservi anche responsabilità omissiva, perché come pubblico ufficiale aveva l'obbligo di intervenire se avesse assistito a soprusi come l'atto di colpire con il manganello persone a terra». 
Gli avvocati del Genoa Legal Forum stanno anche valutando se il fatto di agire con il volto camuffato da maschere antigas sia da ritenersi un comportamento punibile dalla legge, che vieta di coprirsi il volto in pubblico.
C'è poi il fronte dei gas contenuti nei lacrimogeni e ritenuti molto pericolosi per la salute. L'associazione si è messa in contatto con analoghi sodalizi di altre nazioni per condurre una battaglia comune contro l'utilizzo del "Cs", che sarebbe in grado di causare polmoniti, edemi polmonari, gastroenteriti, ulcere perforanti e gravi dermatiti.

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La notizia che per noi non è certo inattesa è stata riportata adesso da repubblica on line e ve la rimando tal quale. C\'è un forse ma si sa che in questi casi è d\'obbligo.

Genova, 17:33

G8, Diaz: Ris, forse agente simulò accoltellamento.

Una perizia mette in dubbio che un agente abbia subìto un tentativo di accoltellamento nella scuola Diaz durante il G8 di Genova. Le coltellate "parate" dal giubbotto antiproiettile furono presentate, durante e dopo l\'irruzione nella scuola, come causa scatenante della violenza per la quale ieri i magistrati hanno inviato 48 avvisi di garanzia a altrettanti agenti
di polizia (leggi qui). Ora però la procura ipotizza la simulazione.
Il Reparto investigativo scientifico di Parma ha impiegato due mesi per analizzare il corpetto antiproiettile e il giubbotto in dotazione all'agente scelto Massimo Nucera. Nucera aveva denunciato di essere stato accoltellato da un manifestante mentre iniziava l'irruzione insieme ai suoi colleghi. Gli esami sulle lacerazioni agli indumenti, una verticale e l'altra obliqua, provocate da un coltello a lama dentata, mettono in serio dubbio il racconto del poliziotto. E la procura di Genova non esclude l'ipotesi che sia stato lo stesso Nucera, forse con l'aiuto di un collega, a danneggiare gli indumenti per giustificare le violenze. (Red)

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Alla società civile,
Ai movimenti, alle reti e alle singolarità in cammino,
costruendo un altro mondo possibile

un anno fa, di questi giorni, ci incontravamo in tutte le città italiane e del mondo per raccogliere insieme la sfida degli Otto Grandi della Terra, attesi per il luglio successivo a Genova. Gli oscuri messaggi di intimidazione e repressione raccolti a Gotebor e Barcellona non ci fermarono. Non fermarono una mobilitazione che aveva già seguito un percorso di continua crescita, da Amsterdam a Seattle, dalla Selva Lacandona a Porto Alegre, da Seoul a Bologna, da Johannesburg a Praga, dalla stessa Genova a Washington, da Napoli a Quebec City.
Il movimento globale ha affermato come non mai, quel luglio, a Genova, la sua novità e la sua singolarità. Movimenti di lotta e cooperazione contro il neoliberismo, reti di pratiche libertarie e solidali, organizzazioni politiche e sociali e, soprattutto, singole e singoli hanno composto, pur con mille difficoltà ed impacci, contaminazione tra differenze e determinazione comune. Ha assediato il G8, si è rifiutato di riconoscerne l'autorità e per questo ha subito una repressione senza precedenti, affidata al governo Berlusconi ed agli apparati di Stato italiani e internazionali. Un giovane, Carlo Giuliani, è caduto ucciso.
Migliaia sono stati perseguitati per le strade. Centinaia sequestrati e torturati.
Il movimento globale ha investito l'Italia, la vita delle sue cento città: ne ha riempito le piazze diffondendosi proprio contro quella repressione, anziché scompaginarsi. Sono state nuove brecce, che comunque rimangono, aperte a tutte le articolazioni e alla descrizione d'una inedita cartografia del conflitto sociale e d'una nuova costruzione civile. Il movimento che s'era evocato adottando il nome raccolto dalla prima Porto Alegre, quello dei Forum sociali, quando ha conservato
lo spirito di Genova, non si è mai espresso come soggetto unico ed omogeneo ma come vero e proprio movimento di movimenti.
Quante e quanti si erano ritrovati e riconosciuti nello Stadio Carlini di Genova e nel corteo della disobbedienza civile a via Tolemaide, che avevano dovuto vedere il sangue di Carlo Giuliani versato sull'asfalto di piazza Alimonda, che avevano sofferto insieme la riflessione su quella morte subita, decisero di affermare la loro consapevolezza: di come quella repressione avesse travolto la pratica scelta, ma anche di come un nuovo valore fosse stato generato dall'esperienza, un valore di socializzazione e di comune protagonismo, nella disobbedienza al dominio e nel rifiuto dell'ordine presente. Hanno affermato la volontà di sperimentare un'estensione e una trasformazione della pratica disobbediente, che fosse aderente alla produzione di soggettività e ne promuovesse il conflitto e il consenso. Ci siamo costituiti per questo in Laboratorio della disobbedienza sociale, per condurre e contribuire con un nuovo esperimento.
Poi è venuto il tempo della Guerra Globale Permanente. Con la strage dell'11 settembre il tragico gioco di specchi in cui si delinea l'ordine imperiale dei poteri sulla globalizzazione, la guerra infinita con cui riprodurre comando ed esclusione, controllo e separazione, ha imposto i suoi abbagli.
E' venuta la guerra, ma in Italia il movimento non si è fermato: ciò che da Genova era fluito riuscì a declinare il contrasto al governo capitalistico della globalizzazione e alle sue politiche neoliberiste con quello al loro strutturale compendio, un ordine di guerra, militare ma anche economica e sociale, arrivando fino alla seconda Porto Alegre.
Proprio in faccia alla ferrea ricodificazione della guerra permanente, la capacità di iniziativa del movimento ha esibito elementi di un nuovo ciclo di conflittualità. In quel momento, centinaia di migliaia non cessarono di dimostrare la nuova capacità di radunarsi nelle stesse strade, e sul medesimo cammino, a manifestare un'insorgenza di milioni: contro la guerra come contro gli attacchi del padronato industriale al lavoro, contro l'aziendalizzazione dell'istruzione come contro le leggi razziste.
Il movimento era andato oltre quegli stessi spazi che si era dato, abitando le scuole e gli atenei, le fabbriche, le baracche e le filiere produttive del lavoro migrante. Ha diffuso la sua autonarrazione, dispiegando gli strumenti della comunicazione indipendente, sottraendosi ai monopoli di quella ufficiale, ma anche aprendovi fronti. Ha oltrepassato la stessa rete di relazioni di una società civile divisa dal saliente della guerra come da una spada, e si è espresso come insieme di movimenti sociali. Al cospetto del nuovo ordine di poteri, che le destre interpretavano in Italia. Fuori e oltre la palude della sconfitta lasciata da quanti a Genova non erano voluti venire, e di cui ora il movimento investiva le basi di consenso, dove si producevano ulteriori pratiche di mobilitazione.
Noi stessi, realtà e luoghi dove l'esperimento della disobbedienza sociale si era inizialmente prodotto, trovammo che essa era diventato un nome comune dell'insubordinazione. L'esperimento si era diffuso, disseminandosi in nuove reti e in una rinnovata produzione di soggetti, motore di conflitto. Da qui la decisione di riconoscerci movimento tra i movimenti, per porre a valore questa differenza e questa diffusione: movimento delle e dei disobbedienti.
Poi, ancora, non siamo stati più soli. Dopo tre scioperi generali del sindacalismo di base, dopo l'evocazione disobbediente del tema della lotta generale per i diritti, dal movimento studentesco a quello, nuovo e importante, delle
e dei migranti, si è imposto finalmente all'orizzonte lo sciopero generale delle grandi confederazioni e un grande, per quanto obbligato, ritorno alla lotta della maggiore, la Cgil.
Il conflitto sociale, ridislocato e rideterminato dal movimento di Genova, ha preso corpo e trovato la sua punta di lancia sul terreno dello scontro diretto tra capitale e lavoro, e nelle stesse articolazioni tradizionali di questo.
Un quadro diverso, che ha posto al movimento dei movimenti altre interrogazioni, altre esigenze di prospettiva. Una riflessione che, però, si è dispersa, sulla traccia complessa di un filo resosi nei fatti meno visibile: quello della natura globale del movimento e della globalità del tema che aveva posto, la decisione comune.
Noi stessi, disobbedienti, abbiamo interpretato questo limite: ad esempio, sottraendoci fino ad oggi al percorso verso il primo Foro sociale europeo, fissato nell'ultima Porto Alegre proprio in Italia, a Firenze, per il prossimo novembre. Così come l'intero movimento italiano ha segnato la sua assenza da un appuntamento che proprio di quel percorso avrebbe dovuto rappresentare la prima occasione pratica: il controvertice di Barcellona, che ha superato lo stesso tetto di partecipazione toccato da Genova. Mentre già si affaccia una nuova data europea, quella del controvertice di Siviglia contro la piattaforma anti-sociale dell'Ue, e torna il rischio d'un mancato incontro da parte dei movimenti italiani.
Noi disobbedienti, pur in presenza dell'esperienza straordinaria compiuta con la partecipazione alla Carovana di Action For Peace in Palestina e all'affermazione in essa d'una nuova azione contro la Guerra Globale Permanente, attraverso
l'ingaggio di corpi e linguaggi pratiche di protezione diretta dei civili e di diplomazia dal basso, abbiamo riscontrato questa difficoltà. Non ci si è saputi sottrarre ai termini vecchi e angusti della mobilitazione classica e rituale che non poteva che favorire chi ha sempre sperato nella morte e non nella vitalità dei movimenti. Non si è saputo riportare l'innovazione, in termini di pratica e di pensiero, rappresentata da ciò che avevamo imparato nel cuore della Guerra.
Le lacerazioni che si sono verificate in Italia sono state un regalo all'apartheid di Sharon e allo sviluppo, senza troppi intoppi, in Israele d'uno dei nuovi e più avanzati laboratori della medesima Guerra Globale.
Lo sciopero del 16 Aprile per noi doveva diventare da "generale" a "generalizzato".
Grazie a questo concetto, che di fatto è divenuto un'idea forza assunta da tutte e tutti, si è riusciti finalmente a dare corpo e anima al vecchio ragionamento sullo sciopero di cittadinanza.
Non è cosa da poco anche perchè innervata nella ricomposizione delle vecchie e nuove figure del lavoro resa possibile dalla lotta per l'art.18 assunta come lotta per i diritti, quelli che il governo vuole sopprimere o non riconoscere.
Le iniziative di generalizzazione prodotte nella giornata dello sciopero del 16 aprile, per quanto ci compete recano un bilancio di diffusione straordinaria di azioni di disobbedienza sociale, anche se confermano che quando la gestione è troppo timida nell'articolare un discorso che proponga le differenze come parte viva, visibile e conflittuale per la contaminazione e la ricomposizione dentro la moltitudine, prevale la divisione in percorsi che alla centralità del conflitto antepongono l'insegna, proclivi ad un approccio ridotto alla nicchia e alla delimitazione.
Nella recente scadenza delle elezioni amministrative, diverse realtà disobbedienti si sono impegnate in alcuni percorsi, tra loro differenti, di incursione in quel passaggio, ad un livello piuttosto prossimo e incombente sulla quotidianità dell'agire delle reti sociali, il livello dei nessi amministrativi; e al cospetto delle problematiche poste sul terreno dello sviluppo del movimento, ossia il rapporto tra la sua autonomia - e singolarità - e lo spazio presente della politica, la crisi degli statuti di questa e i temi e le pratiche imposti dal ciclo di mobilitazioni di quest'anno. Nel contesto, peraltro, di un tentativo - non solo italiano - di riorganizzazione del consenso intorno alla sinistra moderata e alla sua ipotesi di governo temperato della globalizzazione neoliberista, proprio quando il suo disastro tocca il massimo e più che mai pericoloso grado di conferma in Europa.
Le sperimentazioni, differenti anche negli esiti, confermano per noi la centralità del tema del municipalismo, delle articolazioni che esso porta con sè, come gli elementi di partecipazione e democrazia diretta.
Come altri dati che, grazie al fatto che le sperimentazioni qualcuno le fa, senza paura di essere "scomunicato", ci hanno consegnato un quadro che dice chiaramente che un conto è parlare di "crisi della rappresentanza", un altro quello di dare per scontato che questa situazione provochi la "crisi dei partiti". Un conto è dire che i simboli dovrebbero essere superati e non diventare un feticcio, ed un altro è dire che questo è già accaduto.
I simboli ed i partiti, in queste elezioni, contano, e contano molto. La stessa discriminante contro la guerra, non ha inciso minimamente sulla raccolta di consensi che si è determinata sull'antiberlusconismo in massima parte. Le riflessioni sono aperte ma certo è che i nodi sono tutti da sciogliere e le strade tutte da percorrere. E' chiaro che poi una rete di amministratori, consiglieri di comuni grandi e piccoli che hanno come priorità lo sviluppo di percorsi di rottura in senso municipale, oggi esiste. Ne rivendichiamo tutta la positività e la potenzialità.
La mancata mobilitazione dei movimenti in occasione dell'arrivo di George Bush II a Roma e per il vertice Nato-Russia a Pratica di Mare, crediamo debba essere utilizzata da tutti per aprire una riflessione.
Come disobbedienti partiamo dall'autocritica, ma la delusione per non essere noi riusciti, in primo luogo, a fare la nostra parte, non può nascondere che i problemi sono di natura anche generale e riguardano tutti. Sono secondo noi di almeno due ordini: uno riguarda il meccanismo di riconoscimento,condivisione, attrazione dei social forum. Secondo noi oggi è necessario dire con forza che quello che è importante è lo spirito di Genova e non un logo, tra l'altro ormai incapace di attrarre, di diventare motore come fu per alcuni mesi.
Dobbiamo superare l'idea che è "irrigidendo" o mantenendo burocraticamente il simulacro dei luoghi di movimento, si fa movimento.
Dobbiamo uscire da noi stessi, ritrovarci perchè ne sentiamo il bisogno, perchè c'è un sacco di gente che partecipa, condivide, si sente coinvolta.
Potremo stare a discutere per molto tempo sul perchè il meccanismo del social forum in moltissime parti del paese è divenuto uno strumento inservibile.
In altre realtà, più piccole in genere, è divenuto il primo ed unico luogo e forse per questo ha mantenuto la sua capacità di essere reale. Però dobbiamo cominciare a dircelo, senza paura che questo significhi la fine dello "spirito" di Genova.
Trasformare i social forum in una sorta di modellino preconfezionato e scontato non ha fatto bene al movimento. Cominciamo col dire che i luoghi, gli spazi pubblici sono molteplici e funzionano se sono in grado di attrarre, volta per volta, di misurarsi con il convincimento e con la capacità di produrre azione politica, conflitto e consenso.
Togliamo questa sacrale inerzia dai nostri modi di fare. Ne avremo tutti un beneficio.
L'altro grande problema è la piazza. Non possiamo nasconderci che il limite è anche di natura profondamente materiale e politico allo stesso tempo.
Cosa saremmo stati in grado di proporre come azione collettiva a Pratica di Mare? Un'altra grande e ordinatissima sfilata? Dopo Genova, dopo quello che è accaduto, noi dobbiamo fare i conti con questo. La pratica dell'illegalità, cioè della produzione dal basso di nuova legalità contrapposta alla legge ingiusta dell'Impero, sia essa limitazione della libertà di manifestare o imposizione di politiche criminali che provocano la morte a milioni di esseri umani ogni anno, non è un nodo "tattico" e tantomeno "tecnico". Da quel blocco dell'accesso del Wto round di Seattle nel 99 a Genova, questo siamo stati capaci di fare. Dallo smontaggio del Mc Donald's operato da Bovè, a quello del centro di detenzione per migranti di Bologna, questo abbiamo fatto. Liberare il desiderio di cambiare e produrre senso nel farlo, pensare al rapporto con la legge, l'ordine costituito come un rapporto non immutabile. Questo significa per noi anche forzare il ruolo, la delimitazione, di concetti come società civile, fare società, conflitto, consenso, trasformazione.
Dopo Genova abbiamo ragionato poco su questo. Salvo poi ritrovarci in Palestina a dover fare i conti esattamente con lo stesso problema, nelle azioni dirette di protezione dei civili. Quindi crediamo importante porre a noi per primi e poi a tutti la domanda. La risposta, è chiaro, non può che essere frutto di grandi contaminazioni.
Adesso, bussa alle porte l'appuntamento con la settimana della Fao a Roma, indicato ancora una volta dal Foro sociale mondiale di Porto Alegre: sarà come sempre una nuova occasione di verifica, a partire dalla manifestazione internazionale dell'8 giugno, la prima in Italia dopo Genova, e dalle azioni decentrate fissate per quei giorni e cui comunque, al di là delle date, ci sentiamo chiamati per affermare il rifiuto del controllo del WTO sulle politiche agricole e dell'alimentazione, dell'uso dei brevetti delle multinazionali, del potere sulla vita esercitato duplicemente con l'estensione del transgenico.
PER L'AUTONOMIA E LA CREATIVITA' DEL MOVIMENTO DEI MOVIMENTI.
Vorremmo che si aprisse su questi punti un dibattito pubblico. Una consultazione che investa di discussioni e bilanci tutte le realtà presenti fin qui nella nostra sperimentazione, con la quale riprendere il lavoro interrotto d'una nuova mappa del conflitto e delle pratiche disobbedienti, a partire dai laboratori locali che dovranno rendersene protagonisti; e nel cui corso nessuno più parlerà per le ed i disobbedienti, ma come disobbediente, con tutta la propria peculiarità.
Mentre l'agenzia di comunicazione, strumento di cui ci siamo dotati per la relazione interna ed esterna e per la verifica delle decisioni, resterà come riferimento di servizio per la consultazione stessa, strutturandosi via via intorno ai suoi risultati.
Una consultazione attiva, perché siamo consapevoli che solo un rilancio dell'azione disobbediente potremo contribuire al rilancio della dinamica conflittuale complessiva del movimento dei movimenti.
Come pure parteciperemo alle giornate di Siviglia per avviarci su un nuovo cammino di relazioni pratiche continentali, tra disobbedienze diverse, capaci d'iniziativa comune: affinché il passaggio del Foro sociale di novembre a Firenze, nel cui percorso di costruzione sia pure tardivamente ci immetteremo adesso, non sia foriero di rinnovate separatezze nel movimento e sopra di esso, ma invece sia un passaggio davvero fondamentale 
PER L'UNIFICAZIONE EUROPEA DELLE LOTTE SOCIALI.
Una consultazione attiva, perché sarà rivolta fuori di noi. Per aprire la discussione sulle forme e le pratiche della decisione comune nel conflitto, a fronte della moltiplicazione delle possibilità e dei soggetti del suo esercizio, nei mesi a venire. Per aprire la discussione su come questa decisione comune possa calcare il cammino della costruzione di momenti e luoghi aperti di democrazia radicale.
Attiva, perché dovrà non interrompere ma proseguire e vivificare gli esperimenti di disobbedienza sociale, anzitutto rivolgendosi all'universo delle disobbedienze che non si nominano tali ma anche facendo valere una soggettività di movimento capace di sostenerle.
Specialmente, attiva nel produrre la verifica di nuovi percorsi di rete intorno alla proposta di reddito sociale garantito, e della sua capacità di legarsi alla moltiplicazione di istanze di conflitto nella combinazione delle figure del lavoro vivo, di recare un apporto al proseguio della lotta per l'unità del lavoro organizzato e del precariato sociale che lo attraversa e lo circonda.
Attiva, ancora, nel proseguire la sperimentazione della disobbedienza sul fronte centrale nel futuro della battaglia sui diritti, sul fronte del movimento del lavoro migrante, rilanciando le azioni contro i Centri di permanenza temporanea e inserendole nel contributo a quella nuova contro la legge Bossi-Fini e contro la discriminazione ed il sicurismo sociale.
Attiva nel fare del Movimento di Massa Anti Proibizionista un vettore di iniziativa socializzata a tutte e tutti i disobbedienti, per spingere avanti l'attivazione dei soggetti e del conflitto contro la solidificazione degli strumenti d'ordine della società di controllo.
Attiva, infine ma non per ultimo, perché a Genova noi intendiamo che vengano realizzate assemblee del movimento dei movimenti, davvero aperte all'esibizione della sua capacità conflittuale, senza timidezze né gelosie né prevaricazioni
né sottintesi, ma per rilanciarlo oltre ogni limite riscontrato e guardando ai soggetti reali. E perché intendiamo che la giornata del 20 luglio, a Genova, ad un anno dalla sua uccisione veda ancora con noi Carlo Giuliani, in una nuova vera manifestazione globale, non già per invocare ma per affermare, con gli occhi e le voci di tutti e in tutte le lingue del pianeta, due semplici parole: VERITA' E GIUSTIZIA!
Da un luogo indifferente, Italia, Europa, Pianeta Terra
Maggio-Giugno 2002, anno secondo della Guerra Globale Permanente
MOVIMENTO DELLE E DEI DISOBBEDIENTI

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Ciao a tutti,

come sapete dallo scorso dicembre è nato l'unico ente che si propone come obiettivo la diffusione della cultura nonviolenta Si chiama No Violence, conta un numero di 13-14 iscritti ed è nata dopo il G8 di Genova, che ho vissuto in modo drammatico per motivi personali, con lo scopo di promuovere iniziative per la prevenzione di scontri violenti in
varie manifestazioni di disobbedienza civile e propagandare l'uso della nonviolenza all'interno del movimento No Global. Per luglio abbiamo indetto il 1° Memorial Carlo Giuliani, una tre giorni che ha l'obiettivo di ricordare intanto i gravi scontri di Genova e naturalmente anche Giuliani, discutere l'uso della nonviolenza all'interno delle ideologie No Global o comunque di sinistra e ripercorrere le tappe della storia della nonviolenza da Gandhi ad oggi. 
Vi chiedo gentilmente di aderire all'iniziativa, sperando che possiate darci una sua risposta il più presto possibile.
 Grazie per l'attenzione e a presto,
Marco Bonardelli
Fondatore di
No Violence
Club multimediale per la protesta nonviolenta

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L' appello del Genoa Social Forum per (re)incontrarsi a Genova i giorni 19/20/21 Luglio 2002

GENOVA : LE NOSTRE RAGIONI

Noi che nel Luglio scorso abbiamo dato vita alla straordinaria e plurale esperienza del Genoa Social Forum rivolgiamo un appello a tutti e tutte coloro che lo scorso anno sono venuti a Genova per manifestare il loro dissenso contro il governo abusivo del pianeta, il G8, e le sue politiche di morte.
A tutti e a tutte coloro che, riconoscendosi nel patto di lavoro che dette origine al Genoa Social Forum e nella dichiarazione d'intenti del GSF di non recare danno alcuno a cose e persone, si sono visti negare il loro diritto a manifestare liberamente ed hanno subito una repressione senza precedenti nella storia della Repubblica Italiana.
Ci rivolgiamo alle donne ed agli uomini che, pur non essendo fisicamente a Genova, c'erano con il cuore e con la mente.
A tutti e a tutte coloro che hanno avvertito il grande segnale di quei giorni : i poveri che riprendevano la parola, gli ultimi che si rimettevano in cammino, una nuova generazione che scopriva il gusto e l'importanza dell'impegno politico.
Ci rivolgiamo anche a coloro che a Genova non c'erano per scelta e che solo dopo hanno capito l'importanza dell'evento.
Ci rivolgiamo ai registi che hanno filmato i colori e le percosse, ai giornalisti che si sono opposti alla disinformazione organizzata facendo il loro mestiere, agli uomini e donne di cultura che hanno avvertito la tragicità dei fatti ma anche l'inarrestabile voglia di dibattere, discutere raddrizzare i torti enormi che si continuano a consumare e di cambiare il
mondo che tutte le persone venute e Genova condividevano.
Noi vogliamo riprendere le proposte emerse nel Public Forum che precedette l'apertura del summit del G8.
Vi chiediamo di tornare a Genova un anno dopo, nella settimana che termina con il 19, 20, 21 Luglio, per dire al mondo ciò che la repressione ha voluto nascondere.
Per dire le nostre ragioni.
Voi G8, noi 6miliardi: era vero ieri lo è ancora di più oggi.
Anche i pochi impegni assunti dagli otto paesi più ricchi del mondo per la lotta alla povertà sono rimasti lettera morta.
In questo anno gli otto governanti abusivi del pianeta si sono macchiati di nuovi crimini contro l'umanità e risulta ancora piu' chiaramente che la loro modalita' di potere addensa ulteriori ed imminenti guerre che coinvolgono intere popolazioni civili.
Lo sterminio per fame e per malattie altrimenti curabili, l'inaccessibilità all'acqua potabile, lo sfruttamento inumano della forza lavoro, l'inquinamento dello biosfera e l'avvelenamento dei mari sono proseguiti senza alcun freno.
Tutto cio' viene messo in atto per garantire il massimo di profitto ad un gruppo di transnazionali che incamerano nelle loro mani ricchezze superiori a quelle del PIL di interi paesi.
Una guerra economica, sociale e militare è stata dichiarata dagli otto paesi più ricchi contro l'intera umanità.
Una guerra che uccide con l'arma del debito e degli aggiustamenti strutturali, con il controllo delle proprietà intellettuale da parte delle multinazionali e con la demolizione di ogni straccio di legislazione sociale che sia di impedimento alla selvaggia e libera espansione del mercato.
Una guerra che uccide con la crescita senza precedenti delle spese militari e con la costruzione di nuovi sistemi di morte come lo scudo stellare.
Una guerra che ci hanno detto voler essere permanente, sovrana regolatrice della dittatura del mercato, volano ricercato per superare ogni recessione e far girare al massimo la macchina dell'ingiustizia.
A questo tipo di guerra seguono le guerre "guerreggiate" che tanti lutti continuano a produrre tra le popolazioni.
I potenti chiusi nella loro zona rossa, isolati dal mondo insieme al loro esercito privato, hanno avuto paura dei trecentomila di Genova.
Temevano che il tarlo di Seattle avesse scavato così a fondo da far vacillare il granitico consenso di cui hanno bisogno.
Per questo hanno scelto la repressione.
E Genova è stata violentata nel corpo e nell'anima, fino a versare il sangue di uno dei suoi figli: Carlo Giuliani.
Non immaginavano che il nostro dolore diventasse il dolore di una parte così vasta dell'umanità , che il nome di Carlo e di Genova varcasse gli oceani e le montagne, narrasse dolcemente alle orecchie di chi contadino/a, operaio/a, studente/ssa, disoccupato/a, senza casa, senza terra, senza speranza, che la storia non è affatto chiusa e che il loro destini possono essere riscritti con l'inchiostro della giustizia sociale, della libertà, della pace.
Torniamo a Genova un anno dopo.
A rincontrare i genovesi, in primo luogo quelli che ci hanno accolto con simpatia e condivisione dei nostri ideali, nonostante una ossessionante campagna intimidatoria, per la loro civiltà e per la loro pazienza, ma anche quelli di loro che erano stati indotti ad allontanarsi da una propaganda intimidatoria o che lo avevano scelto, perché capiscano che la
violenza stava dentro e dietro le grate e non nasceva dentro un movimento di migliaia di persone che scendevano in piazza per un mondo migliore.
A riscoprire Genova libera da cancelli, grate, posti di blocco. A continuare la riflessione, che e' cresciuta e lievitata in mille iniziative durante questo anno in Italia e nel mondo. A riflettere e a discutere sul nostro domani, sulla possibilita' di una reale alternativa alla globalizzazione neoliberista, con una modifica radicale dei saperi che metta al centro la formazione e la scuola come diritti per tutte e tutti, delle produzioni e degli stili di vita, a cominciare, dal ripensamento dei
consumi e dal rifiuto di utilizzare cibi geneticamente modificati, rilanciando l'agricoltura biologica, per continuare con la radicale ed indifferibile messa in discussione dei rapporti di produzione. Ad appoggiare e rilanciare tutte le campagne che si stanno sviluppando, come, ad esempio, quella contro la modifica della legge sulla produzione e il commercio delle armi, quelle per il boicottaggio di aziende e marchi responsabili di gravi violazioni di diritti e di attacco all'ecosistema,
quelle per la difesa e l'estensione delle garanzie dello Statuto dei Lavoratori e la lotta contro ogni forma di precariato, quella per l'affermazione dei principi di civiltà e di giustizia violati dalla legge sull'immigrazione Bossi - Fini, quelle per gli acquisti trasparenti e per la sicurezza alimentare, quella per la fine dell'embargo all'Iraq, quella contro la Nato, quella che intende riaffermare la difesa e la riqualificazione della scuola pubblica.
Torniamo a Genova perché le nostre ragioni sono ancora tutte presenti .
Sono ancora di più in movimento.
Nel chiedere al Comune di Genova di contribuire fattivamente a colmare queste ultime lacune organizzative, si ribadisce il calendario dei tre giorni clou della prossima settimana:

da Lunedì 15 a domenica 21 mostre fotografiche, spettacoli teatrali e di strada, proiezioni di video
Venerdi 19      ore     10-13           assemblea plenaria Social Forum nazionale
Venerdi 19      ore     15-20           assemblee tematiche di approfondimento
                                                     ... Alimentazione e agricoltura
                                                     ... Ambiente
                                                     ... Guerra
                                                     ... Immigrazione
                                                     ... Lavoro e non lavoro
                                                     ... Narcomafie e antiproibizionismo
                                                     ... Sanità
Venerdi 19      ore     20-22           dibattito "dalla FAO a Johannesburg"
Sabato 20       ore     10-13           assemblea organizzata dal enoa Legal Forum sulle tematiche connesse ai
                                                     tentativo in atto di limitare il diritto al dissenso
Sabato 20       ore     15                piazze tematiche
Sabato 20       ore     18                corteo
Sabato 20       ore     20,30          concerto di presentazione del CD "Genova chiama"
Domenica        ore     10-18           assemblea plenaria Social Forum nazionale
Domenica        ore     20.30           concerto

Il Social Forum genovese e nazionale parteciperanno ovviamente a tutte le manifestazioni organizzate dal Comitato Piazza Carlo Giuliani onlus in ricorrenza dell'anniversario della morte di Carlo e delle violenze subite da chi era in piazza col GSF a manifestare contro il summit dei G8.
I luoghi degli eventi, al pari dei loro "titoli" precisi, nonché l'elenco dei principali relatori, verrà fornito non appena
compiutamente definiti.
Nell'informare che è sereno il clima che ha contraddistinto gli incontri con i responsabili del Comitato per la Sicurezza Pubblica, si comunica che le notizie pervenuteci offrono un quadro di grande mobilitazione genovese e nazionale (sono già stati prenotati diversi treni speciali e molti pulman) e che lo sforzo del SF genovese e nazionale è in questo senso attualmente indirizzato all'affinamento della struttura organizzativa.
Il gruppo stampa del Social Forum Genovese
E mail : forumsocialegenova@katamail.com
In allestimento www.genoasocialforum2002.org

 ULTIMA EDIZIONE DEL PROGRAMMA INIZIATIVE GENOVA LE RAGIONI IN MOVIMENTO

VENERDI 12 LUGLIO c/o Palazzo della Circoscrizione di Bolzaneto Via Pastorino 8: 
VERITA' SU BOLZANETO!
Parteciperanno: 
Laura Tartarini Genoa Legal Forum 
Marcello Zinola Rappresentante provinciale del sindacato dei giornalisti Durante la giornata sarà esposta un mostra sugli eventi del G8 in piazza Rissotto.
Mostre fotografiche (SOTTOPORTICATO DI PALAZZO DUCALE )
1. "Porto Alegre" a cura del Gruppo Comunicazione del Milano Social Forum
2. "Un altro mondo e' possibile" a curo di Luciano Ferrara
3. "Libro bianco" a cura del Gruppo Comunicazione del Milano Social Forum
4. "L'anti G8 dei più" a cura di Silvestro Reimondo
5. "All'ombra del recinto" a cura del Forum Sociale del Ponente Genovese.
6. "Prima di Carlo" a cura dei comitati Roberto Franceschi, Luca Rosso, Francesco Lo Russo, Fausto e Iaio, Peppino     Impastato, Franco Serantini ed altri.
7. Testimonianze su Carlo Giuliani raccolte dall'Archivio ligure di scrittura popolare della Facoltà di Storia di Genova a     cura del prof. Antonio Gibelli
15 - 19 luglio Mostra artisti della CGIL, Biblioteca Berio
dal 17 al 19 LUGLIO : nella SALA MERCATO DEL TEATRO MODENA
17 LUGLIO ORE 21.00 : pièce teatrale del Teatro Danza di Torino
                       "    22.30 :     "         "      a cura del Gruppo Limpido
18 LUGLIO ORE 21.30 :    "         "      a cura del gruppo Homonovo
19 LUGLIO ORE 21.00 :    "         "      a cura del Collettivo di Ricerca teatrale di Vittorio Veneto
  "         "           "   22.30 :    "         "      a cura degli amici e delle amiche di Carlo
dal 16 LUGLIO al 18 LUGLIO nel PORTICO DI PALAZZO DUCALE
16 LUGLIO ORE 21.30 :  lettura di poesie a cura della CASA PARLANTE
17 LUGLIO     "    18.00 : incontro-dibattito sul tema "Credenti e non  credenti nel processo di globalizzazione"
18 LUGLIO     "    21.30 : "Oggi per la prima volta" pièce teatrale a cura degli amici e delle amiche di Carlo
Presentazione libri:
18 luglio 2002 ore 16.30 presso Sottoporticato Palazzo Ducale 
   "L'informazione tradita" ed. Zelig con Angelo Ferrari, Luciano Scalettari giornalista Famiglia Cristiana
18 luglio 2002 ore 17.30 presso Sottoporticato Palazzo Ducale
                                      "La trappola"; controinchiesta dei fatti di Genova e sul movimento globale; editori Riuniti
18 LUGLIO     "   18.30 presso Sottoporticato Palazzo Ducale
     "Un anno senza Carlo" di Antonella Marrone ed.Balbini-Castoldi
INIZIATIVE
17 luglio 2002  Biologgia 5 a Loggia Banchi
15 luglio 2002 ore 21 incontro con i Sem Terra Brasiliani Loggia Banchi
18 luglio 2002 ore 21 atrio Palazzo Ducale  Concerto di gruppi con presentazione del CD 'Piazza Carlo Giuliani'.
19 luglio 2002 dalle 15 alle 21 spazi per l'agricoltura biologia e l'alimentazione responsabile in Piazza Matteotti e                                                Loggiato Palazzo Ducale.
19 di luglio : consiglio nazionale ARCI alle ore 21  sessione aperta dei lavori dal titolo
                                               "Società civile, movimenti democratici per il cambiamento a un anno dai fatti di Genova".
19 luglio alle ore 21.30 :  LETTURE DALLA MEMORIA DEL FUOCO  di Edoardo Galeano , a cura della Comunità                                       di S.Benedetto al Porto e del Connettivo Oskar Matzerath - porticato di Palazzo Ducale
LE RAGIONI IN MOVIMENTO
19 luglio 2002 ore 10 - 13  Teatro della Corte, uscendo da stazione Brignole a sinistra.
                                          Assemblea plenaria di presentazione delle tematiche che verranno affrontate
19 luglio 2002 ore 15 - 20 FORUM da tenere in parallelo
                                         Migranti : Commenda di Pre, vicino stazione Principe
                                         Alimentazione - Agricoltura : Loggia Banchi, dietro piazza Caricamento
                                         Antiproibizionismo : Sala Cambiaso, salita S. Francesco vicino piazza Meridiana
                                         Ambiente : Sala del Camino, via Garibaldi
                                         Guerre : Teatro della Corte
                                         Sanitari del GSF : Villa Rosazza, uscendo da stazione Principe a sinistra.
                                         Lavoro - Non lavoro - precarieta&#8217; : Palazzo San Giorgio, piazza Caricamento
VERITA' E GIUSTIZIA SUI FATTI DI GENOVA
20 luglio 2002 ore 10 - 13 Convegno gestito dal Genoa Legal Forum Teatro della Corte
20 luglio 2002 ore 10 - 13 consiglio nazionale forum ambientalista sala ermi, vico Boccanegra, traversa di via Garibaldi.
20 luglio 2002 ore 10 - 15 incontro cooperative sociali sala Cambiaso.
20 luglio 2002 pomeriggio  Incontro di Action for Peace presso Loggia Banchi
                                          BiciG8 da Bolzaneto a Piazza Alimonda
PIAZZE TEMATICHE : Migranti : piazza della Commenda
                                       Disobbedienza, antiproibizionismo : piazza  delle Americhe
                                       Guerre : Piazza Paolo da Novi
                                       ATTAC : Piazza Palermo
sono in via di definizione altre piazze (Legambiente ...)
IL 20 LUGLIO in Piazza Alimonda dalle ore 9.00 alle ore 19.00  il omitato Piazza Carlo Giuliani accoglierà il fluire delle                         persone che verranno a rendere testimonianza a Carlo con musica, lettura di testi, di poesie
ore 18 : piazza Verdi CORTEO per i diritti.
20 luglio 2002 ore 21 CONCERTO di presentazione del CD 'Genova chiama' Ponte Parodi
21 luglio 2002 ore 10 - 18 ASSEMBLEA PLENARIA sulle PROPOSTE DEL MOVIMENTO DEI MOVIMENTI                                          Teatro della Corte
21 luglio 2002 ore 21 CONCERTO a  Ponte Parodi

Pola Manduca
010 2470145 tel e fax 
Genova
Email magma2@libero.it

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--- In noocse-bo@y..., "titta" <trustnone@l...> ha scritto:
www.ilnuovo.it

GENOVA - Ha raccolto due bottiglie incendiarie in Piazza Italia, nel pomeriggio. Poi, rispondendo a un "ordine di un superiore", le ha portate nella scuola Diaz, mentre i colleghi delle forze dell'ordine davano il via al pestaggio di chi vi dormiva.
Arriva a un anno di distanza dal G8 di Genova la confessione choc di A. B., 25 anni, autista della Polizia di Stato. Lui, primo "pentito" delle forze dell'ordine, confessa: "le due molotov nella scuola Diaz le ho portate io.
Ho obbedito all'ordine di un mio superiore".
Stando a quando anticipato dal quotidiano La Repubblica, l'agente avrebbe anche fatto il nome dell'ufficiale che gli avrebbe imposto di trafugare le bottiglie incendiarie per giustificare il pestaggio della Diaz. Si tratta del vice-questore Pietro Troiani del Reparto Mobile di Roma, già indagato per falso e calunnia dopo che un collega lo aveva accusato di aver manipolato le informazioni che innescarono l'irruzione del 21 luglio.
(28 LUGLIO 2002, ORE 10:48)

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Lettera aperta di 4 della Diaz

"ERAVAMO ALLA DIAZ, PER FAVORE PROCESSATECI"

Eravamo dentro la scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001. Oggi abbiamo una richiesta da fare: chiediamo di essere processati. Il pm l'altro ieri ha chiesto al gip di archiviare le accuse contro di noi: resistenza a pubblico ufficiale, lesioni plurime aggravate, detenzione di armi. Secondo il pm, quelle accuse vanno archiviate (resta aperta l'inchiesta per assozciazione a delinquere) perché - scrive - "è risultata carente da parte della polizia giudiziaria l'individuazione soggettiva dei responsabili delle varie ipotesi criminose". In sostanza si propone al gip il proscioglimento perché non è possibile stabilire chi, fra i 93 finiti nella mattanza di quella notte, avrebbe opposto resistenza, aggredito i poliziotti, custodito le armi.
Noi diciamo no a questa motivazione. Preferiamo un processo: vogliamo che tutte le accuse siano esposte pubblicamente. Noi non abbiamo nulla da temere e soprattutto crediamo che tutti i cittadini abbiano diritto di sapere se e come qualcuno ha mentito nel ricostruire i fatti della Diaz. Nell'ordinanza del pm si parla di aggressioni subite dai poliziotti, ma per l'episodio più grave, l'accoltellamento denunciato dalll'agente Nucera, lo stesso pm cita la perizia dei Ris dei carabinieri che smentisce la sua versione. E sempre il pm scrive che "altri agenti riportavano lesioni di modestissima entità, per alcuni indipendenti dall'azione degli occupanti". Ci risulta che gran parte di questi agenti di fronte ai magistrati si siano addirittura avvalsi della facoltà di non rispondere: avevano forse paura di raccontare le aggressioni subite?
Il pm ci accusa di resistenza anche perché appena prima dell'irruzione qualcuno, dall'interno, chiuse il cancello e il portone della scuola. Cita anche il lancio di oggetti dalla finestre. Sono ipotesi di reato che potremmo valutare durante il dibattimento, per una ricostruzione accurata di tutti i fatti accaduti alla Diaz e durante i giorni del G8. Dentro quella scuola siamo stati pestati selvaggiamente. Ne siamo usciti in barella e in stato d'arresto, mentre il portavoce della polizia spiegava ai giornalisti che il nostro sangue, le nostra ossa rotte dai managanelli, erano "ferite pregresse". L'arresto era motivato dal ritrovamento di "armi", ossia due molotov, all'interno della scuola. Oggi sappiamo, dalle testimonianze degli stessi agenti, che le due molotov furono portate lì dalla polizia: per questa ragione agenti e funzionari sono sotto inchiesta.
E' normale tutto questo? E' normale che la polizia ricostruisca un pestaggio mascherato da "perquisizione" (63 persone finirono in ospedale) in modo così fasullo e spesso infamante? Noi vogliamo il massimo della trasparenza, perciò non accettiamo un'archiviazione così ambigua. Il blitz alla Diaz è stato un sistematico pestaggio, corredato da ricostruzioni ufficiali false e reticenti. Come vittime e come cittadini abbiamo il diritto di chiederne conto. Vogliamo il processo, in modo che i poliziotti possano esporre pubblicamente le loro accuse. Noi diremo la nostra. Abbiamo il vantaggio di non avere nulla da nascondere.
Arnaldo Cestaro, Lorenzo Guadagnucci, Matteo Bertola, Sara Gallo Bartesaghi

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COMUNICATO STAMPA
Genova, 7 dicembre 2002

Il Forum Sociale di Genova, Il Comitato Piazza Carlo Giuliani, il Comitato Verità e Giustizia per Genova e la CGIL chiamano tutti ad una giornata di controinformazione e mobilitazione da tenersi a Genova sabato 14 dicembre.
Gli arresti della scorsa notte, la richiesta di archiviazione per Mario Placanica, delineano una tendenza ed una volontà chiara sui fatti di Genova: chiudere al più presto le inchieste, cancellare la memoria, evitare accuratamente di indagare sulle responsabilità delle forze dell'ordine nelle vicende del luglio 2001.

Noi non ci stiamo.
Insieme a tantissimi cittadini di questo paese e di tutto il mondo chiediamo, ormai da 17 mesi, verità e giustizia per i fatti di Genova. Non possiamo accettare che le inchieste si chiudano ancora una volta creando un'altra pagina nera nella storia d'Italia. E non possiamo accettare che la Procura di Genova, indaghi a senso unico sui manifestanti, e che non abbia neppure ipotizzato di avviare una inchiesta sulla gestione criminale e repressiva dell'ordine pubblico con l'uso di armi e gas CS nei confronti delle manifestazioni di piazza durante il G8.
Chiediamo ancora oggi una Commissione Parlamentare d'Inchiesta sui fatti di luglio 2001, perché non possiamo dimenticare e permettere che a scrivere la storia di quelle terribili giornate siano solo magistrati. Chiediamo che siano individuate anche le responsabilità politiche di chi ha gestito l'ordine pubblico di quei giorni, di chi ha operato una sospensione dei diritti costituzionali di migliaia di persone, picchiando, torturando e sequestrando manifestanti pacifici e inermi.
Denunciamo inoltre l'uso illegittimo ed intimidatorio della custodia cautelare, ad un anno e mezzo dai fatti, nei confronti delle persone indagate.
Invitiamo tutti ad una grande mobilitazione nazionale sabato 14 dicembre 2002, per ottenere verità e giustizia su Genova e contrastare il clima di criminalizzazione del dissenso che sta prendendo piede nel nostro paese. Per ribadire oggi come allora le ragioni che ci hanno visto insieme a Genova, come a Firenze, Cosenza e Torino.

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LA LETTERA DI DE GENNARO SUL G8 AL SECOLO XIX

30.12.02

De Gennaro sul G8 «Autocritica per gli errori ma polizia all'altezza»

GIANNI DE GENNARO 

Caro Direttore, rispondo al cortese invito che Maurizio Maggiani mi ha rivolto dalle colonne del suo giornale, pur essendo fermamente convinto che chi come me ha scelto di servire lo Stato debba prediligere - non per voto, ma per dovere - la discrezione e la riservatezza.
Considero, tuttavia, oggi mio dovere dare voce alle migliaia di uomini e donne della Polizia di Stato e di tutte le forze dell'ordine che ogni giorno, in ogni angolo d'Italia, in silenzio, assolvono ai loro compiti assumendo su di sé rischi e responsabilità. Lo farò nel doveroso rispetto della Procura di Genova, cui sono grato per il lavoro che sta serenamente
svolgendo per ricostruire, con puntualità e rigore, fatti e circostanze accaduti in quei tremendi giorni del luglio 2001.
Sono certo che dalla Magistratura genovese verrà una risposta chiara ed esauriente sulle specifiche responsabilità di chiunque risulterà abbia commesso reati.
Per parte mia il contributo alla verità che posso offrire è quello che mi ha già portato, anche nelle sedi istituzionali e giudiziarie, a condividere con i miei collaboratori la responsabilità della gestione di una vicenda assai complessa, cui abbiamo dedicato professionalità ed onestà intellettuale, animati dal solo proposito di operare per la migliore riuscita dell'evento. Proprio per questo penso che sia necessario accertare gli errori ed individuarne i responsabili, senza però nulla concedere a giudizi affrettati o ricostruzioni parziali.
Le forze di polizia a Genova hanno dovuto affrontare un compito gravosissimo che, per la durata e la concentrazione degli eventi, non mi risulta abbia avuto precedenti nel nostro Paese. Vi era infatti la triplice necessità di garantire contestualmente la sicurezza dei capi di Stato e di Governo, la libertà di manifestazione, la protezione dei genovesi.
Il tutto con un incombente rischio di terrorismo internazionale che pochi mesi prima aveva portato le autorità statunitensi a chiudere la propria Ambasciata a Roma; mentre il terrorismo nostrano si era risvegliato proprio alla vigilia del G8 con una studiata scansione di attentati incendiari e dinamitardi che, solo per caso, non avevano mietuto vittime.
Ebbene, nonostante questo quadro generale e nonostante le difficoltà operative accentuate dal particolare assetto urbano di Genova, le forze dell'ordine si sono dimostrate all'altezza della situazione.
Basti ricordare che è stato predisposto un piano di protezione dei luoghi di lavoro e di residenza per oltre ottomila delegati italiani e stranieri e per quasi cinquemila rappresentanti della stampa italiana ed estera; è stata resa assolutamente sicura una vasta porzione della città con i suoi trentamila residenti; sono state adottate misure precauzionali con la
chiusura di svincoli autostradali e snodi ferroviari, pur senza impedire la libera circolazione.
Impossibile dire quanti imprevisti abbiamo superato, quanti pericoli abbiamo evitato.
Eppure, mentre qualcuno criticava le nostre scelte additandole alla pubblica opinione come un tentativo di impedire surrettiziamente la libertà di circolazione e di manifestazione, gli agenti della Polfer ed i loro dirigenti si impegnavano, assieme ai vertici delle Ferrovie, ad allestire treni speciali per favorire la mobilità dei manifestanti: almeno centocinquanta persone hanno potuto raggiungere Genova per esprimere le loro idee e ed il loro dissenso, grazie anche all'impegno ed allo spirito di servizio delle forze di polizia.
La pure e semplice verità, caro Direttore, è che gli eventi hanno di gran lunga superato l'immaginazione e le misure di prevenzione adottate; come hanno certamente superato la buona fede di molti organizzatori delle manifestazioni che forse avrebbero potuto, ascoltando con maggiore disponibilità le nostre preoccupazioni, contribuire a ridurre i rischi e i danni.
La verità che dunque posso offrire ai cittadini di Genova è quella che - al di là di specifici episodi tuttora al vaglio del magistrato - emerge da una obiettiva ricostruzione di quei terribili giorni e dalla serena valutazione di numerose altre manifestazioni di protesta che si sono svolte successivamente in tutta Italia.
Rispondo così ad una precisa sollecitazione del suo editorialista.
Una soltanto era la volontà della autorità di pubblica sicurezza preposte a gestire un evento così difficile, quella di attuare in pieno le direttive del Governo: sicurezza del vertice, protezione di Genova e dei suoi abitanti, garanzia delle libertà di manifestare e tutela dei manifestanti pacifici.
Per il raggiungimento di questi obiettivi si è concordemente mossa una complessa macchina organizzativa che ha visto operare all'unisono oltre quindicimila uomini e donne delle forze dell'ordine e delle forze armate, migliaia di mezzi, decine di strutture di supporto. Carenze ed errori di singoli, ora all'esame della Magistratura, non possono comunque mettere in
dubbio la complessiva correttezza e l'efficacia dell'operazione.
La preordinata violenza di una consistente minoranza di facinorosi, l'adozione di tecniche di guerriglia urbana che non è stato, al momento, possibile contrastare, la forte tensione che ne è conseguita, il necessario impiego della forza per garantire l'ordine pubblico che spesso determina conseguenze non volute: tutto ciò costituisce il riepilogo drammatico di
una vicenda che ha insegnato a tutti qualcosa.
La verità è che la stragrande maggioranza pacifica dei dissenzienti ha da allora meglio compreso che occorre isolare chiunque voglia esprimere le proprie idee con il ricorso alla violenza. E così si è impegnata a fare dopo le tragiche vicende del G8.
La verità è che le forze di polizia, eredi di una profonda e radicata tradizione democratica di tutela delle libertà, credono nei valori della nostra Costituzione, detestano la violenza e ricorrono all'uso della forza solo quando è assolutamente indispensabile, preferendo invece l'arma del dialogo e il metodo della prevenzione.
Vengono dalla sincera condivisione di queste verità le decine di manifestazioni pacifiche che quotidianamente si svolgono nelle strade e nelle piazze delle nostre città; e vengono da qui la capacità di fare autocritica per gli errori commessi e la forte richiesta delle donne e degli uomini delle forze dell'ordine di essere capiti nelle loro difficoltà e di essere aiutati a superarle per il bene di tutti.
Non ci sono altre verità, c'è invece il desiderio ed il bisogno di ringraziare la città di Genova, per la tenacia e la tolleranza dei suoi cittadini, che ancora una volta hanno dimostrato di saper comprendere e di saper affrontare disagi e difficoltà dando a tutti una persuasiva lezione di civiltà.
Signor Direttore, so qual è l'impegno che ci attende nel prossimo futuro, quali sono le insidie - ed il vile attentato alla Questura ne è un triste esempio - ma mi sento di poter dare piena garanzia a tutti che sulle nostre forze dell'ordine, sulla loro affidabilità e disciplina, sul loro senso del dovere e sul loro spirito di sacrificio ci si può contare, perché esse sono
e vogliono essere un saldo presidio di libertà per tutti gli italiani. Buon Anno.
Gianni De Gennaro

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LA REPUBBLICA: G8, I SUPERPOLIZIOTTI CONFESSANO: ALLA DIAZ ERRORI E VIOLENZE

G8, i superpoliziotti confessano
"Alla Diaz errori e violenze"
Le accuse a Canterini e gli interrogatori dei pm genovesi
inventato anche l'accoltellamento di un agente
di MASSIMO CALANDRI e MARCO PREVE

GENOVA - "Una leggerezza", ammette il vice-questore Pasquale Troiani. Fu una "leggerezza" portare nella scuola Diaz le due molotov per incastrare i 93 no-global ospiti dell'istituto. Spartaco Mortola, ex capo della Digos genovese, riconosce che quella notte arrestare i manifestanti fu probabilmente "una forzatura giuridica". Francesco Gratteri, capo dello Sco, spiega come il finto accoltellamento dell'agente potrebbe essere servito a giustificare "l'eccesso di violenza" dei Nuclei anti-sommossa. E riflette: "Oggi forse non ripeterei quello che ora forse ritengo un errore, e cioè essermi recato là". Leggerezze, forzature, eccessi, errori.
E' una sconvolgente confessione, quella che emerge dai verbali dei super-poliziotti interrogati dalla Procura di Genova sul famigerato blitz della notte del 21 luglio 2001, una delle pagine più nere della storia della polizia italiana. Un'operazione che doveva permettere di recuperare l'immagine delle nostre forze dell'ordine agli occhi del mondo, dopo che quel pomeriggio la televisione aveva mostrato le devastazioni delle Tute Nere: ma i giornalisti convocati a tempo di record dall'addetto stampa del Viminale finirono per testimoniare quella che un altro funzionario, Michelangelo Fournier, braccio destro di Canterini, ha definito "un'azione da macellai". Arnaldo La Barbera, capo dell'Ucigos scomparso nei mesi scorsi, sosteneva di averlo capito subito: "Mi avvicinai a Canterini, sconsigliandolo di proseguire nell'operazione".
I "celerini" non avevano ancora sfondato il cancello della scuola, erano da poco trascorse le 23. I verbali, che Repubblica è in grado di anticipare, fanno parte della richiesta di archiviazione presentata dal procuratore aggiunto Francesco Lalla per i 93 della Diaz, ma sono contenuti anche nel delicatissimo fascicolo che i pm del pool G8 hanno ultimato in questi giorni: le accuse per agenti e superiori vanno dalle lesioni al falso, alla calunnia. Il rinvio a giudizio per gli indagati - un centinaio di persone in tutto - è atteso nelle prossime settimane.
"La mia leggerezza".
Il vice-questore Pasquale Troiani, responsabile della logistica durante il G8, non avrebbe mai dovuto essere in via Cesare Battisti. Invece si aggrega ai Nuclei anti-sommossa, e prima di lasciare la questura giura di aver saputo che sul furgone guidato dall'assistente Michele Burgio ci sono due molotov, rinvenute nel pomeriggio in un'aiuola di corso Italia. Una volta alla Diaz, confessa, "dissi a Burgio di portarmi le bottiglie". Ricorda di averle consegnate nel cortile della scuola ad un collega, il vice-questore Massimiliano Di Bernardini, alla presenza di Gilberto Caldarozzi, vice di La Barbera. "Quando le ho portate e mi ha chiesto dove fossero state trovate ho detto che erano state trovate nel cortile o nell'immediatezza delle scale d'ingresso. Questa è stata la mia leggerezza, e me ne rendo conto".
Michele Burgio, il poliziotto "pentito" che con la sua confessione ha permesso ai magistrati di scoprire il primo dei clamorosi falsi, nel pomeriggio aveva parlato di quelle molotov al generale Valerio Donnini, responsabile dei Reparti mobili italiani che viaggiava sul furgone da lui guidato. "Quando è arrivato il dottor Donnini gli ho fatto presente che c'erano le bottiglie (chiedendo se non era il caso di portarle in questura, spiega in un altro passaggio) e lui si è rivolto a me in modo alterato, come se avessi fatto una domanda stupida o che comunque non dovevo fare". La sera, davanti alla Diaz, "ho ricevuto una telefonata del dottor Troiani che mi ha detto di portare le cose che avevamo sul mezzo".
Le accuse di Gratteri.
Il capo dello Sco "non ricorda" quando nel cortile della Diaz i super-poliziotti - lui compreso - osservano il sacchetto con le molotov, e comunque spiega di essersi subito allontanato. Ma ha le idee chiare sui presunti falsi: "Se dovessi impostare un'indagine su quanto è accaduto alla Diaz, partirei dal dato che a determinare il caos all'interno della scuola potrebbe essere stato qualcuno del reparto mobile o di altri reparti, così come l'episodio dell'accoltellamento simulato possa essere servito a parare l'eccesso di violenza usato nei confronti di alcuni occupanti della Diaz; penso che anche l'episodio delle bottiglie sia stato montato per giustificare quanto accaduto all'interno della Diaz; ritengo che sarebbe importante determinare chi abbia comandato Troiani di venire alla Diaz; può essere che egli si sia mischiato con gli altri e che abbia fatto quello che hanno fatto gli altri del reparto mobile e che abbia pensato di coprire quanto accaduto all'interno; ritengo che comunque molti potrebbero essere i moventi concreti alla base dei fatti che sono stati contestati a una componente della Polizia di Stato che non ritengo rappresentativa della Polizia di Stato".
Le nuove contraddizioni.
Spartaco Mortola dà un'altra versione sulle molotov: le vede per la prima volta al piano terra della scuola, gliele mostrano due agenti del reparto mobile ("Guardate cosa abbiamo trovato"). Con lui ci sono due colleghi che non ricorda bene: forse La Barbera, Gratteri. Dice di aver visto dentro la Diaz "circa 50 persone a piano terra, tranquille e apparentemente non ferite", spiega gli errori nell'attribuzione delle prove a carico dei manifestanti sostenendo che "si era creata confusione". E quando gli si chiede del perché dell'arresto dei 93, risponde: "Posso solo dire, a posteriori, che c'è stata qualche forzatura giuridica". Michelangelo Fournier, invece, nella scuola ricorda ragazzi pacifici "con evidenti segni di pestaggio", e di aver gridato agli agenti "Basta, basta!": "era uno sfogo istintivo e rabbioso davanti a quanto avevo visto in quei locali".
(7 gennaio 2003)

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STRASBURGO E DIRITTI UMANI IN ITALIA

 Strasburgo, 13:44
L'Europarlamento critica Italia sui diritti umani


L'Europarlamento ha criticato oggi a Strasburgo l'Italia nella relazione annuale sullo stato dei diritti umani per la repressione delle manifestazioni al G8 di Genova, per il conflitto di interessi e per i processi lumaca.
Il documento sullo stato dei diritti umani nell'Ue, contro il quale si erano pronunciati il Ppe e l'eurodestra, è stato adottato dalla plenaria con cinque voti di scarto (274 a favore, 269 contrari e 14 astensioni) per iniziativa della relatrice socialista olandese Joke Swiebel.
Nella relazione annuale dell'Europarlamento tutti i paesi comunitari sono oggetto di critiche. L'Italia viene citata soprattutto su quattro punti.
L'articolo 28 della risoluzione "deplora le sospensioni dei diritti umani avvenute durante le manifestazioni pubbliche e in particolare in occasione della riunione del G8 a Genova". In un emendamento adottato per iniziativa del Pse inoltre l'Europarlamento afferma che "per quanto riguarda i disordini di Genova, continuerà ad accordare particolare attenzione al seguito delle indagini amministrative avviate in Italia per avvertire se in tale occasione si sia ricorsi a trattamenti o punizioni disumane o degradanti".
Sul conflitto di interessi, il parlamento europeo nel comma 39 bis del documento (adottato per iniziativa del Pse) si dichiara "preoccupato per la situazione in Italia dove gran parte dei media e del mercato della pubblicità è controllato - in forme diverse - dalla stessa persona" e "ricorda che una tale situazione potrebbe costituire una grave violazione dei diritti fondamentali a norma dell'articolo 7 del trattato Ue modificato dal trattato di Nizza".
Al comma 132 invece l'aula esprime "apprensione per il grandissimo numero di casi in cui la corte europea dei diritti umani ha constatato la violazione da parte dell'Italia del diritto a un termine ragionevole" nello svolgimento dei processi. "Questa tendenza nuoce alla fiducia nello stato di diritto" afferma l'Europarlamento, che ha chiesto "all'Italia di adottare tutte le misure necessarie per garantire procedimenti attuati per tempo e equamente". Nel paragrafo successivo l'Italia viene criticata con Ausria, Belgio, Francia, Portogallo, Svezia e Regno Unito.
L'Europarlamento esprime "grande preoccupazione per il clima di impunità che sta sorgendo in alcuni stati membri dell'Ue" - e qui cita questi sette paesi - in cui gli atti illeciti e l'abuso della violenza da parte degli agenti di polizia e del personale carcerario, soprattutto nei confronti dei richiedenti l'asilo dei profughi e delle persone aderenti a minoranze etniche, non vengono adeguatamente sanzionati". 

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CANTERINI CHIEDE LA COMMISSIONE D'INCHIESTA PARLAMENTARE

dal manifesto 16 gennaio

ALESSANDRO MANTOVANI

Vincenzo Canterini ha perso la pazienza, faticano a trattenerlo: il comandante del reparto mobile (ex celere) di Roma vuole la commissione parlamentare d'inchiesta sul G8, chiede di istituirla al più presto.
Canterini punta il dito contro «la catena di comando che ha progettato e fatto eseguire la perquisizione alla scuola Diaz», per la quale è indagato per lesioni, falso e calunnia. Dice che a Genova «l'intelligence ha sbagliato tutto, prevedendo i soliti scontri con i centri sociali e sottovalutando, invece, la guerriglia dei black bloc, che ora si chiamano black bloc ma all'epoca - ricorda - li chiamavano anarchici insurrezionalisti». Canterini parla come membro della segreteria del Consap,
accompagnato per l'occasione da Filippo Bertolami dell'Associazione funzionari di polizia (Anfp). E del resto la commissione d'inchiesta la chiede già l'Usp di Gian Paolo Tronci, altro sindacato di ps tutt'altro che di sinistra. Bertolami e Canterini hanno incontrato ieri i giornalisti a una settimana dalla pubblicazione su manifesto, Repubblica e Secolo XIX dei primi stralci dei verbali dell'inchiesta Diaz (7 gennaio). Volevano rispondere a Francesco Gratteri, il direttore del Servizio centrale operativo legato a doppio filo al capo della polizia, Gianni De Gennaro.
Perché Gratteri, anch'egli indagato, ha consegnato ai pm genovesi una ricostruzione inaccettabile: sarebbe tutta colpa del reparto romano, non solo per il pestaggio ma anche per «l'accoltellamento simulato» (denunciato da un agente di Canterini, Massimo Nucera) e per le due famigerate molotov (portate dal vicequestore aggiunto Pietro Troiani, in passato in forza al reparto romano, ma poi finite a due alti funzionari come Gilberto Calderozzi, vice di Gratteri allo Sco, e Gianni Luperi, numero due dell'antiterrorismo). Ai pm Gratteri ha detto: «A determinare il caos nella scuola potrebbe essere stato qualcuno del reparto mobile o di altri reparti, così come l'episodio dell'accoltellamento simulato può essere servito a parare l'eccesso di violenza usato nei confronti di alcuni degli occupanti; penso che anche l'episodio delle bottiglie sia stato montato per giustificare quanto accaduto. Sarebbe importante determinare chi abbia comandato Troiani di venire alla Diaz, può essere che si sia mischiato con gli altri e che abbia fatto quello che hanno fatto gli altri del reparto mobile e che abbia pensato di coprire l'accaduto. Molti potrebbero essere i moventi da parte di una componente della polizia che non ritengo rappresentativa», ha concluso il capo dello Sco, che il 30 luglio scorso era costretto a giustificarsi dinanzi al filmato che ritrae i big della ps attorno al sacchetto azzurro delle molotov. A pochi metri c'era anche Gratteri. E Canterini.
A parte il prefetto Arnaldo La Barbera, scomparso di recente, Gratteri era il più alto in grado alla Diaz. Se uno come lui accusa una specifica «componente della polizia» dovrebbe essere più preciso. Osservano Bertolami e Canterini: «Riferendoci al ministro dell'interno Pisanu, il quale, riconfermando che non coprirà eventuali responsabili, ha parlato delle forze dell'ordine come di un corpo sano e di sicura fede democratica in grado di riconoscere se al proprio interno sono stati commessi degli errori e di porvi rimedio, dobbiamo registrare il fondato timore che in un clima di sospetto diffuso possano volare gli stracci, finendo con il rompere il classico vaso debole, che per ragioni di opportunità, fosse individuato». In realtà gli stracci volano da un pezzo. E l'anello debole è la «celere», o magari quella «componente della ps» che non piace a Gratteri. «A cosa si riferisce? Quale `componente'?», chiede il capo del reparto romano. «A maggior ragione oggi - aggiungono Bertolami e Canterini - con l'Italia condannata dall'Europa, vogliamo un'inchiesta parlamentare perché quella penale non basta, nonostante sia condotta in modo eccellente e tra mille difficoltà. Bisogna accertare cosa non ha funzionato, le ragioni della mancanza di coordinamento che è sempre alla base dell'uso indiscriminato della forza, la confusione nella linea di comando, la presenza di esponenti politici in una sala operativa e non nell'altra» (Gianfranco Fini e altri di An erano ospiti dei carabinieri, ndr).
Il reparto di Canterini al massacro ha partecipato, ma c'erano anche altri. 
«Non lo dico solo io, lo dice il vostro collega del Carlino Lorenzo Guadagnucci, pestato da un poliziotto in camicia bianca - s'infiamma Canterini - E quelli non eravamo noi». Quelli dipendevano da una linea di comando che - secondo gli atti - era tutt'altro che «confusa». Contano i gradi, in polizia, e alla Diaz c'erano pezzi da novanta, tutti o quasi provenienti dal mondo delle squadre mobili, dal mondo di De Gennaro, specializzati cioè nella lotta al crimine ma digiuni di politica ed eversione. E i capi si mantenevano in contatto con Roma, prima durante e dopo.

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GLF: COMUNICATO STAMPA

GENOA LEGAL FORUM
Comunicato Stampa
Genova, 14 gennaio 2003
 
Due Colleghi sono stati raggiunti da informazione di garanzia - da parte della Procura di Genova - per aver, secondo l'ipotesi accusatoria, indebitamente rivelato alla stampa, consentendone la pubblicazione, il contenuto dei verbali degli interrogatori di agenti e funzionari di polizia, indagati per l'irruzione all'interno della scuola Diaz.  
I due colleghi sono altresì stati raggiunti da provvedimento di sequestro dei suddetti verbali, operato nella giornata di venerdì, 10 gennaio scorso, presso i loro studi professionali.
Il GLF, così come la Procura formula le proprie ipotesi di lavoro (tale deve ritenersi l'apertura di un procedimento penale, nei confronti dei due Colleghi e dei giornalisti che sono con loro indagati), ha qualche osservazione da formulare nella legittima aspettativa che qualcuno vi dia riscontro.
1) Per quanto a nostra conoscenza, l'unico elemento che permette di ricondurre la pubblicazione dei verbali in questione ai due Colleghi - cui va, sarà il caso di precisarlo, la nostra incondizionata solidarietà - é il fatto che essi avessero legittimamente richiesto ed ottenuto di estrarre copia degli atti in questione.  
Il fatto che, pur essendo potenzialmente molteplici le fonti da cui la stampa potrebbe aver attinto il testo dei verbali "incriminati", LA PROCURA pensi IMMEDIATAMENTE agli avvocati e passi nei loro confronti ad azioni concrete, é in sé davvero significativo.
2) Al di là della considerazione che precede, non é fuori luogo far notare che i suddetti verbali sono giunti, provenienti dalla Procura, nella cancelleria del G.I.P. allegati alla richiesta di archiviazione del procedimento a carico dei 93 manifestanti (ove le copie sono state legittimamente richieste ed estratte) senza che fosse indicato il permanere della loro "secretazione". Era, dunque, più che giustificato ritenere che, per tale, sola circostanza, detto segreto dovesse
intendersi caducato.
3) Assolutamente sorprendente e per nulla condivisibile é infine l'iniziativa della Procura che, nella giornata di venerdì u.s., ha ritenuto di procedere al sequestro di copia dei suddetti verbali, presso gli studi professionali dei due Colleghi.
A tale riguardo, é doveroso rimarcare come:
A) Il suddetto sequestro sia avvenuto in assoluto spregio alle garanzie di legge che regolano il compimento di simili atti presso gli studi dei difensori;
B) Esso inserisca ad atti che - lo si ripete - erano stati legittimamente acquisiti ed altrettanto legittimamente erano detenuti dagli interessati.

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G8: VIDEO "GENOVA LUGLIO 2001 - I DIRITTI NEGATI"

Per chi è interessato, da oggi è disponibile il video "Genova luglio 2001 - i diritti negati" prodotto da Indymedia ed il Genoa Legal Forum.
Il costo è di 8 euro + spedizione.
Chi volesse acquistare i video può inviare una e.mail a info@genoalegalforum.org (comunicando l'indirizzo esatto per la spedizione) ed un fax allo 010 2461413 (inviando la ricevuta del pagamento per l'acquisto del/i video).
Gli estremi x fare il versamento sono: c.c.postale 34566992 intestato a: verità e giustizia per Genova causale: video GLF

GENOVA LUGLIO 2001 - I DIRITTI NEGATI
Durante le giornate del G8 a Genova le Forze dell'Ordine - Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza - hanno commesso una serie di violenze che resteranno nella storia del nostro paese come una delle pagine più drammatiche dal dopoguerra ad oggi.
Amnesty Internazional ha parlato esplicitamente di "sospensione dei diritti" e di "torture".
Molti parlamentari, anche a livello europeo, si sono espressi con parole dure parlando di azioni da "stato cileno".
Con questo video il Genoa Legal Forum in collaborazione con Indymedia, presentano una serie di immagini molto crude che documentano solo una parte di queste violenze.
Nella ricerca della verità su quelle giornate si incontrano molte difficoltà nel reperimento della documentazione che sarebbe necessaria per completare un'analisi della strategia di piazza messa in atto da parte di apparati o pezzi dello Stato e del Governo.
Molti video sono stati sequestrati durante varie perquisizioni o addirittura sono andati distrutti durante gli interventi delle Forze dell'Ordine.
In altri casi, come Bolzaneto o la Caserma di Forte San Giuliano non esiste una documentazione video ma solo una serie di testimonianze orali e/o scritte.
Questa selezione di immagini, spesso poco viste, vuole essere un primo strumento di riflessione e un atto d'accusa contro quei settori delle Forze dell'Ordine che hanno tradito i loro compiti legittimi e costituzionali.

Il Comitato Verità e Giustizia per Genova, fondato da un gruppo di testimoni dei fatti, giornalisti, medici, sindacalisti e sostenuto dagli avvocati del Genoa Legal Forum, sta lavorando per:
1) raccogliere e gestire fondi per le difese di coloro che sono rimaste vittime della repressione delle forze dell'ordine, sia come parti offese che come indagati, a Genova durante il G8
2) informare sui fatti e sulle inchieste della magistratura.

Per sostenere il Comitato Verità e Giustizia per Genova C.C.Postale 34566992 intestato a: Verità e Giustizia per Genova
Per informazioni www.veritagiustizia.it

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G8: VIOLENZE DA 100.000 EURO

dal Secolo XIX  9.3.03

Genova. Centomila euro di indennizzo.
Per i danni materiali e morali subiti con il pestaggio da parte di due poliziotti (un uomo e una donna) in piazza Manin nel pomeriggio del 20 luglio del 2001, durante il G8. Li chiede, assistita dai legali Marco Vano e Alessandra Ballerini, Marina Pellis Spaccini, 52 anni, pediatra, della rete Lilliput.
La sua foto, scattata mentre assiste un ferito, pubblicata dal Piccolo di Trieste e sulla copertina di Diario aveva fatto il giro del mondo.
Marina Spaccini della rete Lilliput ha citato in giudizio il ministero dell'Interno. Analoga causa a Bologna
Violenze da 100 mila euro
Una pediatra picchiata durante il G8 chiede i danni
Genova. Di quel pomeriggio del 20 luglio in piazza Manin conserva un ricordo nitido. Unito, ancora oggi, all'incredulità per la violenza alla quale ha assistito e di cui è stata vittima. Un'immagine, soprattutto, è rimasta negli occhi e nel cuore di Marina Pellis Spaccini, pediatra triestina: quella dei due agenti, un uomo e una donna, che la colpirono. Marina Spaccini racconta senza rancore, ma con grande determinazione. A Genova era venuta con la figlia e gli amici della rete Lilliput. Una delle anime più pacifiche del "movimento".
«Li ricordo. Li ricordo bene. L'uomo sembrava un animale in caccia, urlava, era ansimante, fradicio di sudore dentro quella sorta di scafandro-divisa, con il casco calato sul viso. Poco più in là, la ragazza poliziotta.
Immobile di fronte a quel ragazzo pieno di sangue, sdraiato dentro una sorta di nicchia del muro».
E' il giovane che lei stava assistendo e che è al centro della foto simbolo della copertina di "Diario". «Ho scritto a "Diario", ho cercato di conoscerlo, di sapere chi fosse quel giovane. Non ci sono riuscita. E' stato un pomeriggio di assurda e ingiustificata violenza». Erano all'incirca le 14.30 di venerdì 20 luglio, in piazza Manin. «Ero lì con la rete Lilliput, avevamo appena fatto mezza manifestazione. Ci avvertirono che c'era il rischio dell'arrivo dei cosiddetti Black Block e della polizia. Cercammo di arretrare da via Assarotti, risalendo verso la piazza, per non lasciare schiacciato e senza vie di fuga chi era in basso». Arrivano i Black Block e la polizia. «Il primo è stato un ragazzino, l'ho visto, era giovanissimo, aveva una maglietta nera in testa a mo' di turbante. Ha tagliato il nostro gruppo, quando ha visto che nessuno lo seguiva o inseguiva, se ne è andato. Sono passati altri, poi è arrivata la polizia». E succede che...
«Si fermano. Ci guardano minacciosi. E inizia la violenza. Eravamo tutti con le mani alzate. Io avevo in mano una bandiera della pace. Ho visto una ragazzina picchiata, terrorizzata, una parlamentare di Rifondazione ferita».
Lei assiste gli altri, quasi non si rende conto che arriva il suo "turno". 
«Mi sono accorta "dopo" di un taglio in testa di alcuni centimetri, poi suturato con alcuni punti. E' l'immagine dei due agenti che non dimenticherò».
Un uomo e una donna. «Ho anche pensato, "ma guarda cosa fanno fare anche a queste ragazze". Lui, l'uomo, dentro quella specie di scafandro, urlava.
Sembrava un animale in caccia, sudato, stravolto, ansimante per lo sforzo compiuto per colpire e per correre». Lei ha riconosciuto chi l'ha aggredita?
«No, avevano i caschi e i fazzoletti sul viso. Ma si vedeva che uno era un uomo, l'altro una donna». La violenza scema. I Black Block sono lontani. Lapolizia si ferma. «A un medico viene spontaneo cercare chi sta male ed è in difficoltà. Ho cercato la ragazzina ferita che era già stata aiutata da altri ragazzi, la parlamentare. Poi ho visto quel ragazzo».
Al quale versa l'acqua sul capo. «Lo avevano poi adagiato in una sorta di nicchia dentro al muraglione della strada, protetto da altre persone. E' lì che la poliziotta mi è sembrata a sua volta annichilita dalla violenza.
Si è fermata, ha chiesto se era stata chiamata la Croce Rossa».
Centomila euro di richiesta danni. Il prezzo per risarcire la violenza subita?
«No. La somma è simbolica. Può anche essere un solo centesimo, non mi interessano i soldi. Se arriveranno finiranno in solidarietà. La citazione in giudizio del ministero degli Interni serve per non fare passare nel silenzio quanto accaduto». In piazza Manin non c'erano violenti? «In piazza Manin e in via Assarotti c'era solo gente pacifica, con le mani alzate. Che
gridava "basta basta". La mia, come quella di altri (un'analoga causa è stata avviata da un legale di Bologna, ndr) non è solo una battaglia di principio. E' una battaglia di civiltà: per la legalità e per la verità».
Come il suo lavoro in Africa e nelle attività rese note dalle molte e-mail diffuse da chi la conosce. «Le mie azioni, quelle di migliaia di altre pacifiche persone erano, sono e saranno sempre note. Alla luce del sole, nel diritto e nella legalità. Ma qualcuno deve ancora spiegare perché due ragazzi in divisa, con molti altri, sono stati trasformati in esecutori di violenza in quei giorni. La mia non è vendetta. Cercare la verità vuol dire giustizia e fare assumere, a chi di dovere, le proprie responsabilità, anche politiche. La giustizia non è mai, non dovrebbe mai essere vendetta».
Marcello Zinola

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COMUNICATO DEL COMITATO VERITÀ E GIUSTIZIA

COMITATO VERITA' E GIUSTIZIA PER GENOVA

(presidente onorario Giulietto Chiesa, presidente Enrica Bartesaghi)

Comunicato stampa

E' UN'ITALIA CHE HA PAURA

Quest'archiviazione è la sentenza di un'Italia che ha paura. Un paese più coraggioso, un'opinione pubblica più forte avrebbero ottenuto un dibattimento pubblico, un approfondimento dei fatti di piazza Alimonda alla luce del sole, nelle aule di un tribunale. Dopo quasi due anni d'inchiesta, trascorsi fra perizie contrastanti, dichiarazioni contraddittorie,
ricostruzioni sempre nuove, l'archiviazione dell'inchiesta è una beffa atroce. Di fronte a tante ombre, la sola via maestra verso la verità e la giustizia è quella di un processo pubblico, in cui confrontare tutte le testimonianze, le prove, le perizie. Con quest'archiviazione si accontenta solo la voglia di oblio sui fatti di Genova che attraversa il paese.
Noi siamo invece convinti che nel luglio 2001 a Genova la democrazia e lo stato di diritto siano stati calpestati, come hanno riconosciuto Amnesty International e altre organizzazioni internazionali.
Noi non abbiamo paura di fare i conti con questa preoccupante verità e anzi riteniamo indispensabile una ricostruzione completa e convincente dei fatti.
Perciò continuiamo a chiedere la costituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti di Genova.
Siamo convinti che i cittadini abbiano diritto ad un rigoroso accertamento pubblico di tutte le responsabilità, per l'uccisione di Carlo Giuliani come per i fatti della Diaz, di Bolzaneto, per le aggressioni ai cortei e ai manifestanti inermi, per i 18 colpi di pistola sparati dalle forze dell'ordine.
Alla famiglia Giuliani, a tutti i democratici, diciamo che non accettiamo questa archiviazione e che continueremo a batterci per la ricerca della verità e della giustizia.
Genova, 5 maggio 2003

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SEPOLTO SOTTO L'ARCHIVIAZIONE?

Sepolto sotto l'archiviazione?
di Haidi Giuliani


da CARTA 02 Maggio 2003

Renderti conto che tuo figlio non tornerà più. Non è facile.
Anche dopo la confusione, il frastuono dei primi tempi, quando ti ritrovi a casa da sola, continui ad aspettare: aspetti il suo passo sulla scala, quel modo particolare di aprire la porta, il suo ciao. Quando cominci a capire vorresti solo nasconderti, al buio, in silenzio.
E piangere.
Non ho potuto piangere tutte le lagrime per mio figlio, la sua giovane vita, il futuro schiacciato sull'asfalto di una piazza: c'era sua sorella, e c'erano gli altri, tutti gli altri figli che venivano a cercare conforto, gli occhi gonfi, la bocca piena di rabbia, la testa piena di domande.
Come se non ne avessi avute abbastanza, delle mie.
Così ho cominciato a cercare testimonianze, foto, filmati, a guardare e riguardare migliaia di volte la stessa scena. Ricordo la prima volta che qualcuno mi ha detto: "Che strano, un giovane di leva, spaventato…eppure la mano impugna la pistola ben tesa, decisa, obliqua, come fa uno che se ne intende, un killer". Più mi documentavo, più si allungava la fila dei miei "perché".
Perché quel corteo era stato caricato senza preavviso, senza ragione apparente mentre transitava lungo un percorso autorizzato?
Perché in precedenza non si erano fermati delinquenti vestiti di nero che spaccavano e incendiavano? Perché si era permesso a delinquenti in divisa di accanirsi in gruppo su singole persone inermi, già ferite, già a terra?
Chi aveva comandato, dopo tre ore di cariche, di lacrimogeni, di pestaggi, quel breve assalto laterale? Perché quella camionetta si è fermata in mezzo all'incrocio contro il cassonetto?
Chi ha rotto il vetro posteriore? C'è un piede che scalcia, contro gli ultimi frammenti, e butta a terra l'estintore che era stato già lanciato una prima volta e si era fermato, innocuo, in bilico sulla ruota di scorta. Perché?
Perché la polizia che presidiava con numerosi mezzi la via adiacente non è intervenuta?
Perché l'autista è ripartito prontamente in retromarcia quando ormai gli spari avevano fatto scappare gli ultimi manifestanti?
Perché non si è nemmeno tentato di soccorrere Carlo?
E ancora: che cosa è accaduto, dopo?
Ci sono due fotografie in sequenza che mostrano Carlo disteso per terra circondato da forze in divisa: nella seconda si vede chiaramente un sasso insanguinato, lì vicino; nella prima il sasso non c'è.
E Carlo ha una profonda ferita sulla fronte.
In una foto scattata al Pronto Soccorso, al suo arrivo, il giovane carabiniere ha la testa piena di sangue, rosso, vivo: sono passate più di due ore…
Potrei riempire pagine e pagine di appunti, di dubbi, di interrogativi.
"A queste domande - pensavo - risponderà l'inchiesta".
Al PM il prima e il dopo non interessavano: ha affidato l'indagine ai CC (carabinieri? ma chi dice di aver sparato non fa parte dell'arma dei carabinieri?), ha posto ai suoi periti quesiti precisi sulla distanza tra Carlo e il defender al momento dello sparo, sulla traiettoria del proiettile, sulla pistola usata. Non ha neanche voluto vedere le altre armi, pure numerose, presenti e visibili nei filmati. Non ha dubbi, il PM. La ricostruzione effettuata in piazza Alimonda nella primavera scorsa ha avuto lo scopo di rispondere ai quesiti espressi, non ad altro: nessuno ha voluto sapere, ad esempio, quale fosse la posizione degli occupanti la camionetta, come fossero sistemate quelle braccia, gambe, teste che appaiono nelle foto rendendo improbabili le dichiarazioni dei carabinieri; nessuno ha voluto verificare il campo visivo dell'autista (che ha sentito gridare i colleghi ma non ha sentito gli spari "perché avevo la maschera").
Non hanno dubbi neanche i periti scelti dal PM: uno di loro, mesi prima di accettare l'incarico, aveva già espresso pubblicamente - in un editoriale della rivista Tac armi - la propria convinzione che si fosse trattato di un caso di legittima difesa. D'altra parte identica certezza era stata espressa, con scarso rispetto per il lavoro dei magistrati, la stessa sera del 20 luglio dal Vicepresidente del Consiglio Fini e in più occasioni dall'allora Procuratore Capo della Repubblica, imitato subito dopo il suo insediamento dal collega che l'ha sostituito.
Un altro perito, quando esce la notizia del calcinaccio che avrebbe deviato il proiettile, alla domanda di un giornalista risponde, ironico, che sarebbero passati alla storia, lui e i suoi colleghi, per quella ricostruzione…
Che diamine, erano state fatte delle prove: si era posizionata una pistola più o meno a quell'altezza, si era legato un sasso ad un filo, uno scatolone a rappresentare la vittima. Si erano spostati sasso e scatolone finchè non si era ottenuto il risultato voluto. O meglio: lo scatolone non è morto, al massimo è stato colpito di striscio, all'altezza dello stomaco, pare; ma non importa: si è riusciti a dimostrare che un sasso può deviare un proiettile. Non importa se questo non si vede in alcun filmato, non importa se dall'esame incrociato dei filmati e delle foto si vede che il calcinaccio si frantuma sul tetto del defender un attimo prima dello sparo. In precedenza si era tentato lo stesso esperimento con l'estintore, riducendolo a un colabrodo, così non sarà mai più possibile riconoscerlo o identificarlo in quello che uno scrupoloso graduato dei CC porta con sé mentre le camionette transitano davanti alla chiesa, una manciata di istanti prima…
Mesi e mesi di lavoro attento da parte dei nostri e a poco a poco anche i periti del PM si avvicinano agli stessi risultati per quanto riguarda la distanza tra Carlo e la pistola. Non per la traiettoria: il carabiniere ha sparato in aria, ne sono certi, al di là di ogni precisa e documentata dimostrazione che smentisce questa tesi.
Che diamine, c'è il buco lasciato dal secondo proiettile (anche questo mai cercato) sulla chiesa del Rimedio, scoperto proprio da uno di loro il giorno in cui è stato riportato in piazza il defender: il buco si trova al di là della cancellata, oltre un albero, sulla parete a più di cinque metri di altezza.
Già, ma se tracciamo una linea da qui a lì, dal defender con i tre a bordo fino alla chiesa, osservano i nostri, nel primo tratto del suo percorso quel secondo proiettile avrebbe potuto incontrare un altro volto, un'altra persona, un'altra vita. Un tiro incrociato, da destra verso sinistra e poi da sinistra verso destra, mentre il braccio, naturalmente, si alza un pochino. Basta provare. Ma nessuno chiede di farlo. Non ha dubbi, il PM, tanto da scrivere nella proposta di archiviazione che i dati, pur scrupolosamente accertati, non sono poi così importanti: in quella piazza c'era un giovane carabiniere spaventato che ha sparato perché si è visto in pericolo di vita.
In un'aula al settimo piano del Tribunale di Genova, la settimana scorsa, gli avvocati della difesa non si sono neppure preoccupati di contestare le precisazioni puntigliose dei nostri: hanno ripreso in pieno la tesi del PM, aggiungendo quella cosa terribile, quell' "uso legittimo delle armi"nel corso di manifestazioni di piazza che dovrebbe far tremare i polsi a qualsiasi persona responsabile e indignare qualsiasi democratico.
Un nuovo insulto alla nostra Costituzione.
Perché è vero che se andiamo a ritroso nel tempo, venti e più anni fa, ne troviamo tanti come Carlo, magari sparati alla schiena o alla nuca. Basta leggere "In ordine pubblico", un piccolo libro prezioso, che dobbiamo alla passione e alla cura di Paola Staccioli e al Comitato Walter Rossi, nelle edicole in questi giorni. Basta scorrere l'elenco che si trova alla voce "Per non dimenticarli", in www.piazzacarlogiuliani.org. E' vero che "quegli omicidi sono rimasti impuniti, lasciati naufragare in un mare di bugie, di false testimonianze, di rimozioni e di omertà. Lasciati senza responsabili, archiviati", come scrive Antonella Marrone sull'Unità di domenica scorsa. E' vero. Legittimare aprioristicamente l'uso delle armi in manifestazione, armi in mano a delinquenti come quelli che abbiamo visto all'opera qui a Genova, anche il giorno dopo a piazzale Kennedy, in corso Italia, alla Diaz, sarebbe oggi di una gravità inaudita.
Mia figlia ha trovato in Indymedia un manifesto: rappresenta Rachel Corrie e Carlo, che si tengono per mano. Sotto c'è scritto: "They are ALIVE among us!"
Rachel, sepolta da un bulldozer perché tentava di difendere una povera casa palestinese; Rachel, che era partita dagli Stati Uniti, come i suoi compagni da altri Paesi, armati tutti di un insopprimibile senso di giustizia...
Non si può invidiare una madre che sopravvive al proprio figlio.
Eppure io invidio quelle madri che, dei loro figli, ricordano soltanto la vita.
Io, il mio, l'ho visto morire infinite volte.
Mi aggrappo ancora a una fragile, ultima speranza: di non vederlo morire una volta di più, sepolto da un'archiviazione.

La mamma di Carlo

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LORENZO GUADAGNUCCI: UNA BUONA NOTIZIA DA GENOVA

Finalmente una buona notizia. Archiviata una parte della accuse (e con le motivazioni giuste)

DICHIARAZIONE DI LORENZO GUADAGNUCCI

Autore di "Noi della Diaz", membro del Comitato Verità e giustizia per Genova

Almeno ora ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di vergognarsi? Ci sarà qualcuno che abbia il coraggio di chiedere scusa e pretendere verità e giustizia? O ai vertici della polizia, agli uomini dello stato, non basterà neanche questa archiviazione?
Il 21 luglio 2001 alla scuola Diaz siamo stati picchiati selvaggiamente e arrestati sulla base di prove costruite (le due bombe molotov portate dai poliziotti stessi), poi ci hanno anche accusati di avere aggredito gli agenti: tutto falso, come ora certifica il gip. Abbiamo o non abbiamo il diritto a un risarcimento morale oltre che giudiziario? Vorremmo sentir
dire, dagli stessi che allora ordinarono o accettarono quell'operazione, che fu un errore, un'illegalità, un'aggressione alle regole della democrazia ancora più che a 93 persone inermi. Sono passati quasi due anni e nessuno, ai vertici dello stato, ha mai preso veramente le distanze da quell'episodio, nessuno ha mai voluto spiegare perché fu deciso e da chi. Hanno
taciuto, coperto, in qualche modo legittimato, compromettendo la credibilità delle istituzioni, infangando anche l'onore della maggioranza di agenti onesti che lavorano nella polizia di stato.
Ora aspettiamo un processo ai responsabili del pestaggio e delle falsità che lo hanno preceduto, accompagnato e seguito: siamo in grado in Italia di capire che è una vicenda che riguarda tutti? Che è una questione di democrazia e di rispetto dello stato di diritto?

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ORA VOGLIAMO SAPERE PERCHE'

COMITATO VERITA' E GIUSTIZIA PER GENOVA

(presidente onorario Giulietto Chiesa, presidente Enrica Bartesaghi)

Comunicato stampa

ORA VOGLIAMO SAPERE PERCHE'

Il proscioglimento dei 93 massacrati della scuola Diaz (notte del 21 luglio 2001) dalle accuse di resistenza e violenze varie e' un primo passo verso la ricostruzione di Verita' e Giustizia sui fatti del luglio 2001 a Genova.
Attendiamo ancora l'archiviazione per l'altra assurda accusa rivolta ai 93: l'associazione a delinquere finalizzata alla devastazione.
Non siamo sedotti dalla volonta' di rivalsa e di vendetta, non siamo ansiosi di vedere in prigione chi ha costruito prove false, ma ci auguriamo che si arrivi finalmente a capire perche' sia stata perpetrata una gravissima violazione dello stato di diritto.
Perche' tanti giovani sono stati massacrati e sequestrati? Perche' sono state fabbricate prove false? (le molotov trovate in corso Italia trasferite nella notte nell'edificio scolastico). Perche' sono stati trafugati e non ritrovati gli hard disk del media center del Genoa Social Forum? Perche' invece di cercare i black block laddove erano stati segnalati dal GSF, le forze dell'ordine hanno preferito una sanguinosa mattanza in un dormitorio?
Qual e' il ruolo dei servizi segreti stranieri? Chi ha dato gli ordini?
Sono solo alcune domande le cui risposte potranno far comprendere le motivazioni reali della gestione dell'ordine pubblico a difesa del vertice dei capi di stato degli otto paesi piu' ricchi. Perciò ribadiamo la richiesta dell'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti del G8.

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INFOSDEBITARSI n. 156 DEL 2 LUGLIO 2003: "APPELLO GIULIANI"

Hanno voluto fare del luglio 2001 un’occasione di ostentazione del potere, di arroganza, di repressione, di violenza, di morte. Hanno provato a nascondere i valori di giustizia e di solidarietà che una grande moltitudine ha portato all’attenzione del mondo, i contenuti e le proposte per rendere concreta la speranza in un mondo migliore. Oggi ancora più necessari, dopo le guerre, la crescente povertà, la barbarie dei rapporti internazionali.
Noi vogliamo fare del luglio 2003 un’altra occasione di memoria, di riflessione, di approfondimento di quei temi, di cultura, di musica, di festa della vita.
Come l’anno scorso ci incontreremo per dibattere, approfondire temi, denunciare le promesse non mantenute dei cosiddetti otto grandi, anche in preparazione del prossimo Forum Sociale Europeo; per raccontare la nostra esperienza, le verità negate, qui come in tanti altri pezzi di mondo.
Come l’anno scorso cercheremo di ricordare per guardare avanti, per costruire un modo di vivere più umano e più giusto.
Come nel 2001 e nel 2002 saremo tanti, pacifici, determinati.
Ci rivolgiamo perciò prima di tutto ai Genovesi, a quelli di loro che spesso  in Italia come all’estero  vengono ricordati con riconoscenza per aver offerto acqua, riparo, solidarietà durante i giorni del G8. Anche a coloro che non hanno capito da subito quanto stava avvenendo ma sono scesi in piazza, sei mesi dopo, a manifestare il loro dissenso nei confronti di una gestione errata e violenta dell’ordine pubblico. Anche a quei democratici onesti che hanno creduto o continuano a credere a certe favole diffuse attraverso il piccolo schermo da chi si arroga il diritto di occupare libere città.
Ci rivolgiamo a tutti coloro che vorranno tornare, o venire per la prima volta, a Genova.
Vi inviteremo a partecipare, dal 12 al 20 luglio, a molte iniziative diverse, iniziando dall’incontro dei Comitati civili che, in tutti questi anni, hanno difeso la memoria da silenzi e impunità.
Vi inviteremo a seguire, presso il Munizioniere di Palazzo Ducale, un percorso di storia e di denuncia, non solo fotografico; nuovi filmati; presentazione di libri. Gli spettacoli teatrali al Modena. I dibattiti organizzati da tante associazioni, gli incontri del movimento sulle campagne e le prossime mobilitazioni dell’autunno, al Teatro della Tosse, nella sala della Provincia  e in altri spazi.
Domenica 20 luglio saremo in piazza Alimonda, con la musica, col teatro di strada, con le bandiere della pace. Da lì, dopo le 18, ci trasferiremo tutti insieme, in corteo, verso la Foce, dove più tardi si terrà un concerto.
Vi inviteremo a manifestare con un cerotto sulla bocca, per denunciare con la nostra presenza e la forza del nostro silenzio i troppi diritti negati. Anche il diritto alla verità cancellato da un’archiviazione.
Quel pubblico dibattimento lo metteremo in scena la sera prima, al Teatro Modena.
E ancora una volta vi inviteremo a non mancare.

                  I genitori di Carlo Giuliani

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RUBATE LE REGISTRAZIONI DI RADIO GAP FATTE A GENOVA

ROMA: FURTO ANOMALO NEGLI STUDI DI AMISNET
30/09 (modificato il 30/09 ore 17:39)
Furto anomalo negli studi di Amisnet Questa notte gli studi di Amisnet hanno subito un furto con scasso dalle modalità inquietanti. Le coincidenze strane sono tante: proprio ieri la porta blindata non era chiusa a chiave come al solito, per cui é stato relativamente facile per i ladri scassinare la serratura ed entrare.
Ma si è trattato di ladri evidentemente particolari, visto che dagli studi sono stati rubati alcuni fra gli oggetti più ingombranti e di minor valore (due tastiere musicali, un mixer digitale ed un basso elettrico..), lasciando sul posto merce preziosa e facilmente trasportabile come un pc portatile in bella evidenza e i microfoni di studio, il cui valore economico é pari a quello di tutta la merce trafugata e che tra l'altro potevano essere portati via senza dare nell'occhio.
Ma il fatto più inquietante é che nell'inventario della refurtiva risultano tutte le registrazioni audio realizzate dal circuito Radio Gap durante le giornate di Genova 2001. Mancano sia i back up su cd, che erano facilmente visibili ed in mezzo a molte altre produzioni, che gli originali, accuratamente nascosti in un vano che poi é stato risistemato ad arte. Tutto il restante materiale radiofonico prodotto dall'agenzia non é stato toccato.
Al di là di ogni dietrologia é a dir poco curioso che questo avvenga a ridosso della conclusione delle indagini preliminari sull'irruzione nella scuola Diaz e che ad essere colpita sia stata proprio l'agenzia Amis, a Genova durante il G8, che opera trasversalmente agli spazi di movimento e non gode probabilmente della stessa visibilità di altre strutture.

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A.A.A. CERCASI DONATORI PER PROCESSI G8

A distanza di 3 anni e mezzo dai fatti del g8 genovese, i processi ci obbligano a non dover dimenticare quei tragici giorni di luglio 2001.
Non possiamo e non vogliamo dimenticare, e lo facciamo con un incessante lavoro di ricostruzione e archiviazione di tutto il materiale cartaceo, fotografico e filmico raccolto.
E' grazie alla volontà e soprattutto alla  passione che siamo potuti arrivare quest'anno all'avvio dei processi per i fatti di Bolzaneto e Diaz.
Ed è sempre grazie all'impegno costante che possiamo difendere al meglio i 25 manifestanti imputati di devastazione e saccheggio nel processo apertosi a marzo 2004, e che rischiano pene tra gli 8 e i 15 anni.
In questi anni abbiamo ricevuto solidarietà ed appoggio economico da molte organizzazioni del movimento e da migliaia di cittadini ed è grazie a loro se oggi possiamo vantare una segreteria legale efficiente che lavora incessantemente perchè le difese possano svolgersi al meglio.
Ma per proseguire nel lavoro di denuncia e informazione all'opinione pubblica abbiamo bisogno oggi + di ieri di maggiori fondi.
In tal senso vogliamo ricordare il lavoro straordinario che il COMITATO VERITA' GIUSTIZIA GENOVA e SUPPORTO LEGALE stanno seguendo x il GENOA LEGAL FORUM.
Grazie al loro impegno non solo nell'attività di informazione, ma soprattutto nella raccolta dei fondi, la segreteria legale può lavorare perchè tutto il materiale venga archiviato ed esaminato dagli avvocati.
Il loro impegno non solo è di vitale importanza per poter svolgere al meglio il lavoro dentro le aule dei tribunali, ma è necessario perchè le persone non dimentichino, perchè un pezzo di storia possa essere ricostruita
e mai più dimenticata.

Con 3 processi in corso abbiamo solo 2 mesi di sopravvivenza: ad aprile il genoa legal forum chiude.
Aiutaci a sostenere la segreteria legale, contribuisci anche tu a sostenere i processi g8!!!

COMITATO VERITA' E GIUSTIZIA PER GENOVA
Conto CorrentePostale n.34566992 intestato a Verità e Giustizia per Genova
oppure tramite bonifico bancario: ABI 07601 - CAB 01400

www.veritagiustizia.it
info@veritagiustizia.it

SUPPORTO LEGALE
Conto Corrente Bancario n. 61359/80 intestato a Don Balletto
Banca CARIGE sede centrale - ABI 06175 - CAB 01400

www.supportolegale.org
info@supportolegale.org
 

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PROCESSO CONTRO LA TORTURA

luglio 2001, caserma di Genova Bolzaneto, Italia:

TORTURATA N° 81
subiva minacce anche a sfondo sessuale da persone che stavano all'esterno "entro stasera vi scoperemo tutte"; subiva percosse al suo passaggio nel corridoio da parte di agenti; colpita con violenza con una manata alla nuca; costretta a firmare i verbali relativi al suo arresto, che la stessa non voleva firmare; mostrandole le foto dei suoi figli, prospettandole che se non avesse firmato non avrebbe potuto rivederli,

TORTURATO N° 11
percosso con calci e pugni alla schiena e insultato, costretto a stare coricato a terra prono con gambe e braccia divaricate e testa contro il muro; ingiuriato con frasi, ritornelli ed epiteti a sfondo politico ("comunisti di merda" "vi ammazzeremo tutti"); percosso al passaggio nel corridoio e insultato anche con sputi; costretto a stare a carponi da un
agente che gli ordinava di abbaiare come un cane, e di dire "Viva la polizia italiana"

TORTURATA N° 21
percossa nel corridoio durante l 'accompagnamento ai bagni, le torcevano il braccio dietro la schiena nonché colpita con schiaffi e calci; insultata con epiteti rivolti a lei e alle altre donne presenti in cella: "troie, ebree, puttane",  ingiuriata con sputi al suo passaggio in corridoio; minacciata di essere stuprata con il manganello e di percosse; costretta a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi

Questi sono solo alcuni esempi di quanto hanno dovuto subire centinaia di persone, italiani e stranieri, costretti per molte ore a sottostare ad ogni genere di violenze e torture nella caserma di Genova Bolzaneto, durante il G8, a Genova.

In quei giorni furono calpestati e negati tutti i diritti che la nostra costituzione sancisce a tutela dei fermati e degli arrestati. Nessuno di loro, italiano o straniero, poté contattare avvocati, parenti, consolati. A nessuno di loro fu comunicato il motivo del fermo o dell'arresto, dove si trovassero, dove sarebbero stati condotti in seguito. Nonostante molti di loro fossero feriti (68 di loro provenivano dalla Scuola Diaz) non furono curati,  furono costretti a firmare falsi verbali di arresti, a dichiarare di non voler contattare legali o consolato.

Nessuno di loro ebbe diritto a cibo, acqua, sonno, furono costretti per molte ore a rimanere in piedi con le braccia alzate contro al muro.

I giorni 27 e 29 gennaio 2005 a Genova, ci sarà l'udienza preliminare a carico di 47 funzionari ed agenti delle forze dell'ordine e del corpo delle Guardie Carcerarie, medici ed infermieri:
12 carabinieri, 14 agenti di polizia, 16 guardie penitenziarie, 5 tra medici e infermieri accusati delle violenze commesse ai danni degli arrestati e dei fermati, da venerdì 20 alla domenica 22 luglio 2001, nella caserma di Genova Bolzaneto.

Non essendo previsto nel nostro ordinamento uno specifico reato di tortura, la Procura della Repubblica ha chiesto il rinvio a giudizio per i reati di abuso d'ufficio, lesioni, percosse, ingiurie, violenza privata, abuso di autorità contro gli arrestati, minacce, falso, omissione di referto, favoreggiamento personale.

Noi chiediamo ai media, ai parlamentari democratici, alla società civile, di essere presenti, di sostenere quanti furono torturati  in quei giorni e che, nonostante ancor oggi soffrano le conseguenze degli abusi subiti, hanno avuto il coraggio di denunciare quanto accadde a Bolzaneto.

Nessuno dei presunti responsabili delle torture è stato nel frattempo rimosso o almeno sospeso dai propri incarichi.

Enrica Bartesaghi
Presidente del comitato verità e giustizia per Genova

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ITALIA/G8: 'L'APERTURA DEL PROCESSO, UN PASSO AVANTI PER COMBATTERE L'IMPUNITA' DELLA POLIZIA' DICHIARA AMNESTY INTERNATIONAL

Mercoledi' 6 aprile, a quasi quattro anni dalle operazioni di polizia che caratterizzarono lo svolgimento della riunione del G8 del 2001 a Genova e le manifestazioni ad esso collegate, 28 funzionari di polizia "alcuni dei quali di alto grado" compariranno in giudizio. Il processo riguarda il raid notturno compiuto dalle forze dell'ordine nei locali di una scuola
utilizzata come dormitorio per i manifestanti e segreteria del Genoa Social Forum. Le accuse contro gi imputati comprendono l'abuso di autorita', la fabbricazione di prove false e gravi lesioni fisiche.

Amnesty International giudica positivamente l'apertura del processo come un significativo passo avanti per combattere l'impunita' della polizia.
Tuttavia, l'organizzazione per i diritti umani lamenta il fatto che le autorita' non abbiano preso altre misure decisive in questa direzione, in relazione sia ai fatti del G8 che a un piu' ampio contesto di frequente effettiva impunita' per le forze dell'ordine e per il personale carcerario, accusati di torture, maltrattamenti e forza eccessiva, come registrato da molti anni da Amnesty International.

Le 93 persone arrestate nel corso del raid all'interno della scuola dichiararono di non aver opposto resistenza, come invece sostenuto dalla polizia, e di essere state sottoposte a percosse deliberate e gratuite.
Almeno 82 di esse vennero ferite; 31 furono trasferiate in ospedale, in tre casi in condizioni critiche. Alcuni di essi ricevono cure mediche ancora oggi. Gli arrestati furono accusati non solo di resistenza a pubblico ufficiale ma anche di furto, detenzione di armi e appartenenza a un'organizzazione criminale dedita al saccheggio e alla distruzione della proprieta'. Nel febbraio 2004, al termine delle indagini, tutti i procedimenti furono chiusi per mancanza di prove.

Sono solo 28 i funzionari di polizia sottoposti a processo: decine di agenti che parteciparono al raid e che si ritiene avessero preso parte alle aggressioni fisiche, non hanno potuto essere individuati poiche' i loro volti erano pesantemente travisati da maschere, sciarpe o caschi e non portavano targhe identificative recanti nomi o numeri di matricola.

Amnesty International ha ripetutamente sollecitato l'Italia a recepire il Codice di etica della polizia, adottato dal Consiglio d'Europa nel settembre 2001, e ad assicurare che i suoi pubblici ufficiali siano obbligati a mostrare in maniera evidente alcune forme di identificazione individuale, come un numero di matricola, al fine di evitare il ripetersi di situazioni d'impunita'.

Un altro metodo riconosciuto a livello internazionale per prevenire lo sviluppo di un clima d'impunita' e ulteriori abusi da parte della polizia e' la sospensione dal servizio di coloro che sono sospettati di aver commesso reati come quelli oggetto del processo, in attesa dell'esito dei procedimenti penali. Amnesty International ha notato con preoccupazione che gli agenti che sono sotto processo in relazione al raid di Genova non sono stati sospesi dal servizio e, in alcuni casi, sono stati promossi.

La maggior parte delle persone arrestate nel corso dei raid venne trasferita nel centro di detenzione temporanea di Bolzaneto. Vi transitarono oltre 200 persone, molte delle quali furono private dei fondamentali diritti riconosciuti a livello internazionale ai detenuti, tra cui il diritto di avere accesso agli avvocati e all'assistenza consolare e quello a informare i familiari sulla propria situazione. Nel corso di un'udienza preliminare, i pubblici ministeri di Genova hanno illustrato in modo efficace le prove degli abusi verbali e fisici subiti dai detenuti. Hanno descritto, tra l'altro, come i detenuti fossero stati presi a schiaffi, calci, pugni e sputi; sottoposti a minacce, compresa quella di stupro, e ad insulti anche di natura oscena e sessuale; obbligati a rimanere allineati e in piedi per ore, a gambe divaricate contro un muro; privati di cibo e acqua per lunghi periodi; soggetti a perquisizioni corporali effettuate in modo volutamente degradante, con uomini costretti ad assumere posizioni umilianti e donne forzate a denudarsi di fronte ad agenti di sesso maschile. I pubblici ministeri hanno citato singoli casi di abuso: una ragazza la cui testa e' stata spinta in un gabinetto, un ragazzo obbligato a camminare a quattro zampe e ad abbaiare, il pestaggio di un detenuto non in grado di rimanere in piedi per ore poiche' aveva un arto artificiale.

La pubblica accusa ha chiesto l'incriminazione di 15 agenti di polizia, 11 carabinieri, 16 agenti di custodia e cinque membri del personale medico per vari reati tra cui abuso di autorita', coercizione, minacce e lesioni fisiche, accusandoli di aver sottoposto i detenuti a trattamenti crudeli, inumani e degradanti in violazione dell'art.3 della Convenzione europea sui diritti umani e le liberta' fondamentali. I pubblici ministeri hanno anche espresso il timore che, dato il tempo gia' trascorso, possa intervenire la prescrizione e che gli accusati non potranno mai essere sottoposti alla giustizia.

Amnesty International sottolinea che uno dei piu' efficaci modi per prevenire la tortura, i maltrattamenti e la forza eccessiva e' l'applicazione di sanzioni adeguate "commisurate alla gravita' del reato" da parte del sistema di giustizia penale. Sapere che i tribunali sono pronti a infliggere pene severe nei confronti di chi ordina, condona o perpetra la tortura e i maltrattamenti costituisce uno dei piu' concreti fattori di dissuasione. Sottoporre alla giustizia i responsabili non solo dissuade questi ultimi dal reiterare i propri crimini ma rende anche chiaro ad altri che i maltrattamenti non saranno tollerati, rassicurando al tempo stesso l'opinione pubblica che nessuno e' al di sopra della legge.

Nel luglio 2001, data la deprecabile assenza in Italia di un'istituzione nazionale indipendente sui diritti umani o di un organismo indipendente competente a ricevere denunce nei confronti della polizia e ad accertarne le eventuali responsabilita', Amnesty International aveva chiesto l'immediata costituzione di una commissione d'inchiesta, pubblica e
indipendente, sull'operato della polizia durante il G8 indicando alcuni criteri idonei a dare efficacia a tale organismo. Da allora non e' stato creato alcun organismo del genere, ma la sua necessita' permane ancora oggi; esso potrebbe costituire la base per la creazione di un meccanismo permanente e indipendente di controllo, col mandato di prendere in esame tutti gli aspetti delle operazioni di polizia.

L'importanza della volonta' politica di contrastare l'impunita' della polizia non puo' essere minimizzata. Amnesty International richiama le chiare indicazioni che il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa ha diffuso l'anno scorso a tutti gli Stati membri '(?) Nessuno deve essere lasciato nel dubbio che le autorita' dello Stato non
intendano combattere l'impunita'. ue Questo [impegno] rafforzera' le azioni intraprese a ogni altro livello. Quando necessario, le autorita' non dovranno esitare a trasmettere, mediante un messaggio formale ai piu' alti livelli politici, il chiaro segnale che ci dovra' essere tolleranza zero nei confronti della tortura e di altre forme di maltrattamento'.

Amnesty International deplora che a diciassette anni dalla ratifica della Convenzione dell'Onu contro la tortura e nonostante ripetuti solleciti da parte di organismi intergovernativi "tra cui il Comitato dell'Onu contro la tortura e il Comitato sui diritti umani" l'Italia non abbia ancora introdotto nel codice penale il reato di tortura, cosi' come previsto nella Convenzione dell'Onu contro la tortura.

FINE DEL COMUNICATO
Roma, 4 aprile 2005

Per ulteriori informazioni, si veda in particolare: Italy: G8 Genoa policing opration opf July 2001: A summary of concerns (AI Index 30/012/2001) e i capitoli sull'Italia contenuti nelle varie edizioni di Amnesty International Concerns in Europe and Central Asia e del Rapporto Annuale. Questa documentazione e' disponibile sul sito www.amnesty.org

Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste: Amnesty International Italia - Ufficio stampa Tel. 06 4490224, cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it

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DUE PROMOZIONI ARROGANTI

COMITATO VERITA' E GIUSTIZIA 

comunicato stampa

Un quotidiano ha riportato la notizia della promozione di due funzionari di polizia - il dottor Alessandro Perugini e il dottor Vincenzo Canterini - imputati di gravi reati per i fatti del G8 di Genova nel 2001. Speriamo ancora che la notizia non sia vera e chiediamo al ministro dell'Interno Pisanu di smentirla. Se invece fosse vera, come temiamo, ci troveremmo di fronte a una triste e pericolosa dimostrazione di analfabetismo etico e democratico. Per il dottor Perugini, imputato per i fatti della caserma di Bolzaneto e per la vicenda di un minorenne arrestato e picchiato per strada, e il dottor Canterini, comandante di un reparto intervenuto alla scuola Diaz, vale naturalmente la presunzione d'innocenza come per tutti i
cittadini: toccherà ai tribunali stabilire eventuali responsabilità penali.
La promozione di entrambi, a processi appena cominciati, è però un atto di arroganza e di miopia, che danneggia la credibilità della polizia di stato e allarga il solco aperto a Genova fra i cittadini e le forze dell'ordine.

Amnesty International, nei suoi interventi in tutto il mondo, sottolinea ogni volta che di fronte a processi per abusi commessi dalle forze dell'ordine, e per evitare che violenze sui cittadini si ripetano, è indispensabile agire con il massimo rigore, allontanando ogni ipotesi di impunità. Perciò Amnesty Intrenational reputa necessari alcuni atti: la condanna politica delle violenze, condanne penali per i colpevoli degli abusi e sospensione degli agenti sotto inchiesta. Sono passaggi indispensabili per evitare che si crei un clima di impunità, o che qualcuno si senta legittimato a tenere certi comportamenti. Sono misure necessarie a tutelare la qualità della democrazia. In Italia stiamo andando contro tendenza: gli imputati eccellenti, invece di essere sospesi in attesa della sentenza, sono addirittura promossi, nel totale disprezzo delle regole minime di correttezza democratica e istituzionale. Queste promozioni, se confermate, si aggiungerebbero a quelle già concesse a vari dirigenti di polizia imputati a Genova, a dimostrazione che ai vertici delle forze dell'ordine e del governo non ci si cura minimamente dei diritti di cittadinanza e della credibilità etica e democratica delle forze di polizia.

Genova, 15 giugno 2005

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Antonio Bruno   FORUM AMBIENTALISTA MOVIMENTO ROSSO VERDE 339 3442011
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sito Comitato Verità e Giustizia per Genova www.veritagiustizia.it, con aggiornata rassegna stampa.
Vogliamo aiutare le vittime della violenza delle forze dell'ordine a Genova (luglio 2001).
ccp 34566992 ABI 07061 CAB 01400  intestato Comitato Verità e Giustizia per Genova
per aderire alla mailing list del Comitato inviare messaggio vuoto a
veritagiustiziagenova-subscribe@yahoogorups.com
 

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GENOVA G8: LETTERA APERTA A MAURIZIO CEVENIVI

Caro Maurizio,
ieri sera ero a Vag per la prima delle due giornate sul G8 di Genova [1], nel quinto anniversario da quel G8, e mi è tornata in mente una lettera aperta che scrivesti allora quando eri presidente del Consiglio Comunale di Bologna.
I fatti che citavi sono diventati memoria condivisa per molta gente, ma anche ricordi personali. Io ero lì per una delle mie prime corrispondenze seguendo il direttore di Carta, Gigi Sullo, nel corteo dei disobbedienti partito dal Carlini. Una varco tra gli scudi alla prima carica in Via Tolemaide mi ha permesso di scappare e di riuscire a seguire gli scontri
seguenti lungo il viale. Per questo ho potuto vedere Federico spintonato da dieci poliziotti, loro armati da guerriglia urbani, lui di bottiglie di plastica attaccate con il nastro adesivo, mentre veniva portato via con le mani sulla faccia. Come mi sentivo? Frustrato. Impotente. Un sentimento che in questi cinque anni pur attraversando la vita di molte persone che
c'erano, non è prevalso ma ha dato nuovi stimoli per impegnarsi. Ne ho incontrati tante, presentando video o libri quando ho deciso di fare l'unica cosa che mi veniva bene: raccontare. Ed ogni volta mi sono meravigliato di quanta energia e generosità fosse nata da un trauma che rimane una delle pagine più nere della storia di questa Repubblica.
Per questo mi è tornata in mente la tua lettera. Perché in questi giorni di racconti che affiorano nelle discussioni private, appuntamenti pubblici, riflessioni pubblicate da siti o giornali, leggo in controluce una domanda:
cosa è cambiato? Quanto ci ha cambiati e quanto abbiamo contribuito a cambiare? Cosa è nato, insomma, dal quel modo diverso di fare politica? Io credo molti fatti importanti che hanno cambiato il modo con il quale abbiamo ragionato, con parole (nuove) e atti concreti,di problemi mondiali e locali che rimangono, putroppo, per buona parte attuali: diritti,
democrazia, razzismo, guerra, beni comuni. Non è sufficiente, ma non è questo il punto. La scommessa, infatti, era invertire un processo cominciato con gli inizi degli anni '80 e che mirava a iscrivere nell'ordine sociale e politico un unico modello economico (il neoliberismo), accettato con qualche distinzione di forma (ma nessuna di sostanza) dall'intera classe politica istituzionale nel crepuscolo di tutte le narrazioni collettive che hanno segnato il secolo precedente. A metà
degli anni '90 la Banca Mondiale diceva che mezzo milione di persone al mondo erano inutili, come sono inutili le aziende che producono merci alle quali il "Mercato" non riconosce un valore. Nel 2001 il portavoce del Genoa Social Forum, Vittorio Agnoletto, mise sul piatto del dialogo con il G8 l'impegno dell'Italia ad opporsi alle richieste di sanzioni degli USA in sede WTO contro quei paesi (Brasile e Sudafrica) che producevano farmaci contro il virus dell'HIV senza pagare i brevetti alle multinazionali.
Dopo cinque anni queste istituzioni sono allo stallo (se n'è accorto anche il Sole24Ore) e credo che contribuimmo a bloccarle vincendo una parte di quella scommessa. Non tutta, perché i governi furono sordi, e in quest'ultimo esempio anche l'opposizione parlamentare attuale maggioranza.
Oggi sarebbe diverso?
Ho paura di no e soprattutto a causa di una frattura, tutt'ora irrisolta, tra politica e sociale. La politica contestata cinque anni fa, e che sembra cambiata poco, era quella che concepiva un suo primato ed autonomia per gestire un modello senza metterlo in discussione. In questa direzione ha allocato sempre maggiori risorse che l'hanno resa un esercizio di
dialettica da professionisti di dibatti in prima serata (modello "Porta a porta", alle ultime elezioni è stato lampante), innavicinabile a chi non ne aveva i mezzi. Per questo abbiamo subito l'antipolitica, Berlusconi e il berlusconismo, e per la stessa ragione l'unica risposta alternativa, quella che contestava l'esistente, era affermare che c'era un altro possibile, che
non ci sono dogmi economici, istituzionali o politiche che tengano quando è in gioco la vita delle persone e dell'intero pianeta. Questa cosa doveva e poteva cambiare le istituzioni storiche dentro le quali la politica esercita il dovere di individuare e rispondere agli interessi collettivi, ai bisogni di una società plurale e in cambiamento. Certo, se non ci fosse
stato l'11 Settembre, ovvero l'uso e la strumentalizzazione del terrore per chiudere ogni possibilità in questa direzione. E salvaguardare il modello.
La vicenda del rifinanziamento della guerra in Afghanistan non è l'unico esempio del fatto che, in questa direzione, bisogna ridefinire domanda (da porre anche a chi, anche onestamente, è entrato dentro le istituzioni per usarle come leva di cambiamento): quali sono gli spazi e i limiti per vincere il resto della scommessa in questo contesto mutato? Penso, però, che per rispondere basterebbe fermarsi a Bologna dove in questi giorni un giornale come "Repubblica" da le pagelle di metà mandato alla giunta Cofferati che tanta parte di questo cambiamento aveva detto di voler incarnare.
Evidentemente con poco successo. Prendi gli interventi sulla questione migranti. Inefficaci sul piano pratico, hanno avvitato la discussione politica tra i favorevoli "responsabili" e i contrari "senza cultura di governo", evitando completamente il problema del messaggio politico che è arrivato in città: un intervento senza progetto che ha rafforzato
l'immagine di fenomeno emergenziale e l'idea che la politica e la società possano sentirsi, in fondo, immuni dal doversi preoccupare di minoranza senza cittadinanza E ancora, rispetto al problema della crisi economica, la politica si è guardata bene dal mettere in discussione come si vende e con che modello, ma ha deciso che tra il diritto a respirare e la ricetta "più macchine, più pil" era meglio il secondo. E ancora una volta non si vede all'orizzonte nessun progetto. Invece si è monopolizzato i lavori comunali con la vicenda "legalità". Un'imbarazzante salto indietro che ha avuto l'effetto di affidare al potere giudiziario e inquirente la soluzione di problemi che attengono alla politica. Evitando, per altro, di rispondere delle proprie responsabilità. Nei giorni caldi dell'OdG sulla legalità, Radio Città del Capo intervistò il segretario del PRC Loreti e il capogruppo DS Merighi. Il primo ha rilanciato l'idea dell'amnistia per le lotte sociali, il secondo ha risposto che l'Unione doveva impegnarsi a costruire più case invece che scarcerare chi le aveva occupate. Peccato che il tutto è avvenuto nel giorni in cui tra le prime notizie c'erano la Val Susa e il CpT di Via Mattei, due tra i tanti fatti che in Italia riguardano 10.000 persone che dal militante dei centri sociali al contadino del piemonte hanno soprattutto cercato di difendere i diritti costituzionali in questo paese.
Fatti che, per altro e tornando a Genova, rispondono anche a chi come te in questa lettera subito ma anche molto tempo dopo, non ha saputo e voluto andare oltre la "condanna della violenza gratuita". Per questo ti interesserà sapere, e solo per rimanere ai dati di fatto giudiziari quelli di Piazza Alimonda sono nel bel video del Comitato Piazza Carlo Giuliani,
che per la vicenda di Bolzaneto, 250 persone torturate in due giorni, sono stati rinviati a giudizio 12 carabinieri, 14 poliziotti, 16 agenti penitenziari e 5 fra medici e infermieri accusati a vario titolo di violenza privata, lesioni personali e abuso d'ufficio. Per la vicenda Diaz i 93 manifestanti arrestati sono stati tutti prosciolti, mentre subiranno un processo 29 poliziotti,  accusati di lesione e falso (per le due molotov portate per giustificare l'irruzione) e nonostante questo molti di loro hanno nel frattempo ricevuto delle promozioni. A contorno, poi, si è appurato che la carica al corteo dei disobbedienti non era autorizzata, come l'irruzione alla scuola Pascoli dove c'era il computer del Legal Social Forum (preso a manganellate), Il Manifesto e Radio Gap al secondo piano, Indymedia al terzo.
La politica che si contestava allora, e che oggi sembra cambiata poco, è anche questa. Una politica che ha perso il senso del limite. Che non riesce a vedere più la portata dei propri atti ed è incapace di prendersi le proprie responsabilità. Fosse anche solo quella di fare ammenda per aver tirato conclusioni così affrettate allora, e di domandarsi se lo stesso
errore non lo state facendo anche ora.
Marco Trotta

[1] http://www.vag61.info/vag61/articles/art_327.html
[2] http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/veritadvd.php
[3] http://www.mauriziocevenini.it
 

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UN APPELLO DELLA RIVISTA ALTRECONOMIA: GIUSTIZIA PER/SU GENOVA 2001

Cari amici,
sono passati cinque anni dai fatti del G8 di Genova: durante le manifestazioni del 20 luglio 2001 Carlo Giuliani, 23 anni, viene ucciso da un carabiniere.
Il giorno dopo un corteo di 300 mila persone è caricato in più punti dalla polizia. La sera stessa, le forze dell\'ordine irrompono nella scuola Diaz massacrando e arrestando tutti i 93 occupanti. Nel programma elettorale dell'Unione c'è scritto, nero su bianco, l'impegno di istituire una commissione parlamentare d\'inchiesta per fare luce su quanto è
accaduto e attribuire le giuste responsabilità.

Vi chiediamo di scrivere ai presidenti dei gruppi parlamentari della maggioranza per chiedere loro di rispettare la promessa che hanno fatto in campagna elettorale.
Di seguito, la lettera che abbiamo preparato.
Firmatela e inviatela agli indirizzi in calce.
Se qualche parlamentare dovesse rispondervi, vi
preghiamo di inoltrarci il messaggio.
 
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Gentile onorevole,
l'Unione si è impegnata con gli elettori ad istituire, in caso di vittoria, una commissione parlamentare d\'inchiesta sui fatti avvenuti a Genova durante il G8 del 2001. E' un impegno importante, perché a Genova, come ampiamente dimostrato, furono sospese le garanzie costituzionali: le vite di migliaia di persone sono ancora segnate dallo choc subito in quei giorni.
Le ferite morali sono ancora tutte aperte.
 
La passata maggioranza si è ostinatamente rifiutata di accertare tutte le responsabilità operative e politiche di quanto avvenuto, così abbiamo perso cinque anni. Ora è arrivato il momento di agire senza alcun indugio. Le incertezze che ancora sembrano esistere all'interno della nuova maggioranza paiono del tutto incomprensibili. I fatti di Genova hanno causato una pericolosa frattura fra la cittadinanza e le forze dell'ordine. E' necessario che il parlamento costituisca al più presto la commissione d'inchiesta, che avrà anche il compito, attraverso un'indagine limpida e approfondita, di restituire alle forze di sicurezza la credibilità perduta nelle strade, nelle scuole, nelle caserme di Genova.
 
Per questo le chiediamo di fare tutto quanto è in suo potere per accelerare l'iter parlamentare del progetto di legge riguardante la commissione d'inchiesta. Abbiamo atteso cinque anni, ci pare abbastanza.
 
Data e firma con nome e cognome
 
Gli indirizzi dei Presidenti dei gruppi parlamentari della maggioranza:
 
Alla Camera dei deputati:
- Partito dei Comunisti italiani SGOBIO_C@CAMERA.IT
- Italia dei Valori DONADI_M@camera.it
- L\'Ulivo FRANCESCHINI_D@CAMERA.IT
- Rosa nel pugno VILLETTI_R@camera.it
- Popolari - Udeur FABRIS_M@camera.it
- Partito della Rifondazione comunista MIGLIORE_G@camera.it
- Verdi BONELLI_A@camera.it
- Gruppo Misto BRUGGER_S@camera.it
 
Al Senato
- Insieme con L\'Unione, Verdi e Comunisti italiani palermi_m@posta.senato.it
- L'Ulivo finocchiaro_a@posta.senato.it
- Partito della Rifondazione comunista russospena_g@posta.senato.it
- Gruppo Misto formisano_a@posta.senato.it,aniformisano@tiscali.it
 

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TESTO INTEGRALE DELL'INTERVISTA A MARIO PLACANICA

www.carta.org

Pubblichiamo il testo integrale dell'intervista a Mario Placanica che il > quotidiano CalabriaOra ha pubblicato oggi. Per la prima volta, il carabiniere catanzarese che era sulla jeep defender in piazza Alimonda, nel corso dei drammatici giorni del G8 genovese del 2001, afferma esplicitamente di essere "un capro espiatorio usato per coprire qualcuno" e di non avere
ucciso lui Carlo Giuliani.
Alcuni particolari sono raccapriccianti, come le reazioni entusiaste dei colleghi di Placanica dopo la morte di Carlo. E poi Placanica si pone queste domande: "Perché alcuni militari hanno 'lavorato' sul corpo di Giuliani? Perché gli hanno fracassato la testa con una pietra?". E poi, sempre per la prima volta, ricostruisce l'incidente automobilistico che ha avuto qualche anno fa. "Lo sterzo è come se si fosse bloccato, non riuscivo più a sterzare", afferma. In questi anni, Placanica, dopo essere stato assolto dall'accusa di omicidio [secondo i giudici, aveva sparato "per legittima difesa"] è stato congedato per problemi comportamentali dall'Arma, ha cercato di candidarsi alle amministrative con Alleanza nazionale [che era il partito a cui era iscritto: poi si è candidato con una lista civica].
Le rivelazioni di Placanica confermano la necessità di fare chiarezza su ciò che è avvenuto a Genova nel luglio 2001: sulla catena di comando delle forze dell'ordine, sulle responsabilità dei politici che stavano nella sala operativa, sugli abusi commessi sulle centinaia di migliaia di cittadini che manifestavano liberamente. E sulla morte di Carlo Giuliani, un ragazzo.
Mario Placanica rompe il silenzio e racconta la sua verità. Il G8 visto da un'altra "inquadratura". Anche questa purtroppo incompleta. Solo un tassello in più nel quadro a tinte fosche di quel luglio genovese. Sono passati cinque anni e quattro mesi dal 20 luglio del 2001, dalla morte di Carlo Giuliani. Mario Placanica, il carabiniere che sparò a piazza Alimonda, si
è sposato, è diventato padre e non è più carabiniere. L'Arma lo ha ritenuto non idoneo, congedato per "disturbo dell'adattamento con ansia ed atipie del pensiero". Lui però non ci sta. Si è sottoposto ad altre visite che lo hanno
dichiarato sano, ha fatto ricorso al Tar e ora ha deciso di non tacere più.
Dice di non aver più paura della verità. Non ha una versione alternativa su quei terribili momenti, ma di una cosa appare certo: non è stato lui a uccidere il giovane manifestante.
Quando sei arrivato a Genova?
Siamo arrivati il 17 luglio
A quale reparto eri stato assegnato?
Ero con il dodicesimo battaglione Sicilia
Da quanto tempo eri nel battaglione?
Da dicembre del 2000
Avevi già svolto compiti di controllo dell'ordine pubblico?
Sì, un banale servizio d'ordine allo stadio di Palermo
Arrivato a Genova che clima hai trovato?
Eravamo stanchi. Le operazioni di sistemazione sono state lunghe e snervanti.
Tra i colleghi vi confrontavate?
C'era una tensione indescrivibile
Gli ufficiali tentavano di tranquillizzarvi?
I superiori gridavano sempre
Che ordini vi sono stati impartiti per le giornate del G8?
Ci dicevano che le situazioni sarebbero state un po' particolari, non come semplice ordine pubblico ma qualcosa di più
In che senso?
Ci dicevano di stare attenti, ci raccontavano che ci avrebbero tirato le sacche di sangue infetto. Ci dicevano di attacchi terroristici. La sensazione era come se dovessimo andare in guerra
Si è detto che per tenersi carichi alcuni fecero uso di droga.
Che io sappia no. Certo che c'era un'agitazione fuori dalla norma. Può darsi anche questo. Io non ne ho mai fatto uso.
Quella mattina del 20 luglio dove sei stato dislocato?
Ci hanno posizionato vicino la "Fiera" insieme ad alcuni poliziotti. Ci sono state delle cariche sul lungomare, ma solo di alleggerimento. Abbiamo partecipato alle cariche in cui venne dato alle fiamme il blindato dei carabinieri. In quella situazione mi è stato affidato il compito di sparare i lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Però dopo un po' il maggiore Cappello mi ha preso il lanciagranate perché diceva che non ero capace. Io stavo sparando a "parabola", così come mi è stato insegnato, e invece lui ha iniziato a sparare ad altezza d'uomo, colpendo in faccia le persone. Cose
allucinanti.
Quando hai iniziato a sentirti male?
Io dovevo togliere il nastro ai lacrimogeni e passarli al maggiore Cappello. Quando si toglie il nastro fuoriesce un po' di gas e quindi ho iniziato a > sentirmi male. Così sono stato accompagnato in una via che conduce a piazza Alimonda. Sulla strada ho visto di tutto, ho visto picchiare a sangue dal colonnello Truglio e dal maggiore Cappello alcune persone con la macchina fotografica. Ho iniziato a vomitare e mi hanno fatto salire sulla camionetta.
Chi eravate sul Defender?
C'eravamo io, Cavataio, carabiniere in ferma biennale e, Raffone, un ausiliario seduto dietro insieme a me
Nessuno che avesse esperienza?
Sì, eravamo solo noi
Accanto avevate un'altra camionetta?
Si, c'era un altro defender con a bordo il colonnello Truglio. Il responsabile del nostro mezzo era il maggiore Cappello
C'erano altri colleghi?
C'era il plotone dei carabinieri davanti a noi che ci faceva da scudo.
Dalle immagini si vede partire la carica dei manifestanti, tu cosa hai visto?
I carabinieri sono scappati, ci hanno superato, noi abbiamo fatto retromarcia e siamo rimasti incastrati contro un cassonetto della spazzatura.
Cosa ti ricordi di quei momenti?
Solo un rumore infernale.
Quando vi siete incagliati cosa hai pensato?
Ci hanno lasciato soli, ci hanno abbandonato. Potevano intervenire perché c'erano i carabinieri e anche gli agenti della polizia. Potevano fare una carica per disperdere i manifestanti e invece non hanno fatto niente. Quel momento è durato una vita.
Quando hai estratto la pistola?
Quando mi sono visto il sangue sulle mani. Ero stato colpito alla testa. Ho tolto la pistola e ho caricato
Cosa vedevi davanti a te?
Non vedevo praticamente nulla, ero quasi steso, solo Raffone era un po' più alzato. Mi è arrivato l'estintore sullo stinco, scalciando con i piedi l'ho ributtato giù. Loro continuavano con questo lancio di oggetti, io ho gridato che avrei sparato. Poi ho sparato in aria.
Sei convinto di aver sparato in aria?
Sono convinto di aver sparato in aria, non ho preso mira, è la verita
Quanti colpi hai sparato?
Due colpi, tutti e due in aria
Eri seduto?
Ero steso, con il braccio alzato verso l'alto, all'interno del defender. La mano era sopra la ruota di scorta del Defender.
Hai sentito solo i tuoi due colpi?
Sì. Dopo i due spari sul defender è salito un altro carabiniere che si chiama Rando di Messina e ha messo lo scudo sul vetro che avevano rotto. Davanti è salito un maresciallo dei Tuscania di cui non ricordo il nome. E siamo partiti. Eravamo diretti all'ospedale ma abbiamo dovuto allungare il percorso perché sulla strada c'erano i manifestanti, quelli di Agnoletto,
che non volevano farci passare. Al pronto soccorso mi hanno ricoverato perché avevo perso molto sangue
Non vi siete accorti di quello che era successo a piazza Alimonda?
No. Ho saputo della morte di Carlo Giuliani alle 23 quando sono venuti in ospedale i carabinieri con un maggiore. Però non mi hanno comunicato la notizia in ospedale. Mi hanno fatto dimettere, mi hanno fatto firmare la cartella e mi hanno portato in caserma. Lì mi hanno detto che avevo ucciso un manifestante.
Come ti sei sentito in quel momento?
Mi è caduto il mondo addosso. Io sapevo di aver sparato però ero convinto anche di aver sparato in aria. Mi hanno fatto l'interrogatorio, mi hanno  messo sotto pressione e io ho risposto quello che potevo rispondere. Hanno cercato di farmi dire qualcosa in più, ma io l'ho detto che non avevo sparato direttamente.
Quanto è durato l'interrogatorio?
Un'ora circa, intorno a mezzanotte
E dopo cosa è successo?
Mi hanno riportato alla fiera di Genova. Mi hanno fatto dare sette giorni di prognosi
Che ambiente hai trovato quando sei rientrato in caserma?
Mi chiamavano il killer. I colleghi hanno fatto festa, mi hanno regalato un basco dei Tuscania, "benvenuto tra gli assassini" mi hanno detto.
I colleghi erano contenti di quello che era capitato?
Si, erano contenti. Dicevano morte sua vita mia, cantavano canzoni. Hanno fatto una canzone su Carlo Giuliani
Tu come ti sentivi?
Io ero assente, non volevo stare con nessuno, mi sentivo troppo male.
Dopo tre giorni ti hanno mandato a Palermo
Ero felice di lasciare quel posto. Però appena arrivato in Sicilia sceso dall'autobus il colonnello mi ha preso a schiaffi
Perché?
Forse per scrollarmi un po', ma non lo so
A Palermo come ti hanno accolto i colleghi?
Tutti mi chiedevano, si informavano. Non ti dico che pressione psicologica
Ma a casa quando sei tornato?
Dopo una settimana che ero a Palermo mi hanno dato trenta giorni di convalescenza. Però mi hanno mandato nella caserma di Sellia e i miei genitori non potevano entrare. Mio padre tra l'altro era ricoverato in ospedale a Catanzaro. Io uscivo di nascosto, ma a Catanzaro non sono riuscito a salire.
Che idea ti sei fatto, era per proteggerti o perché non volevano che parlassi all'esterno?
Non lo so se mi proteggevano o avevano paura di qualcosa. Anche perché subito in quei giorni mi hanno messo gli psicologi per farmi controllare. Ma io che malattia avevo. Certo che accettare di aver ucciso un ragazzo. Ma io non ero sicuro di averlo ucciso. Mi venivano i dubbi perché se io ho sparato in aria come fanno a dire che l'ho colpito in faccia, che sono un cecchino
Avevi sparato prima di quel giorno?
Tre volte al poligono e non ti dico i risultati, non ne ho preso uno. Non ero buono con la pistola anche per questo mi hanno mandato al battaglione. Alle stazioni mandano quelli più bravi, gli altri vanno nei battaglioni.
Dopo Sellia ritorni in Sicilia.
Lì sono iniziati i problemi. Perché tutte quelle domande erano uno stress incredibile. Insomma ho iniziato a marcare visita. Mi hanno trasferito a Catanzaro al reparto comando, poi sono andato a un corso integrativo in Sardegna. Ma anche lì continuavano le domande e non ho neanche finito il corso. Sono tornato in Calabria e per due anni ho iniziato a lavorare a singhiozzo.
In questo periodo ti capita un altro episodio che ha fatto discutere. Ti salvi quasi miracolosamente da un incidente stradale.
Ho perso improvvisamente il controllo del veicolo. Lo sterzo è come se si fosse bloccato, non riuscivo più a sterzare.
Dopo questo periodo difficile però inizi a sentirti meglio e il 22 novembre 2004 ti sottoponi a una visita psichiatrica all'ospedale militare per tornare in servizio
Era parecchio che non lavoravo, mi sentivo di voler riprendere, ero più sereno, mi ero appena fidanzato. Il dottore Pagnotta dell'ospedale militare dopo avermi esaminato mi dice che ero idoneo. Porto il certificato in commissione medica e invece i tre ufficiali della commissione non ne tengono conto e mi dicono che mi fanno fare un'altra visita.
Perché un'altra visita?
Non me lo hanno detto. Mi hanno mandato dalla dottoressa Vittorina Palazzo. Secondo me avevano già deciso di congedarmi. Con la dottoressa ci eravamo già visti a Villa Bianca. Io ero andato perché prendevo delle gocce per dormire. Lei invece, senza visitarmi, mi ha fatto prendere l'Aldol. Dormivo venti ore al giorno, mi ha rovinato, non me lo doveva dare.
Fai quest'altra visita il 13 dicembre del 2004 e cosa succede?
La dottoressa mi ha dichiarato non idoneo. Mi è caduto il mondo addosso
Potevi però chiedere di essere destinato agli uffici?
Me lo hanno consigliato loro di fare domanda e io l'ho fatto. Non l'hanno accolta perché non ero inquadrato nella forza dell'Arma, perché ero ancora in ferma volontaria. I quattro anni però erano già scaduti, ma non ne hanno tenuto conto.
Hai presentato ricorso al Tar?
Ma dicono che è innamissibile il mio rientro, hanno prodotto la mia domanda per i ruoli civili sostenendo che io ero già consapevole di voler andare in ufficio, quando invece sono stati loro a consigliarmi di farla. E non hanno tenuto conto della mia causa di servizio, a me spetta il ruolo civile.
Perché non ti vogliono più?
Sono un capro espiatorio usato per coprire qualcuno. Le porte sono chiuse per Placanica
A logica però sarebbe stato più conveniente tenerti buono e non lasciarti solo?
Però se vengo congedato per problemi psichici chi mi crede! Per anni mi hanno sottoposto a uno stress psichico insopportabile. Mi hanno detto che i no global mi avrebbero ammazzato. Sono arrivati a dirmi che avrebbero ucciso
mia moglie quando era incinta. Con il congedo che mi hanno dato chi mi darà un lavoro?
Eppure c'è una terza perizia.
Ho chiesto una perizia di parte effettuata da Mauro Notarangelo che ha certificato che io sto bene. Sono riuscito a ripulirmi da tutti i farmaci che mi hanno fatto prendere
A distanza di cinque anni quale è il tuo pensiero su questa vicenda?
Credo che mi sono trovato in un ingranaggio più grande di me. Che ero nel posto sbagliato, non si potevano mandare ragazzi inesperti e armati in quella situazione
Secondo te si è detta tutta la verità sul G8 di Genova?
No.
Cosa è rimasto all'oscuro?
Ci sono troppe cose che non sono chiare.
A cosa ti riferisci?
A quello che è successo dopo a piazza Alimonda. Perché alcuni militari hanno "lavorato" sul corpo di Giuliani? Perché gli hanno fracassato la testa con una pietra?
Hai posto queste domande ai tuoi superiori?
Una volta ho telefonato al maggiore Cappello. Lui mi ha detto che non dovevo avere dubbi. Però lui mi disse di aver saputo quanto successo la sera alle 20 e invece nelle immagini che ho rivisto si vede lui accanto al corpo di Giuliani. Io non ho sentito altri spari, però anche i colleghi che erano dentro al defender non hanno sentito i miei colpi. Ritengo che cremare il corpo di Giuliani sia stato un errore, forse si sarebbe potuto scoprire di più, qualcosa sul corpo forse c'era.
Sei alla ricerca della verità?
Si. Come fanno a dire che l'ho sparato in faccia. Non è vero. È impossibile. Non potevo colpire Giuliani. Ho sparato sopra la ruota di scorta del defender.
Perché hai deciso di parlare solo adesso?
Perché ci vuole coraggio e io finalmente l'ho trovato. Merito anche dell'avvocato a cui mi sono rivolto, Antonio
Ludovico, che mi ha sempre sostenuto e mi ha consigliato di non aver paura della verità.
 

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CONDANNATA LA POLIZIA DI STATO PER IL G8 DI GENOVA 2001

Segreto di Stato: a Genova ci fu un disegno repressivo, prima condanna per la Polizia al G8 del 2001. La censura da parte dei media è stata rigida ed assoluta: della sentenza di Genova non si doveva parlare. Infatti incredibilmente non ne ha scritto neanche il Manifesto e dovrebbe spiegare perché. Alzi la mano chi ha saputo che la settimana scorsa a Genova c'è stata la prima condanna per i pestaggi della Polizia durante il G8 del 2001.
Eppure la sentenza di Genova è un passaggio capitale per la ricostruzione della verità e la giustizia di quello che successe nel capoluogo ligure oramai 6 anni fa. E ci spiega anche molto del disegno politico sotteso alla repressione [Gennaro Carotenuto].

Lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni, pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il pestaggio che subì da parte della Polizia in via Assarotti, nel pomeriggio del 20 luglio 2001. Marina, come decine di migliaia di militanti cattolici della Rete Lilliput, era seduta, con le mani alzate dipinte di bianco, gridando "non violenza", quando fu massacrata dalla Polizia. Questa si è difesa sostenendo (sic!) che non era possibile distinguere tra le mani dipinte di bianco di Marina e i Black Block. Per il giudice Angela Latella invece la selvaggia repressione genovese -e la cortina di menzogne sollevata per coprirle- è stata una delle pagine più nere di tutta la storia della Polizia di Stato e per la prima volta ciò viene scritto in una sentenza. Non solo, è ben più grave quello che è scritto nella sentenza genovese. Quelle dei poliziotti non furono né iniziative isolate né eccessi, ma facevano parte di un disegno criminale.

Si inizia a confermare in via processuale quello che chi scrive sostiene e scrive da sei anni. A Genova vi fu un disegno criminale selettivo da parte di apparati dello stato. Tale disegno era teso a terrorizzare non tanto la sinistra radicale ma il pacifismo cattolico, in particolare la Rete Lilliput, che per la prima volta in maniera così convinta e numerosa scendeva in piazza saldandosi in un unico enorme fronte antineoliberale con la sinistra.

Le ragazze e i ragazzi delle parrocchie furono quelli che pagarono il prezzo più alto, soprattutto sabato. I loro spezzoni di corteo furono sistematicamente bersagliati dai lacrimogeni e centinaia di loro furono pestati selvaggiamente. Ma, soprattutto decine di migliaia di loro, e le loro famiglie, furono spaventati a morte in una logica pienamente terroristica. Quanti dopo Genova sono rimasti a casa?

Di fronte all'immagine sorda data dai grandi della terra, Bush, Blair, Berlusconi, quel movimento pacifico, colorato, credibile, fatto di persone serie e non dei pescecani rinchiusi nella città proibita, che si era riunito intorno alle proposte concrete per un nuovo mondo possibile del Genoa Social Forum, doveva essere schiacciato. Non lo sapevamo, ma mancavano 50 giorni all'11 settembre.

Riporto nel sito l'articolo dell'eccellente Massimo Calandri, apparso SOLO sulle pagine genovesi di Repubblica lo scorso 29 aprile. E' normale secondo voi? Esiste ancora il diritto ad essere informati in questo paese?

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Prima condanna per le violenze delle forze dell'ordine contro i manifestanti: "Non furono iniziative isolate". G8, condannato il Ministero - Missionaria picchiata, risarciti invalidità e danni morali "Ho solo ottenuto quello che attendevo da 6 anni: giustizia"

MASSIMO CALANDRI

LA PRIMA condanna nei confronti del Ministero dell'Interno per le illecite e gratuite violenze dei suoi poliziotti è arrivata nei giorni scorsi, e cioè circa sei anni dopo la vergogna del G8 genovese. Ma le parole con cui il giudice istruttore Angela Latella ha motivato la sua decisione rinfrescano la memoria.

Ricordando a tutti che quelle cariche sanguinarie, quelle teste rotte a manganellate, quei lacrimogeni sparati contro le persone inermi, non erano frutto dell'iniziativa isolata o dell'autonomo eccesso di qualche agente.
Facevano invece parte di un più ampio disegno -così come le menzogne raccontate più tardi per coprire le nefandezze - , che rappresenta una delle pagine più buie nella storia della Polizia di Stato.

Il tribunale del capoluogo ligure ha dato ragione a Marina Spaccini, pediatra cinquantenne di origine triestina, pacifista che per quattro anni ha lavorato in due ospedali missionari del Kenia. Alle due del pomeriggio del 20 luglio, era il 2001, venne pestata a sangue in via Assarotti.
Partecipava alla manifestazione della Rete Lilliput, era tra quelli che alzava in alto le mani dipinte di bianco urlando: "Non violenza!".

Gli agenti e i loro capi avrebbero poi raccontato che stavano dando la caccia ad un gruppo di Black Bloc, che c'era una gran confusione e qualcuno tirava contro di loro le molotov, che non era possibile distinguere tra "buoni" e "cattivi": bugie smascherate nel corso del processo, come sottolineato dal giudice. I cattivi c'erano per davvero, ed erano i poliziotti che a bastonate aprirono una vasta ferita sulla fronte della pediatra triestina. Dal momento che quegli agenti, come in buona parte degli episodi legati al vertice, non sono stati identificati, Angela Latella ha deciso di condannare il Ministero dell'Interno. La cifra che verrà pagata a Marina Spaccini non è certo clamorosa - cinquemila euro tra invalidità, danni morali ed esistenziali - , ma il punto è evidentemente un altro.

«Se risulta chiaramente che la Spaccini sia stata oggetto di un atto di violenza da parte di un appartenente alle forze di polizia - scrive il giudice - , non si può neppure porre in dubbio che non si sia trattato né di un'iniziativa isolata, di un qualche autonomo eccesso da parte di qualche agente, né di un fatale inconveniente durante una legittima operazione di
polizia volta e riportare l'ordine pubblico gravemente messo in pericolo».

Perché l'intervento della polizia non fu «legittimo», è ormai abbastanza chiaro. Lo hanno confermato i testimoni e in un certo senso gli stessi poliziotti e funzionari, con le loro contraddizioni: «Gli aggressori erano diverse decine; l'ordine era di caricarli, disperderli ed arrestarli», hanno detto, interrogati. Ma poi risulta che furono arrestati solo due ragazzi (non feriti), la cui posizione fu in seguito peraltro archiviata. La pacifista era assistita dagli avvocati Alessandra Ballerini e Marco Vano. Il giudice ha sottolineato come fotografie e filmati portati in aula «siano stati illuminanti»: «Si vedono ammanettare persone vestite normalmente; più poliziotti colpire con i manganelli una persona a terra, inerme. La stessa
Spaccini è una persona di cinquant'anni, di cui giustamente si sottolinea l'aspetto mite». E poi, le testimonianze come quella di una signora settantenne che parla di una «manifestazione assolutamente pacifica e allegra» e di aver quindi visto agenti «bastonare ferocemente persone con le mani alzate ed inermi come lei». Marina Spaccini ha accolto il giudizio con
un sorriso: «Era semplicemente quello che attendevo da sei anni. Giustizia».

http://criticamente.it:80/Article3167.html
http://www.gennarocarotenuto.it

Altre notizie su: MOVIMENTI E CAMPAGNE Nella rubrica: Denunce
Pubblicato a cura di Nicola Furini il 08 Mag 2007
1827 Letture

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Processi Diaz e Bolzaneto

Se va bene, saranno passati solo 7 anni alla conclusione del primo grado di giudizio! Tranquilli, nessuno degli imputati nei processi Diaz e Bolzaneto rischia di farsi nemmeno un secondo nelle patrie galere, grazie al condono ed alla prescrizione.

Nel frattempo i due governi che si sono succeduti dal mese di luglio 2001 uno di centro-destra, uno di centro-sinistra, non hanno trovato il tempo (non hanno avuto la benché minima intenzione) per approvare:

1)      la commissione d’inchiesta sui fatti di Genova e Napoli

2)      la legge sul reato di tortura

3)      l’abolizione dei gas CS dai lacrimogeni usati nelle piazze e negli stadi

4)      l’introduzione dei codici identificativi per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico

5)      una nuova legge per l’educazione democratica e non violenta delle forze di polizia

E nessuno, a quanto mi risulta, prevede di parlarne per la prossima legislatura. Non è qualunquismo credetemi, è solo nausea …

Le notizie sotto riportate sono pubblicate esclusivamente sulle pagine genovesi di Repubblica, il resto d’Italia non ha il diritto ad esserne informato.

Enrica Bartesaghi

“dato che tutti gli altri posti erano già occupati, ci siamo seduti dalla parte del torto” - Bertolt Brecht


lavoro repubblica

Dopo lo stop per la malattia di un giudice, si avvicina la resa dei conti per i soprusi nella caserma
G8, riparte il processo Bolzaneto Più lontana la prescrizione
Rifatto il calendario, sentenza in primavera

Una memoria di oltre mille pagine per documentare "gli orrori" del luglio 2001
L´estinzione del reato non scatterà in anticipo rispetto al giudizio di primo grado
MASSIMO CALANDRI

GRAZIE alla nuova tabella di marcia elaborata nei giorni scorsi dal presidente Renato Delucchi, il secondo dei maxi-processi del G8 si chiuderà entro la primavera. La sentenza per le violenze ed i soprusi nella caserma di Bolzaneto è infatti ragionevolmente attesa intorno alla metà di giugno. Il calendario delle udienze, che aveva subito un inatteso stop dovuto alle condizioni di salute di un componente del collegio, è stato rielaborato ed ha ottenuto l´approvazione di tutte le parti in causa. Si ricomincia venerdì con la requisitoria dei pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, che termineranno il loro intervento - dopo sei appuntamenti consecutivi - il 10 marzo. Poi toccherà alle parti civili e alle difese. L´ultima udienza è stata fissata per il prossimo 20 maggio, salvo errori ed omissioni. La camera di consiglio comincerà immediatamente dopo e ci sono buone ragioni per credere che possa pronunciarsi nel giro di un paio di settimane. La accelerazione nel procedimento non impedirà che da qui all´ultimo grado gli imputati possano godere della prescrizione. Ma se non altro il meccanismo - che nella maggior parte dei reati presi in considerazione si applica dopo sette anni e mezzo dai fatti - non scatterà già in anticipo rispetto alla prima sentenza. Questo avrà importanti ripercussioni soprattutto dal punto di vista civile. Quanto al penale, inutile farsi illusioni: già il condono regalava un bello sconto, da qui alla Cassazione potete scommettere che nessuno sarà privato della libertà personale per un solo minuto.
Quarantacinque imputati tra generali, funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, agenti, militari e medici: accusati a diverso titolo di abuso d´ufficio, violenza privata, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, falso, violazione dell´ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali. Le persone offese sono 209. Il processo aveva preso il via il 12 ottobre di due anni fa: le udienze sono state 157, in aula sono state ascoltate 392 persone (compresi 12 imputati). Gli accusati si sono sostanzialmente difesi sostenendo di non aver compiuto - e tantomeno visto compiere - nulla di illegale. I pm ritengono invece che la tesi accusatoria sia uscita pienamente rafforzata dal dibattimento. La loro requisitoria ricalcherà in larga parte quanto già denunciato in una esemplare memoria agli atti. Venerdì, Petruzziello e Ranieri Miniati introdurranno l´argomento ricordando quella che era l´organizzazione nel "centro di detenzione temporanea". Lunedì prossimo si parlerà dell´attendibilità delle vittime, martedì della qualificazione giuridica dei reati. Le udienze successive saranno dedicate alla responsabilità in generale e a quella dei vertici in particolare, poi al cosiddetto "livello intermedio" e agli esecutori materiali, ai falsi commessi nell´ufficio matricola, ai reati di medici e infermieri, per chiudere con le richieste di pena. Subito dopo i pubblici ministeri depositeranno una monumentale memoria di oltre un migliaio di pagine.

lavoro repubblica

LA NOVITÀ
Violenze alla scuola Diaz In autunno si chiude il cerchio

LA DISCUSSIONE nel processo Diaz, e cioè la parola ai pubblici ministeri - Francesco Cardona Albini, Enrico Zucca - per l´inizio la requisitoria è prevista per la metà del mese di maggio. Calendario alla mano, è possibile che il collegio - presieduto da Gabrio Barone - possa decidere entro l´autunno. Per il sanguinario assalto all´istituto scolastico di via Cesare Battisti, dove furono massacrati di botte ed arrestati illegalmente con prove fasulle 93 no-global, sono oggi imputati 29 tra agenti e super-poliziotti. Nell´attuale fase del procedimento la parola è soprattutto agli avvocati difensori, che stanno procedendo nell´interrogatorio dei testimoni da loro indicati. Le ultime udienze si sono svolte in un clima abbastanza inquietante perché farcito da mille «non ricordo». Si è parlato in particolare della seconda irruzione delle forze dell´ordine, quella compiuta «per sbaglio» alla scuola Pascoli, istituto che stava di fronte alla Diaz e ospitava il centro stampa del Genoa Legal Forum. I poliziotti picchiarono i presenti, e «per errore» sequestrarono i filmati girati sul blitz. Che non furono mai più ritrovati.

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G8, BOLZANETO: LA VIOLENZA DELL'INDIFFERENZA

Lo psicologo sociale Adriano Zamperini ci aiuta a comprendere cosa accadde in quei giorni in quella prigione.

"Percosse, minacce, sputi, risate di scherno, urla canzonatorie, insulti di ogni genere venivano rivolti, con evidente fine di disprezzo e intimidazione, «a mo' di saluto del comitato di accoglienza», alle persone arrestate, nel cortile antistante l'accesso alla caserma".
Questo e altro ancora si è verificato a Bolzaneto durante il G8 di Genova. I fatti di allora sono stati definiti dai pm in sede
processuale "estremamente gravi da realizzare un trattamento inumano e degradante, una violazione dei diritti dell'uomo, soprattutto per la sofferenza psicologica inflitta". Cosa accadde in quei giorni nelle menti degli agenti e dei sanitari ce lo spiega lo psicologo sociale Adriano Zamperini nel suo libro "L'indifferenza" fornendoci altresì l'opportunità di cogliere il significato di un'indifferenza che a tutt'oggi sembra regnare attorno ad un evento posto ai margini dell'informazione.

Brano tratto da: Adriano Zamperini, L'indifferenza.
Conformismo del sentire e dissenso emozionale (Einaudi, 2007).

Non riceverà alcuna assistenza sanitaria, almeno finché non vedrà doppio, non vomiterà e non si trascinerà per terra (pagg. 130-149)

Era il luglio 2001 quando "il G8 di Genova divenne uno degli eventi più osservati e scrutati della storia. Eppure non sono mancati luoghi interdetti a uno sguardo esterno. Uno di questi è la caserma di Bolzaneto. (...)
Percosse, minacce, sputi, risate di scherno, urla canzonatorie, insulti di ogni genere venivano rivolti, con evidente fine di disprezzo e di intimidazione, «a mo' di saluto del comitato d'accoglienza», alle persone arrestate, nel cortile antistante
l'accesso alla caserma. Colpi di manganello per impedire che qualcuno tra i feriti, con la testa sanguinante, potesse trovare momentaneo sollievo appoggiandosi a una parete, (...) Trattamenti vessatori, degradanti e disumani sia all'interno delle celle, ove le persone senza plausibile ragione erano costrette per parecchio tempo a mantenere posizioni umilianti e
disagevoli, sia nel corridoio, durante gli spostamenti e l'accompagnamento ai bagni. In simili tragitti, gli arrestati venivano
derisi, ingiuriati, colpiti e minacciati senza alcuna ragione dal personale che stazionava lungo il passaggio, disposto in modo da formare due ali ai lati dello stesso. (...)
Nonostante alcune di loro fossero visibilmente ferite, persone obbligate a rimanere per numerose ore in piedi, con il viso rivolto al muro della cella, braccia alzate o dietro la schiena; oppure sedute a terra, ma sempre con la faccia verso la parete, con le gambe divaricate e in altre anomale posizioni. Comunque non giustificate, non necessarie alla detenzione, e senza poter mutare postura. Costrette a subire ripetutamente percosse e violenze - come facce sbattute contro il muro o
sigarette spente sulle mani -, calci, pugni, insulti e minacce, anche nel caso in cui non riuscivano più per la fatica a mantenere la suddetta posa, nonché per farli desistere da ogni benché minimo tentativo - del tutto vano - di cercare una sistemazione meno disagevole. Una donna, rinchiusa in cella, avendo il ciclo mestruale, avanzò la richiesta di andare in bagno per cambiarsi; in risposta, attraverso le sbarre, le veniva gettata della carta appallottolata sul pavimento e quindi si vide costretta a sostituire l'assorbente in cella con dei pezzi di vestito, alla presenza di altri reclusi, uomini compresi. (...) Questa la parziale ricostruzione di quanto accadde nella caserma di Bolzaneto durante i giorni del G8 di Genova.
Eppure sufficiente per fotografare il rapporto instauratosi tra forze dell'ordine e manifestanti nel centro di detenzione temporanea. E se facessimo qualche passo più in là? Fuori dalle celle, per entrare nella stanza dove si curano le persone, ovvero l'infermeria? (...)
Qui, la persona detenuta si trasforma in paziente. Se durante l'arresto i corpi e l'io sono stati feriti e umiliati, nell'infermeria i corpi dovrebbero essere curati e l'io protetto. (...) Medici che hanno omesso e consentito l'omissione di visite di primo ingresso precise, dettagliate e complete, secondo i canoni della semeiotica medica, tali da consentire effettivamente l'accertamento di eventuali malattie fisiche e psichiche a danno degli arrestati. Non è stata prestata la dovuta attenzione,
propria della veste di sanitario, alle situazioni di sofferenza e disagio prospettate dai medesimi. Medici che hanno effettuato le visite sanitarie con modalità non conformi a umanità, così da non rispettare la dignità soggettiva. Gli stessi, hanno costretto, consentito o tollerato che le persone, completamente nude, stessero nell'infermeria oltre il tempo necessario per l'espletamento della visita. E, inoltre, che le donne rimanessero nude pure alla presenza di uomini. Che venissero osservate nelle parti intime e costrette più volte a girare su se stesse, in modo da sottoporle a un'intensa e grave umiliazione fisica e morale. Inoltre, sono stati ignorati e comunque tollerati comportamenti vessatori e scorretti commessi da altre figure presenti nell'infermeria.
Ad esempio, dando segni di approvazione o non disapprovando comportamenti di scherno posti in essere ai danni dei trattenuti in infermeria. Talvolta ridendo a scopo di dileggio durante scorrette azioni altrui. Non praticati i necessari interventi per evitare disagio e sofferenza, collegabili alla prolungata situazione di riduzione del movimento fisico, per la gravosa e inumana posizione sopportata nelle celle. Addirittura, i sanitari hanno insultato direttamente le persone visitate con espressioni quali «abile arruolato», «pronti per la gabbia», con toni di derisione e frasario di genere militare, al fine di
offendere la libertà morale anche in riferimento alla fede politica e alla sfera sessuale. Ad esempio, rivolgendo alle donne domande sulla loro vita sessuale con evidente fine di irrisione e senza necessità dal punto di vista sanitario. In pratica, i sanitari in servizio presso la caserma di Bolzaneto hanno violato la loro deontologia professionale, assistendo passivamente senza intervenire e senza impedire alcunché.
Dimostrando l'assenza di quella particolare sensibilità che dovrebbe invece essere propria del loro ruolo, soprattutto in tali frangenti.
Mancando altresì di manifestare qualsiasi forma di dissenso.
Addirittura, qualcuno ha oltrepassato il regno della medicina per indossare gli abiti consoni al regno dell'oppressione. (...) chi sa aiutare sa anche nuocere. La conoscenza dei processi fisiologici e psicologici può tradursi in pratiche di oppressione. E simili competenze sono assai appetibili.
Basti solo pensare alla tortura. Medici, psichiatri, psicologi, a più riprese, e in diversi contesti, hanno contribuito, direttamente o indirettamente, ai metodi di tortura.
Naturalmente, molti altri professionisti della cura si sono rifiutati di partecipare all'orrore.
Seppure con variegati ambiti d'azione, tutto questo colloca tali clinici in situazioni insieme pericolose e precarie.
Dove i dilemmi rispetto al proprio operato sorgono frequentemente.
Problemi resi ancora più marcati allorché ruoli diversi vengono impersonati dalla medesima persona. E perché si generi un problema è necessario che i ruoli implichino raccomandazioni opposte nella stessa sfera d'azione.
L'esempio prontamente disponibile è quello di un individuo che veste contemporaneamente i panni di medico e di militare.
Egli può così vivere un conflitto tra due registri emozionali che entrano in contraddizione. Che fare allora? O meglio, quali emozioni è appropriato esperire? Un conflitto del sentire noto come il problema della duplice lealtà: nei confronti dei pazienti e delle forze armate. E ben note sono anche le summenzionate pagine della storia in cui professionisti della cura sono stati artefici e complici di trattamenti inumani. Per questo motivo, linee di condotta e codici deontologici riaffermano che ogni medico deve principalmente essere interessato al benessere dei suoi pazienti e guidato dall'etica medica. Sicché non possono giustificare, favorire o partecipare alla tortura e ad altre pratiche degradanti. In tutte le situazioni, incluse le forze armate.
Allora, sebbene tale personale sia soggetto alla disciplina militare, non può comunque agire se non in accordo con i principî della professione.
Siamo di fronte a un vincolo di ruolo inteso come risorsa per fronteggiare eventuali derive disumane. Purtroppo non sempre in grado di mantenere quanto promesso. (...) Durante il G8 di Genova, lungo le strade, al pronto soccorso, nelle corsie d'ospedale, molti medici, infermieri e volontari si sono prodigati nell'assicurare assistenza e cura ai feriti. Le loro testimonianze documentano le molte difficoltà incontrate. Mentre dentro l'infermeria di Bolzaneto, l'operato dei loro colleghi era ben diverso. Diventa ora indispensabile guardare in faccia questi sanitari. (...) Sui loro volti si leggeva il monotono linguaggio di una totale indifferenza. (...) Facce impassibili e distaccate. (...)
L'indifferenza non consiste solamente nell'essere disimpegnati, ma anche nel non poter evadere dai copioni irrigiditi che dovunque vengono rappresentati per dovere." (...)

Recensioni all'opera:
http://www.sispa.it/recensione_lindifferenza.php
http://www.sispa.it/giornale_05.php 

fonte: www.sispa.it

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SE RIPARTISSIMO DA GENOVA...

Vittorio Agnoletto

Sono passati sette lunghi anni, ma alla fine in un'aula di tribunale un magistrato ha confermato quello che il Genoa social forum e tutto il movimento avevano sempre detto. Alla Diaz quella notte del 21 luglio 2001 vi fu un massacro. Un massacro, null'altro. Non vi fu alcuna sassaiola, alcuna provocazione, nè tanto meno alcuna cospirazione o reato associativo. Forse non sapremo mai il nome di chi ha massacrato nel sonno una ragazza poco più che ventenne e di chi ha ridotto in fin di vita il mediattivista Mark Cowell; i loro aguzzini si sono nascosti dietro l'anonimato di una divisa che avrebbe dovuto invece rappresentare per ogni cittadino una garanzia. La garanzia che chi ha scelto di «servire lo Stato» dovrebbe avere come primo obiettivo la difesa della libertà e dei diritti conquistati con la Costituzione.
Oggi sappiamo che non era così. Non solo. Coloro che, secondo i pubblici ministeri genovesi, ordinarono l'irruzione, coloro che costruirono le prove false, coloro che cercarono di contrastare le indagini con l'omertà e con l'induzione alla falsa testimonianza, sono stati tutti promossi. La nostra sicurezza, in nome della quale oggi si approvano leggi razziste e xenofobe, è nelle loro mani. E io non mi sento sicuro.
Il governo Berlusconi II prima fu il suggeritore e il regista di quelle violenze, poi ne premiò gli autori. Oggi il Berlusconi IV cerca di bloccare il processo attraverso un effetto non collaterale, ma pervicacemente ricercato, della norma salva premier. Tra un anno, quando forse il processo potrà riprendere se non si dovesse riuscire a salvarlo dalla mannaia del bloccaprocessi, le verità emerse avranno perso molto di quel drammatico realismo evidenziatosi dalle testimonianze ascoltate udienza dopo udienza per tanti anni. Sempre che il procedimento possa rincominciare e che nel frattempo non venga spostato un magistrato o non si verifichi qualche altro «casuale» intoppo.
Ma se siamo giunti a questo punto lo dobbiamo anche al governo Prodi, che ha sotterrato la commissione d'inchiesta e ha completato la promozioni dei soliti noti. Genova è una ferita che continua a sanguinare; la solitudine che respirammo in quelle giornate quando oltre il 90 per cento dello schieramento istituzionale fuggì davanti alle proprie responsabilità costituzionali, è più attuale che mai.
Allora, il 18 luglio 2001, sfilavamo a Genova coi migranti, vittime predestinate della violenza di una feroce globalizzazione liberista. Oggi con loro vediamo rinchiusa per 18 mesi nei Cpt ogni speranza di cercare una vita migliore e nelle impronte dei bambini raccolte in qualche schedario delle nostre prefetture abbiamo la triste conferma di quanto avessimo ragione. E forse siamo ancora un po' più soli, scomparsa quella rappresentanza istituzionale che allora seppe essere al nostro fianco e che negli anni seguenti non fu invece capace di capitalizzare la forza e la coerenza seminate in quelle giornate e rilanciate un anno dopo al social forum europeo di Firenze. Ma se c'è un punto dal quale possiamo e dobbiamo ripartire non c'è dubbio che quel punto ha un nome: Genova. Lì ci sentimmo comunità, insieme con tutte le nostre differenze, ma con la consapevolezza che potevamo dare un contributo affinché la storia dell'umanità non precipitasse in quella tragedia che oggi ci appare sempre più incombente.

 

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RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: GENOVA 2001

[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 luglio 2008 col titolo "Piu' delle molotov".
Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista.
Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005]

"I fatti addebitati minacciano la democrazia piu' delle molotov lanciate durante i cortei di quei giorni". Posso sbagliarmi, ma a mia memoria e' la prima volta che nell'aula di un tribunale si dice a chiare lettere, nella requisitoria di un pubblico ministero, che certi atti eversivi delle forze dell'ordine sono piu' pericolosi per l'assetto democratico dei gesti "sovversivi" di un movimento di contestazione. "I fatti addebitati" sono quelli perpetrati dagli agenti di polizia durante il massacro alla scuola Diaz di Genova la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001. Non c'e' bisogno di dire, dopo l'ignobile sentenza di una settimana fa sulle torture nella caserma di Bolzaneto, che nulla, ma proprio nulla ci fa sperare in una meno ignobile sentenza sulla carneficina della Diaz. Ma quelle parole della requisitoria restano, consegnate a una memoria che sta a noi, piu' che alle sentenze, tenere viva.
Ci piacerebbe averle sentite dire, o almeno riprendere con vigore, da una qualche forza politica, o da uno solo di quei politici che un giorno si' e l'altro pure, a sinistra e a destra e al centro, disquisiscono di giustizia avendo in testa soltanto le immunita' castali da una parte e la lotta alla microdelinquenza dall'altra. Ma la politica, non da oggi, su Genova tace, e anche quando ha parlato non ha mai capito, e quando ha capito ha voluto archiviare, il valore paradigmatico che quei due scempi della Diaz e di Bolzaneto avevano e hanno per le sorti del nostro stato di diritto. Forza bruta contro legalita'. Eccezione contro regola. Sospensione dei diritti fondamentali in uno spazio affrancato da ogni garanzia e ogni convenzione. A Genova non fu questione di un po' d'eccesso nella repressione di un movimento. A Genova fu sospeso lo stato di diritto, anzi, fu sperimentato che sospendere lo stato di diritto e' possibile, senza che il potere politico sia chiamato a risponderne e senza che ne paghi alcuna conseguenza.
Immunita' per tutte le alte cariche dello Stato, conquistata sul campo molto prima che in parlamento. Qui in Italia, un anno prima che il paradigma del campo, con annessa sospensione dei tribunali ordinari e istituzione di quelli speciali agli ordini dell'esecutivo, venisse glorificato in quel di Guantanamo.
Sono cose che abbiamo scritto piu' d'una volta, ma che non ci stancheremo di scrivere e di riscrivere ancora. Non solo perche' quello sfregio allo stato di diritto resti li', esposto alla coscienza pubblica, e non venga cancellato dai colpi di spugna e dai mucchietti di sabbia. Ma perche' c'e' qualcosa, nel regime della visibilita' politica e nel regime politico della
visibilita', che sistematicamente lavora a depistare l'attenzione e a distrarre la memoria. Di seduta in seduta parlamentare, di tg in tg, di prima pagina in prima pagina, la soap italiana gira e rigira su se stessa con poche variazioni sul tema, ed eccoci qua di nuovo alle prese, esattamente come ai tempi di Genova, con le vendette di Berlusconi contro i giudici, con i gesti trash di Bossi contro il tricolore, nonche' con i deboli argomenti dell'opposizione contro Bossi e contro Berlusconi. E' un teatro delle marionette che sistematicamente manda dietro le quinte e occulta tutto cio' che nel male e nel bene non fa parte della recita o la eccede e la sovrasta. Il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto sovrastarono, sette anni fa, la recita politico-mediatica sul G8 di Berlusconi e Fini - pur essendone, s'intende, autorizzati o almeno legittimati -, rivelando la sostanza della deriva di decostituzionalizzazione che la nostra democrazia aveva preso. Per questo segnale sostanziale e imprescindibile che mandavano bisognava velocemente derubricarli o rimuoverli; e per questa stessa ragione bisogna invece tenerli vivi nella memoria collettiva.
"Abbiamo memorie di farfalle ormai, altro che elefanti", ha scritto pochi giorni fa sul "Manifesto" Roberto Ferrucci - l'autore di Cosa cambia, uno dei libri che hanno raccontato Genova -, incerto se abbandonarsi al disincanto nei confronti di una politica in cui nulla cambia o affidarsi alla scrittura per mettere almeno a disposizione di altri l'indignazione. E
concludendo a favore della seconda ipotesi, perche' "le parole dei libri tengono vivo il sentimento dei fatti che raccontano, e rimangono per sempre". Piu' forti delle sentenze vili e finanche dei diritti negati.
Perfino a Guantanamo, al grado zero della sopravvivenza, ai bordi dello statuto dell'umano, sono nate delle poesie: scritte sulla carta, o scolpite nelle scodelle, ovunque la vita potesse lasciare il suo segno. A futura memoria.
 

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COMUNICATO STAMPA
CS148-2008

PROCESSO PER LE VIOLENZE ALLA SCUOLA DIAZ DI GENOVA: TREDICI FUNZIONARI DELLO STATO CONDANNATI IN PRIMO GRADO. IL COMMENTO DELLA SEZIONE ITALIANA DI AMNESTY INTERNATIONAL

Analogamente alla sentenza di primo grado sui fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto, quella emessa ieri sulle violenze nella scuola Diaz conferma che qualcosa di grave accadde a Genova nel luglio di sette anni fa.

Tredici funzionari dello Stato sono stati condannati per le brutalita´ commesse nei confronti di decine di persone inermi. Amnesty International vuole sottolineare che, se il processo e´ giunto a tale conclusione, cio´
si deve alla tenacia dei pubblici ministeri e al coraggio delle vittime, delle organizzazioni che le hanno sostenute e dei loro avvocati, che hanno preso parte a centinaia di udienze in un contesto nel quale si e´ piu´ volte cercato di aggirare l´obiettivo dell´accertamento della verita´.

Nonostante questo contesto, la sentenza di ieri afferma che, la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, un gruppo di agenti di polizia e un loro dirigente si sono resi responsabili di violenze brutali e gratuite all´interno della scuola Diaz.

Amnesty International chiede ai vertici di polizia come intendano commentare questa parte della sentenza.

Occorrerebbe chiedersi se una sentenza diversa, nella quale fossero state accertate ulteriori responsabilita´ penali nella catena di comando, avrebbe potuto essere favorita da un diverso comportamento delle autorita´ italiane che mai, in questi sette anni, hanno voluto contribuire alla
ricerca della verita´ e della giustizia. In questi anni non abbiamo sentito una parola forte di condanna per il comportamento tenuto dalle forze dell´ordine nel luglio 2001, non c'e´ stata una commissione d'inchiesta, non si e´ risolto il problema dell'identificazione dei funzionari delle forze dell'ordine, non sono stati istituiti organi di
monitoraggio indipendenti ne´ meccanismi correttivi interni.

Davanti a questo quadro preoccupante, pesano le condanne e pesano le assoluzioni. Amnesty International valutera´ le une e le altre con maggiore dettaglio nel momento in cui saranno note le motivazioni della sentenza.

FINE DEL COMUNICATO
Roma, 14 novembre 2008

Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia - Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 - cell. 348-6974361, e-mail press@amnesty.it
 

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IMPUNITÀ DI STATO

Con la sentenza sui fatti della scuola Diaz, si è persa l’occasione di rendere giustizia della /più grave rottura di un ordinamento democratico dal dopoguerra ad oggi/ (Amnesty).

Se la sentenza di Bolzaneto aveva deluso molti per il riconoscimento della responsabilità solo di alcuni dei funzionari e graduati presenti nella struttura carceraria, un merito quantomeno lo ha avuto, perché la condanna per abuso di ufficio (reato sotto il quale in assenza di uno specifico reato di tortura erano stati ricondotti i trattamenti inumani e degradanti) del dirigente della polizia Penitenziaria Biagio Gullotta, ha quantomeno contribuito a rendere la verità storica di quanto accaduto a Bolzaneto: solo uno ne risponde, ma vi fu tortura.

Molto diverso è il quadro che ci restituisce la sentenza della Scuola Diaz.

Il Tribunale ha accertato la sussistenza del reato di lesioni condannando i capireparto del VII Nucleo guidato da Vincenzo Canterini.

Ha anche accertato che le bottiglie molotov erano delle prove false introdotte nella scuola da un agente di polizia, al solo scopo di calunniarne gli occupanti.

Canterini è stato anche riconosciuto colpevole di falso e calunnia, per aver dato atto nella sua relazione di servizio di avere incontrato una forte resistenza da parte degli occupanti all’interno della scuola.

Questa sentenza, se da un lato restituisce dignità a 93 persone ingiustamente incolpate per associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio (accusa definitivamente archiviata oltre tre anni dopo nel Dicembre 2004), è evidente che dall’altro non è stata in grado di accertare fino in fondo le responsabilità che coinvolgevano i vertici della Polizia italiana rappresentate ai massimi livelli (Gratteri, Luperi, Caldarozzi), che si trovavano sul posto accanto a Canterini, nel cortile della scuola ed al suo interno, e che sarebbero rimasti ignare vittime delle menzogne loro raccontate
dal loro collega.

I funzionari che hanno redatto e sottoscritto i verbali di arresto contenenti dichiarazioni non veritiere sarebbero dunque stati indotti in errore dalla relazione di Canterini e non erano coscienti al momento della sottoscrizione del verbale che quelle circostanze non erano vere.

Trattasi di una forzatura evidente, perché quei funzionari erano presenti sul posto, non si trovavano a casa, in caserma, in un’altra città.

Hanno seguito l’operazione dall’inizio alla fine, la hanno programmata, diretta, giustificata

Segno evidente della forzatura interpretativa del Tribunale è l’aver dichiarato la relazione di servizio di Canterini falsa solo nella parte in cui riferisce della resistenza all’interno della scuola, e non in quella che riferisce del lancio di oggetti sulle FO che si trovavano fuori dalla scuola.

Questo perché il "/fittissimo lancio di oggetti di ogni genere"/ dalle finestre della scuola, di cui si parla nel verbale di arresto, non poteva non essere oggetto di percezione diretta anche da parte degli altri funzionari che si trovavano fuori dalla scuola; non sarebbe stato possibile scaricare la responsabilità anche di questa falsità su informazioni riferite da terzi e sarebbe stata inevitabile la condanna anche di costoro.

Peraltro nel corso del processo nessuno degli imputati si è difeso indicando “da chi” avrebbe ottenuto le notizie false riportate sul verbale di arresto.

Sono inoltre risultate false molte delle ulteriori circostanze riportate nel verbale di arresto, che non possono in alcun modo essere attribuite a Canterini, quali il fatto che la scuola fosse piena di armi di ogni genere (rivelatesi attrezzi del cantiere edile ivi presente o le stecche di metallo degli zaini degli occupanti estratte dagli stessi agenti), o piuttosto l’attestazione che la scuola fosse /l’indispensabile supporto logistico per rendere attuabile il comune programma associativo realizzato attraverso la consumazione dei delitti di devastazione e saccheggio… anche attraverso l’uso di armi
da guerra, luogo destinato ad accogliere i vertici delle “tute nere/”.

E’ evidente che questi ufficiali, tutt’altro che inesperti, non possono essere stati ingannati dai loro sottoposti, è evidente che chi ha compilato e sottoscritto i verbali di perquisizione ed arresto era perfettamente cosciente di tale falsità.

Sono inoltre emersi nel corso del giudizio elementi sufficienti per poter considerare quell’operazione di Polizia del tutto premeditata, nelle sue modalità, nelle sue conseguenze, originata da un pretesto inesistente quale l’aggressione ad una pattuglia della polizia poche ore prima dell’intervento.

Altrettanto insoddisfacente è l’assoluzione del dr. Gava, comandante del reparto che ha guidato senza alcuna giustificazione la perquisizione nella scuola di fronte, la Pascoli dove si trovava la sede operativa del GSF (l’ingresso sarebbe avvenuto /per errore/); il dr. Gava era accusato di aver perquisito arbitrariamente le persone ivi presenti, di aver sottratto con la violenza materiale video, distrutto e danneggiato computer, aver costretto gli occupanti a stare seduti faccia al muro per non vedere quello che succedeva alla scuola Pertini. Tutto questo per il Tribunale non costituisce reato o non è imputabile al responsabile del reparto che conduceva le operazioni.

Ancora una volta lo Stato ha dimostrato di non saper giudicare se stesso, ancora una volta è emersa la debolezza dei principi cardine dello Stato di Diritto, per i quali il potere giudiziario dovrebbe costituire argine e limite agli abusi del potere esecutivo.* **Una sentenza che dimostra il clima di intimidazione nei confronti dei poteri di garanzia, che sta comprimendo significativamente la tutela dei diritti fondamentali.***

avv. dario rossi difensore parte civile Genoa Social Forum e altre parti civili

Oggi aggiungerei anche queste considerazioni.
1) La sentenza ha accertato danni valutati in via provvisoria (lasciando quindi aperta la strada di una azione civile per il
risacimento dei danni integrali) nei seguenti importi:
per 4 persone 50 mila euro
per 18 persone 30 mila euro
per 5 persone 15 mila euro
per 45 persone 5 mila euro (la liquidazione base per chi non ha avuto danni fisici di rilevante entità importo del tutto irrisorio) .
87 persone hanno ottenuto un risarcimento di 5000 euro per le calunnie dovute alle false accuse per la resistenza e le molotov.
sono risarcimenti che per importi e numero di persone coinvolte rendono l'idea di quanto devastante sia stata l'aggressione della Polizia, considerando anche che è durata lo spazio di pochi minuti.
Rendono ancor più stridente il contrasto tra la condanna del VII Nucleo di Canterini e l'assoluzione degli altri ufficiali presenti a pochi metri, che si sarebbero lasciati ingannare dalle menzogne di Canterini.

2) Nella setnenza vi sono evidenti lacune, tanto che sembra che il collegio non si sia reso conto che le parti civili GSF e FNSI si erano costituite per tutti i reati contestati sia per la pascoli che per la Pertini. Il dispositivo della sentenza nel condannare per i soli reati della Pertini non menziona queste parti civili (neanche per escluderle dal risarcimento) perchè con ogni probabilità ha valutato che si fossero costituite solo per la Pascoli. Il che denota quantomeno una lettura superficiale e frettolosa di parte degli atti processuali.

3) Scarsissima considerazione è stata data al lavoro delle parti civili tanto che per un processo durato 4 anni sono state liquidate parcelle agli avvocati che corrispondono approssimativamente a quelle che si liquidano in una causa per sinistro stradale che non dura più di 10 udienze, con due parti processuali. Questo è un processo di oltre 130 udienze della durata di almeno 4 ore l'una, con 30 imputati, centinaia di parti civili e moltissimi reati contestati. Le liquidazioni sono state quasi offensive, (per la presenza in udienza a mezzo sostituto sono state riconosciute per esempio 18 euro ad udienza).

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COMUNICATO STAMPA DI VITTORIO AGNOLETTO

DE GENNARO ASSOLTO
AGNOLETTO: «SENTENZA AMPIAMENTE PREVEDIBILE:
VERTICI DELLE FORZE DELL'ORDINE E DELLO STATO INTOCCABILI.
IL PREMIER DOCET...LA LEGGE NON È UGUALE PER TUTTI»

Milano, 7 ottobre 2009 - «Era prevedibile l'assoluzione di uno degli uomini più potenti d'Italia, depositario di molti dei segreti della storia del nostro Paese negli ultimi 25 anni, sempre sostenuto dalla stragrande maggioranza degli schieramenti politici, a destra come a sinistra (e le felicitazioni "bipartisan" espresse in queste ore lo dimostrano.) ». Così Vittorio Agnoletto, ex portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8 di Genova, commenta l'assoluzione dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e dell'ex capo della Digos Spartaco Mortola nell'ambito del processo per le violenze alla scuola Diaz.

«Non a caso De Gennaro è stato nominato, tra l'altro, commissario straordinario per l'emergenza rifiuti dal governo di centrodestra nel 2008 ma anche capo di gabinetto del ministero dell'Interno da Giuliano Amato nel 2007.

Forse era davvero utopico, con il pesante clima intimidatorio che si respira in Italia, aspettarsi che un solo giudice si assumesse la responsabilità di condannare il direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza.

Singolare poi l'applicazione preventiva del ddl intercettazioni, che diedero tra l'altro avvio proprio a quest'inchiesta: i giudici le hanno ignorate, come se quelle conversazioni non avessero mai avuto luogo! Altrimenti la sentenza odierna rimarrebbe incomprensibile....

La posta in gioco in questo processo era effettivamente molto alta: riconoscere la responsabilità di De Gennaro nell'inviare Roberto Sgalla, allora portavoce della Polizia, alla Diaz quella notte, sarebbe stato come riconoscere che l'ex capo della Polizia era al corrente, dunque corresponsabile, di quanto stava accadendo. E per la prima volta nei processi genovesi si sarebbe individuata una responsabilità giudiziaria e quindi anche politica nei vertici delle forze dell'ordine. Un simile risultato avrebbe automaticamente coinvolto in tale responsabilità l'attuale governo. L'assoluzione di De Gennaro, non a caso, evita tutto questo. E l'esecutivo Berlusconi ne esce, ancora una volta, sano e salvo...».

Vittorio Agnoletto, ex portavoce Genoa Social Forum ai tempi del G8 di Genova, nel luglio 2001

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G8, VIOLENZE ALLA BOLZANETO "VESSATI E TORTURATI IN CASERMA"

Fonte: http://genova.repubblica.it/cronaca/2011/04/15/news/g8_violenze_alla_bolzaneto_depositate_i_motivi_della_sentenza-14969887/

G8, violenze alla Bolzaneto "Vessati e torturati in caserma"

Il dispositivo dei giudici di secondo grado inflisse 44 condann. Nella caserma, durante il G8 dell'estate 2001, i no-global furono picchiati, umiliati, sottoposti a "trattamenti inumani e degradanti"

di MASSIMO CALANDRI

Pare un romanzo dell'orrore, e invece è tutto vero. La sentenza con cui la seconda sezione della Corte d'Appello di Genova motiva la condanna dei 44 imputati per le violenze e i soprusi nella caserma di Bolzaneto, il carcere provvisorio del G8, si legge con emozione e ribrezzo. Sono 647 pagine che ripercorrono tre giorni e tre notti di tortura, ricostruendo le atrocità morali e fisiche commesse dagli uomini di legge attraverso le testimonianze delle loro vittime. E' successo solo dieci anni fa, anche se qualcuno vorrebbe che ce lo togliessimo dalla testa. Soprattutto, è successo. Le botte, le umiliazioni, la negazione sistematica dei diritti, i "trattamenti inumani e degradanti". 

IL DOCUMENTO I motivi della sentenza (pdf, 600 pag)

Sono tutti colpevoli: generali della polizia penitenziaria, guardie carcerarie, ufficiali dell'Arma e militari, agenti e funzionari di polizia, persino quattro medici. La maggior parte dei reati è prescritta, ma i responsabili pagheranno comunque risarcendo le vittime delle violenze. E con loro metteranno mano al portafogli anche i ministeri di appartenenza (Giustizia, Interno, Difesa), che dovrebbero sborsare una cifra superiore ai dieci milioni di euro. Avrebbero già dovuto farlo, ma sul G8 lo Stato continua a fare violenza: negando le proprie colpe e rifiutandosi di pagarle. Le vittime a questo punto cominceranno a pignorare i beni delle forze dell'ordine: e vedremo se finalmente si decideranno ad obbedire, tacendo per la vergogna. Il documento vergato dal consigliere Roberto Settembre, che insieme a Paolo Gallizia componeva la giuria presieduta da Maria Rosaria D'Angelo, racconta le cose come furono: ce ne sarebbe abbastanza per farlo diventare un testo di storia da inserire nei programmi scolastici.

"Una galleria degli orrori, che a leggerla tutta di un fiato fa davvero male", commenta Emanuele Tambuscio, avvocato di alcuni dei 252 no-global passati allora per la caserma di Bolzaneto. "Nell'introduzione i giudici si soffermano sul reato di tortura, che è entrato nel nostro ordinamento attraverso alcune Convenzioni internazionali. E spiegano come i fatti furono così conclamati e prolungati nel tempo che era impossibile non accorgersi di quanto stava accadendo". Non la pensa così un altro legale, Nicola Scodnik, difensore di un poliziotto (Massimo Pigozzi) condannato per aver letteralmente strappato la mano - divaricandone le dita - ad uno dei fermati, è una "sentenza suggestiva, approssimativa. Dimostra un affidamento incondizionato alla versione delle presunte vittime, senza fare alcuno sforzo per riequilibrare con la logica le tesi difensive". Non è così, sostiene la corte. "E questa sentenza è la cattiva coscienza di un paese intero", commenta l'avvocato Riccardo Passeggi. 

"Tre giorni di violenze inconcepibili in qualsiasi Stato di diritto, nei confronti dei quali si cerca di operare una sorta di rimozione collettiva. Però i fatti sono lì, e non se ne vanno: sono i diritti violati, le sevizie, sono quelle cose che gli italiani pensavano di essersi lasciati alle spalle più di mezzo secolo fa, e invece ritornano pericolosamente. Ma noi non dimentichiamo".

(15 aprile 2011)
 

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LE TORTURE DI BOLZANETO

Fonte: http://www.ilpost.it/2011/04/15/le-torture-di-bolzaneto/
Le torture di Bolzaneto
L'elenco delle angherie subite dalle persone fermate durante il G8 di Genova, nelle motivazioni depositate oggi dai giudici

15 aprile 2011

Sono state depositate oggi le motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di 38 delle 44 persone condannate in appello lo scorso marzo per quanto accaduto nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova, nel luglio 2001. Sono generali della polizia penitenziaria, guardie carcerarie, ufficiali dell’Arma, militari, agenti e funzionari di polizia, medici, responsabili dei maltrattamenti e delle torture inflitte alle persone fermate e arrestate durante le manifestazioni di protesta occorse in quei giorni. La maggior parte dei reati è caduta in prescrizione, ma i responsabili – e i ministeri di appartenenza – dovranno comunque pagare dei risarcimenti danni alle famiglie delle persone maltrattate. Le motivazioni, contenute in ottocento pagine suddivise in sette sezioni, elencano e descrivono tutto il campionario delle aberrazioni che dovettero subire le persone fermate.

Insulti e percosse all’arrivo degli arrestati da parte di assembramenti di varie forze di polizia, ma non con sistematica frequenza, come detto da diverse parti offese; posizione vessatoria, (in piedi, gambe divaricate e braccia alzate diritte sopra la testa) nel cortile, contro il muro della palazzina delle celle, contro la rete di recinzione del campo da tennis o nei pressi della palazzina delle fotosegnalazioni; passaggio nel corridoio tra due ali di agenti di varie forze che percuotevano con schiaffi e calci, sgambettavano, ingiuriavano e sputavano; posizione vessatoria in cella o in ginocchio col viso alla parete, per 10, 18 o 20 ore, senza riposarsi o sedersi se non per pochi minuti; la posizione vessatoria della “ballerina”, sulla punta dei piedi o su un a gamba sola e far stare per ore con le mani strette nei laccetti di plastica; provata l’imposizione di tali posizioni anche a persone ferite o in menomazione fisica; provate le percosse al corpo compresi i genitali con le mani coperte da pesanti guanti di pelle, o con i manganelli, in tutti i locali per costringere alla posizione vessatoria, senza motivo o perché i soggetti avevano chiesto un magistrato o un avvocato o di andare in bagno o di conoscere il motivo del fermo o dell’arresto; provati spruzzi di sostanze urticanti o irritanti nelle celle; provati insulti a fondo sessuale, razzista; a contenuto politico; provate minacce di percosse o di morte, di stupro; provata la costrizione a pronunciare frasi lesive della propria dignità personale e frasi e inni al fascismo al nazismo e alla dittatura di Pinochet; provato il taglio forzato dei capelli e la distruzione di oggetti personali; provate le lunghe attese prima di andare in bagno e costrizione dei soggetti a urinarsi addosso; provata la “marchiatura” sul volto con pennarello degli arrestati della scuola Diaz.

L’inesistenza in Italia del reato di tortura ha reso le pene più lievi di quanto sarebbero state in molti altri paesi europei. Nonostante la ratifica della convenzione dell’ONU che vieta la tortura risalga al 1987, in quasi venticinque anni l’Italia non si è ancora dotata di una legge. Una legge era stata approvata alla Camera nel dicembre del 2006, durante il governo Prodi, ma non fu mai definitivamente varata dal Senato.

 

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DIAZ, IL PROCURATORE GENERALE IN CAMPO "SUBITO IN CASSAZIONE O SARÀ PRESCRITTO"

Diaz, il procuratore generale in campo "Subito in Cassazione o sarà prescritto" Luciano Di Noto scrive al presidente della Corte d'Appello per sbloccare l'iter. Il fascicolo è fermo da sette mesi a causa di lungaggini burocratiche

di MARCO PREVE

Il Procuratore Generale Luciano Di Noto scrive al presidente della Corte d'Appello Mario Torti: "Sbloccate il fascicolo Diaz e mandatelo in Cassazione prima che sia troppo tardi".
Ci sono processi che rischiano di annegare nella prescrizione, anche senza l'intervento delle leggi mirate del governo Berlusconi.

Sta capitando per uno dei casi giudiziari più importanti della storia italiana: il processo per l'irruzione alla scuola Diaz durante il G8 del 2001. Contro la sentenza di secondo grado che, nel maggio del 2010, aveva decretato le clamorose condanne di tutti gli imputati - e tra questi alcuni dei più importanti poliziotti italiani - , poteva essere presentato ricorso entro il mese di ottobre 2010. In quella data tutte le parti interessate - i difensori degli imputati e la pubblica accusa - avevano depositato le loro istanze per ottenere il pronunciamento dalla Suprema Corte. Ma, sei mesi dopo, l'intero incartamento è ancora fermo nella cancelleria della Corte d'Appello. Un ritardo che, al di là delle pur legittime motivazioni (ad esempio le notifiche a 27 imputati residenti in varie città italiane, seppur molti domiciliati presso i loro legali), rischia di ridurre ulteriormente quella già ristretta forbice temporale, che potrebbe garantire la sentenza definitiva dalla scure della prescrizione.

Sarebbe, infatti, paradossale che un processo come questo non avesse ancora una sentenza definitiva a dieci anni dagli avvenimenti oggetto dell'inchiesta. Perché se è vero che la fase d'indagine si è dovuta scontrare con le lentezze derivanti dalla complessità del caso - e dall'atteggiamento omertoso, secondo la stessa definizione degli inquirenti, degli indagati e dei loro colleghi-, essere arrivati ad un passo dal capitolo conclusivo e vederlo sfumare non per colpa di un atto politico bensì a causa delle lentezze burocratiche, non potrebbe che essere un'amara sconfitta per l'intera magistratura.

Basta, infatti, soffermarsi su un elemento per capire quanto sia concreto il pericolo. Dei due reati non ancora prescritti (falsi e lesioni gravi) il falso si prescriverà agli inizi del 2013 e considerata la delicatezza della vicenda e possibili intoppi e lungaggini in corso d'opera, un anno potrebbe non bastare alla Cassazione per pronunciarsi. La sentenza d'appello, che aveva ribaltato quella assolutoria di primo grado, aveva comminato pene complessive per 85 anni di carcere per 25 dei 27 imputati tra i quali Francesco Gratteri, attuale capo dell'Anticrimine e Giovanni Luperi, capo del Dipartimento di analisi dell'Aisi (ex Sisde).

Tra l'altro, il pronunciamento definitivo dovrà affrontare una questione molto importante per il nostro Paese sollevata dal ricorso della procura, anzi a ben vedere, il suo motivo principale. E cioè la richiesta alla Suprema Corte di stabilire che, come decretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti umani, i reati di tortura o maltrattamento, ai quali possono essere parificate le azioni compiute da alti funzionari nella scuola Diaz, "non siano - scrissero i sostituti Enrico Zucca e Franco Castaldi nel documento firmato anche dal procuratore generale Luciano Di Noto - soggetti a prescrizione e che non sia possibile concedere amnistia o condono".

(24 aprile 2011)

Fonte: http://genova.repubblica.it/cronaca/2011/04/24/news/diaz_il_procuratore_generale_in_campo_subito_in_cassazione_
o_sar_prescrizione-15335012/

 

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DIAZ, RICORSO IN CASSAZIONE PER DE GENNARO E MORTOLA

Diaz, ricorso in Cassazione per De Gennaro e Mortola

Genova - Ricorso in Cassazione contro la sentenza d’appello per il prefetto, Gianni De Gennaro, e per l’ex capo della Digos di Genova, Spartaco Mortola, che nel giugno del 2010 erano stati condannati rispettivamente a un anno e 4 mesi il primo e un anno e 2 mesi il secondo perché accusati di aver istigato alla falsa testimonianza l’ex questore di Genova, Francesco Colucci, durante il processo per l’irruzione della polizia nella scuola Diaz durante il G8 del luglio 2001. 
In primo grado, nel processo con rito abbreviato, entrambi erano stati assolti perché, secondo il gup, «non c’erano prove sufficienti di colpevolezza».  I fascicoli del ricorso sono stati trasmessi alla Cassazione in attesa che sia fissata l’udienza. Gianni De Gennaro è difeso dagli avvocati Carlo Biondi del foro di Genova e Franco Coppi di Roma, mentre Mortola è assistito dall’avvocato Piergiovanni Iunca e dal professor Giovanni Aricò del foro romano.  È ancora in corso il processo di primo grado a carico di Francesco Colucci, che viene giudicato con rito ordinario per falsa testimonianza.

Fonte: http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2011/04/26/AOoKqZP-gennaro_ricorso_cassazione.shtml

 

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COMUNICATO STAMPA: UN FILM SULLA DIAZ COL CAPO DELLA POLIZIA?

Genova 16 maggio 2011. Apprendiamo dai media che la casa di produzione Fandango sta per cominciare le riprese di un film sulla notte della Diaz, la violenta irruzione della polizia di stato del 21 luglio 2001 conclusa con decine di persone ferite, 93 arrestate sulla base di prove false e sfociata in 25 condanne in secondo grado per funzionari e altissimi dirigenti di polizia.

Domenico Procacci, fondatore della Fandango, ha informato di avere inviato al capo della polizia una copia della sceneggiatura e di essere in attesa di incontrarlo.

Ne siamo sorpresi e preoccupati, perché Procacci non ha fatto altrettanto con noi, nonostante contatti e sollecitazioni. Eppure siamo stati coinvolti personalmente, o con i Comitati che rappresentiamo, nella vicenda Diaz e in tutte le inchieste e i processi seguiti al G8 di Genova del 2001.

Fandango è naturalmente libera di agire come crede, ma siamo sconcertati dalla sua scelta di mostrare preventivamente la sceneggiatura al capo della polizia e non a chi fu vittima delle violenze degli agenti quella notte.

Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova, autore di “Noi della Diaz” (cell. 3803906573)

Enrica Bartesaghi, presidente Comitato Verità e Giustizia per Genova

Vittorio Agnoletto, ex portavoce Gsf, autore con Lorenzo Guadagnucci di “L’eclisse della democrazia” (cell.3356356978)

Haidi e Giuliano Giuliani, Comitato Piazza Carlo Giuliani
 

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G8, SI FARÀ IL FILM SULLA DIAZ. LA CONFERMA DATA A CANNES

Fonte: http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2011/05/15/AOv7DIU-conferma_cannes_sulla.shtml

Cannes - È un film “tabù”, «su una pagina di storia italiana che non piace a nessuno, ma che dopo 10 anni va raccontata per non dimenticare»: “Diaz - Non pulire questo sangue (Don’t clean up this blood)”, il film sulla notte buia e sanguinosa tra il 21 e il 22 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8 di Genova, finalmente si farà. Il produttore, Domenico Procacci
(Fandango), che lo insegue da tempo, ha confermato la notizia.

Questa mattina, Procacci ha spiegato di avere chiuso a Cannes gli accordi internazionali: realizzerà il film con un budget di 7 milioni di euro, finanziandolo con i francesi di Le Pacte (gli stessi con cui ha prodotto “Habemus Papam”, di Moretti) e i romeni di Mandragora. Daniele Vicari incomincerà le riprese a Genova a giugno. Il cast, per raccontare l’assalto dei 300 del VII Nucleo alla scuola Diaz dove dormivano 93 ragazzi, la notte di repressione con la triste «macelleria messicana», come la definì il vice dirigente del reparto mobile di Roma, Michelangelo Fournier, al processo, è internazionale, così come “multilinguistico” sarà il film.

Tanti i protagonisti da annunciare: Elio Germano nel ruolo del giornalista del Resto del Carlino, Lorenzo Guadagnucci, picchiato nella Diaz quella notte di luglio; Claudio Santamaria, che farà Michelangelo Fournier, che sebbene con ritardo disse «basta» alle violenze, temendo l’irreparabile; Rolando Ravello, Alessandro Roja, Pippo Del Bono, Paolo Calabresi, Pietro Ragusa e poi ancora la tedesca Jennifer Ulrich e la romena Monica Barladeanu.

«Il film sarà completamente basato sugli atti del processo, senza grandi invenzioni, se non quelle che servono per trasformare le testimonianze in materiale narrativo per il cinema - ha spiegato Domenico Procacci - Ma non farà vedere l’aula di tribunale dove dopo i primi due gradi di giudizio siamo in attesa ora del terzo e definitivo. Nei titoli del film contiamo di mettere come è andata a finire».

In primo grado i vertici della polizia, Gianni De Gennaro, Francesco Gratteri, Giovanni Luperi e Gilberto Caldarozzi, erano stati assolti, così come il capo della Digos di Genova, Spartaco Mortola, mentre il capo del Settimo reparto della Mobile, Vincenzo Canterini, era stato condannato a quattro anni di reclusione e il suo vice, Michelangelo Fournier, a due
anni. Nell’appello la prima sentenza (accolta al grido di «vergogna, vergogna») è stata ribaltata, e De Gennaro e Mortola sono stati condannati, rispettivamente, a un anno e 4 mesi e a un anno e 2 mesi, perché accusati di aver istigato alla falsa testimonianza l’ex questore di Genova, Francesco Colucci, durante il processo. Ora si attende l’esito del ricorso in Cassazione.

«Non è un film schierato, racconta quello che è successo lì dentro e i fatti sono fatti. Non è contro la polizia, anzi sarei contento se collaborasse. Sono in attesa di incontrare il dottor Manganelli al quale ho fatto avere la sceneggiatura», ha detto ancora Procacci. Ci sono stati ostacoli per avviare il progetto? «Ho tentato di comportarmi come fosse un film normale, non mi sono mosso in maniera clandestina. Mi sono reso conto, però, che è un film da cui tutti vogliono restare lontani: sia i tradizionali investitori cinematografici, come le reti televisive, sia le banche. Sono andato avanti lo stesso, ho deciso di farlo cercando i fondi europei e italiani, ancora senza riuscirci, ma intanto vado avanti. Potevo fare un film molto piccolo, oppure andare all’estero, come ho fatto: sarà un film corposo, c’è tanto da raccontare, e deve risultare evidente la sproporzione che ci fu tra i poliziotti e i ragazzi».

Procacci conta di andare avanti anche con il film su Carlo Giuliani, morto durante il G8: «Ci sta lavorando Stefano Mordini, racconterà il tentativo vano dei genitori di Giuliani di avere un processo per la morte del figlio».
 

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IL FILM SUL G8 FA LITIGARE LA SINISTRA. I NO GLOBAL INFURIATI COL PRODUTTORE

Fonte: http://www.ilgiornale.it/spettacoli/il_film_g8_fa_litigare_sinistra_i_no_global_infuriati_produttore/18-05-2011/articolo-id=523893-page=0-comments=1

Qualche settimana fa il Giornale anticipava la preparazione di un film destinato ad aprire molte polemiche, quello sulla funesta irruzione della polizia nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001 che nel secondo grado di giudizio ha visto la condanna di 25 imputati su 28. Bene, non è trascorso nemmeno un mese che l’annuncio a Cannes del produttore Domenico Procacci della Fandango dell’imminente inizio delle riprese di Diaz - Non pulire questo sangue (dalla scritta lasciata sulle pareti della scuola) diretto da Daniele Vicari ha già sollevato un grande polverone. Con un piccolo particolare però. A mettere i bastoni tra le ruote non è stata la polizia o magari qualche politico del centrodestra al governo all’epoca dei fatti, bensì gli stessi familiari di Carlo Giuliani (il ragazzo morto durante gli scontri a piazza Alimonda) insieme a Lorenzo Guadagnucci ed Enrica Bartesaghi del Comitato Verità e Giustizia per Genova e all’immancabile Vittorio Agnoletto ex portavoce del Genoa Social Forum. Un fuoco di fila da sinistra che ha spiazzato lo stesso Procacci il quale peraltro proviene proprio da quell’area politica anche se un po’ più chic (per dire, il suo ritratto a firma Annalena Benini su il Foglio inizia così: «Di sinistra, ma fico»). Motivo del contendere? Il fatto che il produttore abbia inviato la sceneggiatura, scritta da Daniele Vicari e Laura Paolucci, direttamente al capo della Polizia Manganelli. Apriti cielo! «Siamo sorpresi e preoccupati, perché Procacci non ha fatto altrettanto con noi, nonostante contatti e sollecitazioni. Fandango è naturalmente libera di agire come crede, ma siamo sconcertati dalla sua scelta di mostrare preventivamente la sceneggiatura al capo della polizia e non a chi fu vittima delle violenze degli agenti quella notte», firmato i nomi di cui sopra. A stretto giro la precisazione del produttore: «È un malinteso. Il capo della polizia non è chiamato ad analizzare un progetto.
Ho cercato un incontro diretto con lui per informarlo: non è per un parere, un’autorizzazione o avere un semaforo verde. Mentre frequenti sono stati i contatti con coloro che manifestavano a Genova in quei giorni», conclude Procacci che si dice comunque pronto ad incontrare i firmatari della nota. Meglio tardi che mai? Lorenzo Guadagnucci, del Comitato Verità e Giustizia per Genova e giornalista del Resto del Carlino che si trovava nella scuola durante l’irruzione della polizia (da qui il libro Noi della Diaz), raggiunto al telefono dice sconfortato: «Ancora non si sono fatti vivi. Il problema però è che fino ad ora non ho mai visto la sceneggiatura». Curioso perché proprio a lui s’ispira il personaggio che verrà interpretato da Elio Germano mentre Claudio Santamaria vestirà i panni di Michelangelo Fournier, all’epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, divenuto famoso per la frase «sembrava una macelleria messicana» pronunciata durante il processo.
Nel cast di Diaz - Non pulire questo sangue troveremo anche Rolando Ravello, Alessandro Roja, Pippo Del Bono, la francese Emilie de Preissac, la tedesca Jennifer Ulrich e la romena Monica Barladeanu. Un cast internazionale perché di vari paesi erano i ragazzi della Diaz ma soprattutto perché Procacci è riuscito a chiudere il progetto avvalendosi di una coproduzione, con i francesi di Le Pacte (come per Habemus Papam) e i romeni di Mandragora, che gli assicura un budget di 7 milioni di euro (per il 60 per cento messi dalla Fandango). Ma la strada non è stata facile: «Ho tentato di comportarmi come fosse un film normale, non mi sono mosso in maniera clandestina. Mi sono reso conto però che è un film da cui tutti vogliono restare lontani», dice Procacci che oltre ad annunciare l’inizio delle riprese a giugno a Bucarest dove sarà ricostruita la scuola mentre ad agosto saranno girate le scene di esterni a Genova, assicura che «il film sarà completamente basato sugli atti del processo, senza grandi invenzioni. Nei titoli del film contiamo di mettere come è andata a finire col terzo grado di giudizio».
Ma la sua missione (impossibile) di un approccio quanto più oggettivo e di tenere insieme il mondo della sinistra e quello della destra naufraga già sui titoli di testa con una dichiarazione polemica del sindacato indipendente di Polizia Coisp: «Con quale coraggio Procacci parla di film non schierato se tralascia tutti gli accadimenti precedenti alla Diaz come il saccheggio, la devastazione e tutti gli altri atroci reati posti in essere da centinaia di manifestanti?».
 

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LA PROPOSTA INDECENTE PER IL G8 DI GENOVA

Fonte: http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/articolo-25632.htm

G8 PRESO A ZUCCATE - ENRICO ZUCCA, UNO DEI PM CHE S’È OCCUPATO DELL’INCHIESTA SUL PESTAGGIO ALLA SCUOLA DIAZ, RIVELA LA PROPOSTA INDECENTE ARRIVATA DALLA POLIZIA: UN PATTO PER EVITARE LE INCHIESTE SUGLI AGENTI (“VOI RINUNCIATE AD ANDARE AVANTI, NOI FERMIANO LE INDAGINI SUI MANIFESTANTI”) - A DIECI ANNI DAI FATTACCI, NESSUNA CONDANNA - CURIOSITÀ: QUASI TUTTI GLI UOMINI IN DIVISA COINVOLTI NELLA "MACELLERIA MESSICANA" HANNO FATTO CARRIERA…

Gianluca Di Feo per "l'Espresso"

Di quello che è accaduto si sa tutto, o quasi. Manca una risposta, quella fondamentale: perché? Di quello che è accaduto si sa tutto, o quasi: un manifestante ucciso, circa 560 tra dimostranti e agenti feriti, almeno 25 milioni di euro di danni. Ma nessuno finora ha pagato e, complice la prescrizione dei reati, probabilmente nessuno pagherà mai: la violenza che in quel luglio 2001 si è impadronita di Genova resterà senza responsabili.
VITTORIO AGNOLETTO

Sono passati dieci anni dal G8 che annichilì un movimento, capace di riportare alla politica masse senza tessera: una festa giovane, con cittadini d'ogni età e nazionalità, schiacciata dalle botte degli uomini in uniforme e dalla guerriglia urbana di una minuscola minoranza in tuta nera. Chi si è trovato prigioniero di quella bolgia feroce non ha più dimenticato.

Ora il decennale apre la corsa a ricordare: ci saranno memorie, celebrazioni e libri sul vertice che ha marcato in modo nefasto l'esordio del lungo governo della destra italiana. Il primo volume porta la firma dell'ideatore di quella kermesse nata per essere pacifica, Vittorio Agnoletto. Assieme a lui, Lorenzo Guadagnucci, un giornalista che da allora si è occupato a tempo pieno di quei giorni di fuoco e di sangue. In "L'eclisse della democrazia" (ed. Feltrinelli, 270 pagine,15 euro) offrono una ricostruzione dettagliata e inedita degli episodi più vergognosi. A partire dalle pressioni per ostacolare le indagini.

Perché quella del G8 sembra una storia semplice ma non lo è. Squadre organizzate di black bloc si infiltrano nei cortei, vanno all'assalto e provocano una reazione scomposta delle polizie che caricano alla cieca. Nella nebbia dei lacrimogeni, tutto diventa violenza. In uno degli scontri, un carabiniere spara e uccide Carlo Giuliani. E questo trasforma le strade in un campo di battaglia, dove ogni regola viene calpestata.

Nella caserma di Bolzaneto centinaia di persone subiscono torture fisiche e psicologiche. Fino al blitz nella scuola Diaz, concepito per gonfiare le statistiche degli arresti, che si è trasformato nella "macelleria messicana" con il pestaggio di 93 innocenti. Per Amnesty International è stata "una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente".

Chi lo ha permesso? Il Parlamento non ha voluto indagare: ai tempi del governo Prodi e della maggioranza di centrosinistra, i rappresentanti del popolo italiano se ne sono lavati le mani e hanno delegato tutto ai giudici. I corpi dello Stato invece hanno fatto quadrato. Ed è questa la parte più inquietante del saggio di Agnoletto e Guadagnucci: l'analisi di come la polizia sia stata contro la magistratura in ogni fase del procedimento.
MANGANELLI

Lo raccontano per la prima volta i pm che si sono occupati dell'inchiesta, a partire da Enrico Zucca che testimonia una "proposta indecente", gravissima dal punto di vista istituzionale: "Arriva dalla polizia una richiesta esplicita, una sorta di patto: voi rinunciate ad andare a fondo nelle inchieste sulla polizia, noi facciamo altrettanto nelle indagini sui manifestanti. La proposta ci è riferita in questi termini dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino. È decisamente rifiutata".

Lo conferma anche Patrizia Petruzziello, il magistrato che ha poi condotto l'inchiesta su Bolzaneto: "Si proponeva una sorta di pari e patta". Secondo i pm, il no alla proposta diede inizio a uno scontro frontale tra istituzioni che finora è rimasto relegato nelle aule di giustizia genovesi ma che invece richiederebbe una riflessione molto più alta sui poteri degli apparati statali nell'Italia del XXI secolo.

La spaccatura è arrivata fin dentro la procura, dove i sostituti sono stati costretti a firmare un documento per chiedere di indagare i funzionari che hanno guidato il raid nella Diaz. Zucca ricorda un clima di tensione crescente: "Proprio agli albori dell'indagine pervenne un messaggio oscuro e sibillino, nel senso che si vociferava che pezzi deviati della polizia, al di fuori di ogni controllo, stavano tramando e non avrebbero tollerato alcuna inchiesta.

Fu una voce poi non verificata, ma l'effetto intimidatorio, nella fase in cui erano in gioco le decisioni sulla stessa apertura di un'inchiesta e con le lacerazioni esistenti in procura, era garantito. Inoltre l'inchiesta si sommava ai normali carichi di lavoro. In procura eravamo 25 sostituti, ma non fu deciso di dedicarne alcuni a tempo pieno alle inchieste sul G8". La pressione arriva al culmine quando l'istruttoria punta sull'VII nucleo antisommossa, la "celere" romana passata dagli stadi all'irruzione nella Diaz: "Ci arrivò il messaggio di aspettare, di essere cauti: "Non riusciremmo a contenere eventuali reazioni"...".

I rapporti tra procura e Viminale sono diventati surreali: viene taciuto il nome di uno degli agenti con i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo, ripreso mentre bastona un giovane. Ricorda Zucca: "Nelle audizioni di De Gennaro e di Manganelli, attuale capo della polizia, facemmo presente il disagio procurato dal mancato chiarimento di alcune circostanze, per noi intollerabile e che gettava discredito sull'immagine dell'istituzione. Era un segno troppo evidente della mancata collaborazione".

Per Zucca con l'incriminazione di Gianni De Gennaro, accusato di avere spinto un questore a mentire, si va "allo scontro finale". In primo grado De Gennaro è stato assolto, in appello condannato a 16 mesi. Nel frattempo il prefetto è diventato il direttore di tutti i servizi segreti, primo dirigente a occupare l'incarico di massimo potere creato con la riforma dell'intelligence. E quasi tutti gli uomini in divisa coinvolti hanno fatto carriera: i meno fortunati - sottolinea il libro - sono quelli che in qualche maniera hanno collaborato con l'autorità giudiziaria.

Oltre all'allora numero uno della polizia, sul banco degli imputati sono finiti 29 agenti per la Diaz; 45 tra carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie e medici per "il lager" di Bolzaneto e 25 dimostranti per le devastazioni. La Cassazione deve ancora pronunciarsi, ma gran parte dei reati sono già prescritti. Di fatto non ci sono responsabili per quella che Amnesty ha definito "la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente".

E non si capisce nemmeno il perché di tanta violenza: è stata solo l'impreparazione delle forze dell'ordine, che non hanno saputo prevenire e fronteggiare i casseur in tuta nera?
Andrea Camilleri nell'introduzione al libro offre una lettura diversa: "Ho sempre sostenuto che per me il G8 è stato una sorta di prova generale, un tentativo di golpe da parte della destra che fortunatamente è andato fallito. Rimango convinto che nella cabina di regia di quei giorni oltre alla polizia e ai carabinieri ci fossero anche politici e credo, oggi più che mai, che il fallimento di quell'operazione abbia fatto cambiare parere circa la strategia da seguire in Italia a qualche alta personalità politica".

Le indagini non hanno dimostrato una regia politica. Ma dieci anni dopo, resta aperta "la ferita", - come si intitola un altro saggio dedicato a quei giorni, a firma di Marco Imarisio e in uscita sempre per Feltrinelli - quella che ha infranto il sogno dei no global: i manganelli di Genova hanno spezzato la fiducia nello Stato e hanno allontanato un'intera generazione dalla politica. Una ferita che resta un problema fondamentale per il futuro della democrazia nel nostro Paese.

 

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DICHIARAZIONE ASSEMBLEA VERSO GENOVA 2011

ASSEMBLEA VERSO GENOVA 2011 – 14 MAGGIO 2011

DICHIARAZIONE APPROVATA DALL’ASSEMBLEA

 Il 6 maggio scorso, a 10 anni di distanza dal G8, abbiamo nuovamente assistito, a Genova, al pestaggio di giovani inermi da parte delle “forze dell’ordine”.

L’Assemblea oggi riunita per preparare le manifestazioni che si terranno a Genova in occasione del decennale del G8, esprime la propria piena solidarietà agli studenti e alle studentesse picchiati durante una manifestazione in occasione dello sciopero generale indetto dalla CGIL e sottolinea l’assoluta necessità che la gestione dell’ordine pubblico – sempre e, in particolare, durante gli eventi per il decennale del G8 del prossimo luglio, a differenza di quanto avvenne allora – sia improntato al senso di equilibrio e di responsabilità.

 Oggi pomeriggio a Roma si tiene la manifestazione a sostegno della Flottiglia per la Libertà di Gaza, che partirà a fine maggio, con il nome di “RESTIAMO UMANI”, in ricordo di Vittorio Arrigoni, ucciso il 14 aprile scorso.

Nel frattempo, è arrivato a Gaza un folto gruppo di giovani, il CORUM, per ribadire che la solidarietà internazionale con Gaza continua e si rafforza, e con l’obiettivo di istituire un centro media intitolato a Vik.

L’Assemblea esprime il proprio sostegno e la propria solidarietà a queste iniziative per la libertà di Gaza, ricordando il grande e prezioso lavoro di Vittorio ed impegnandosi a far vivere, anche nelle giornate di Genova, la lotta del popolo palestinese per i propri diritti e per la fine dell’assedio di Gaza.

L’Assemblea invita, quindi, tutte e tutti coloro che sostengono la causa del popolo palestinese a partecipare alle iniziative che si terranno a Genova del 24 giugno prossimo e che culminerranno nella settimana  dal 19 al 24 luglio.

 L’Assemblea, infine, auspica che il tentativo di oscuramento della consultazione referendaria del prossimo 12-13 giugno fallisca e che i cittadini italiani rivendichino nei fatti il proprio di diritto di esprimersi attraverso un importante strumento di democrazia dal basso andando in massa a votare, e lancia l’appello per votare SI’ ai quesiti refenderari.

 L’ASSEMBLEA VERSO GENOVA 2011

 www.genova2011.org
 

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G8 GENOVA 2011: L'ECLISSE DELLA DEMOCRAZIA

Genova, luglio 2001: un ragazzo di 23 anni ucciso dai carabinieri; 93 persone pestate e arrestate sulla base di prove false alla scuola Diaz; decine di fermati torturati nella caserma di Bolzaneto.... Dieci anni dopo, tutte le verità sul G8 di Genova, teatro della più violenta repressione di massa degli ultimi decenni, secondo la definizione di Amnesty International. Intervista a Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, autori di "L'eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova"

http://www.youtube.com/watch?v=lAx3rkzNd_s
 

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GENOVA E I NO GLOBAL QUEI DIECI ANNI PERDUTI

Fonte:  http://www.micciacorta.it/home/naviga-tra-le-categorie/25-libri/3560-genova-e-i-no-global-quei-dieci-anni-perduti.html

Repubblica

Un libro di Marco Imarisio tra il G8 del 2001 e la storia del Movimento

GENOVA E I NO GLOBAL QUEI DIECI ANNI PERDUTI

Scritto con la forza e il gusto di una cronaca, ricostruisce una storia
molto italiana un´occasione mancata un "sogno" ucciso da molti

CARLO BONINI

Ci sono storie che si ritengono esauste. Per overdose di parole e immagini, per saturazione memorialistica, per coazione a ripetere di luoghi comuni. E, a ben vedere, i giorni del G8 di Genova sono una di quelle storie. Diventa allora sorprendente scoprire quanta materia viva conservi ancora quel passaggio della nostra Storia politica recente. Come il tempo - dieci anni a luglio - per una volta aiuti a ritornare in quei luoghi con occhi e curiosità diverse. Nello sforzo di rimettere insieme quel che fu e quel che è stato di una generazione del Movimento, dell´antagonismo italiano. La sua parabola, la sua implosione. E´ il viaggio non celebrativo in cui si è imbarcato Marco Imarisio, firma del Corriere della Sera, testimone intelligente e appassionato di quei giorni del luglio 2001 e di ciò che ne è seguito, nel suo la ferita - il sogno infranto dei No Global italiani (Feltrinelli, pagg. 190, euro 14).
Scritto con la forza e il gusto di una cronaca, con l´understatement di chi non ha risposte da dare ma solo molte domande ancora da fare, con il gusto per la ricerca del dettaglio inedito che diventa metafora di un´intera storia (come la scoperta di un pacchetto di Rothmans che, chiuso nel cassetto di un insegnante piemontese, custodisce un pugno di segatura
bagnata dal sangue di Carlo Giuliani), la ferita è il racconto di un´occasione mancata. «Una storia molto italiana - scrive Imarisio - Uno strano impasto di personalismi, nobili gesti e altrettante ripicche. Un cupio dissolvi generale che non teneva conto delle potenzialità espresse da quel movimento. Come se i primi a non credere fino in fondo alle loro
possibilità fossero stati i proprietari della ditta». Che, evidentemente, hanno un nome e cognome.
Vittorio Agnoletto, Luca Casarini, Francesco Caruso, Piero Bernocchi e la corona di leader meno noti, che con loro hanno segnato Genova e hanno contribuito ad amministrarne l´eredità, diventano nel racconto di Imarisio figure malinconiche. Da subito e improvvisamente disarmate, all´indomani dell´11 Settembre 2001, da una nuova geopolitica che nessuno poteva prevedere. Quasi sempre inadeguate alla sfida che si era prefisso il Movimento. Regolarmente stritolate tra la forza di un´intuizione politica e sociale precoce (la catastrofica fragilità di un´economia finanziaria e
speculativa; la sfida sui prodotti agricoli; la difesa dell´acqua dalla privatizzazione; la questione climatica) e la zavorra, i tic, il settarismo, propri di categorie politiche della sinistra movimentista degli anni ´70-´80.
E tuttavia, ad uccidere "il sogno" hanno contribuito molte mani. Non solo i «proprietari della ditta». Imarisio illumina nel tempo il cinismo della sinistra di governo e il fallimento fragoroso di Fausto Bertinotti e Sergio Cofferati di fronte all´urgenza del Movimento di trovare forme nuove di rappresentanza politica, di sbocco alla sua elaborazione.
L´utopia narcisista del primo. Il "tradimento" del secondo. Così come documenta il riflesso d´ordine e di appartenenza, le omertà, che, in questi dieci anni, hanno orientato le mosse dei vertici della Polizia di Stato e dell´Arma dei carabinieri nella stagione giudiziaria (per altro non ancora conclusa) che doveva dare responsabilità certe alle violenze di Genova. Una scelta sciagurata che ha impedito, insieme all´accertamento di una verità incontrovertibile e completa, la composizione di una memoria condivisa e dunque la cicatrizzazione della ferita. Che ha moltiplicato i rancori. Che ha progressivamente cancellato i fatti, fino ad anestetizzarne il ricordo (esemplare la rimozione che il Paese ha fatto della vergogna di "Bolzaneto").
I "no Global" non appartengono più al panorama politico del Paese. Esiste ancora lo spazio del centro sociale "Rivolta" dove, alla vigilia del G8, le "tute bianche" fecero le prove generali delle loro catapulte per dare l´assalto alla zona rossa. «Adesso - scrive Imarisio - è una sala ipertecnologica da duemila posti dove, la Fiom, gli studenti, i precari della scuola tentano di delineare un nuovo percorso comune, "Uniti contro la crisi" (...) Ci stanno riprovando, con un orizzonte più stretto, meno illusioni. Tentando di portare con sé almeno il ricordo di quell´avventura».

--
Carlo
Forum Per La Sinistra Europea - Genova
http://versose.altervista.org/
 

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IL CASO/G8: NUOVA PROMOZIONE PER MORTOLA L'UOMO DEI PESTAGGI ALLA DIAZ

di Federico D'Ambrosio

E alla fine la promozione è arrivata. Da qualche giorno Spartaco Mortola, l'ex capo della Digos di Genova ai tempi delle violenze del G8, è dirigente superiore della polizia di stato. Ovvero questore, anche se non è detto che gli sia assegnata subito una sede operativa. Mortola è stato condannato a 3 anni e 8 mesi in appello per le violenze alla scuola Diaz e a un anno e 2 mesi per induzione alla falsa testimonianza, quando, stando alla sentenza, indusse l'ex questore di Genova a cambiare la propria versione dei fatti al processo. Escludendo il coinvolgimento dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Mortola aveva già fatto uno scatto di carriera dopo il 2001, diventando vice questore a Torino. Dove le polemiche l'hanno seguito, durante le proteste anti Tav. Un anno fa il suo nome è finito in una lista di persone che a maggio 2011, appunto, avrebbero partecipato a Roma al corso di formazione propedeutico alla promozione a dirigente superiore.
Mortola, tra le altre condanne, è stato giudicato colpevole anche per le falsità sostenute sul ritrovamento delle bottiglie molotov alla Diaz, fondamentali per giustificare l'irruzione e sostenere che fosse la base operativa dei Black bloc. Il processo ha dimostrato che furono portate da agenti che le avevano sequestrate in piazza. Nella scuola, disse Mortola al processo, c'erano «circa 50 persone a piano terra, tranquille e apparentemente non ferite». Dall'edificio uscirono 93 persone molte ferite in modo gravissimo. Tutte arrestate con quella che il neoquestore definì una «forzatura giuridica».

da "il manifesto" del 2 6 2011

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G8 VA IN SCENA L'ULTIMA INCHIESTA

Dieci anni dopo a giudizio un vicequestore per le botte ai manifestanti a mani nude
La ricostruzione della storia in un lungo dossier pubblicato su Micromega
MARCO PREVE

Quello che sta istruendo in queste ore il pm Francesco Cardona Albini potrebbe essere l´ultimo processo del G8. A dieci anni esatti di distanza da quei tre giorni che sconvolsero Genova e la democrazia italiana, sta per essere presentata al gip la richiesta di rinvio a giudizio per falso nei confronti dell´ex comandante del Reparto Mobile di Bologna, il vicequestore Massimo Cinti, oggi dirigente del commissariato di Imola.
La sua vicenda si inserisce in uno degli episodi simbolo del G8, la gratuita brutalità delle forze dell´ordine contro i pacifisti che dimostravano a piazza Manin con volti e mani dipinti di bianco.
Il fascicolo contro Cinti è stato aperto dopo che i giudici della Corte d´Appello, che nel luglio scorso hanno condannato quattro agenti, hanno ritenuto che la sua deposizione in aula fosse tesa a coprire i suoi uomini nascondendo la realtà dei fatti. La Corte ha così trasmesso in procura gli atti, chiedendo che si procedesse nei confronti del vicequestore per falsa testimonianza. Il pm Cardona Albini non ha perso tempo ed entro l´estate il fascicolo sarà chiuso con la richiesta di rinvio a giudizio. Non sono invece stati così solerti altri suoi colleghi che, di fronte ad analoghi fascicoli di falsa testimonianza nei confronti di ufficiali e funzionari, hanno lasciato cadere in prescrizione i reati. Queste ed altre vicende sono raccontate in un lungo dossier pubblicato sul numero in edicola della rivista Micromega: "G8 dieci anni dopo: impunità di Stato".
In piazza Manin, il 20 luglio, due studenti universitari spagnoli di Saragozza Adolfo S. e Luis L. incensurati, furono arrestati; il primo per «lancio di molotov contro i reparti di polizia», il secondo perché con «un tubolare di ferro si avventava contro i componenti della squadra». Nella prigione di Bolzaneto subirono le violenze e le umiliazioni di decine di altri manifestanti.
Dopo l´assoluzione in primo grado dei quattro agenti - Antonio Cecere, Luciano Beretti, Marco Neri e Simone Volpini - e il ricorso degli avvocati degli spagnoli Laura Tartarini e Emanuele Tambuscio, la Corte d´Appello ha condannato i poliziotti a quattro anni perché mentirono: «E´ falsa la circostanza secondo cui gli arresti dei due spagnoli sarebbero avvenuti in un contesto di scontri tra manifestanti e polizia. Dai filmati si vede benissimo come gli arrestati si siano diretti a mani nude contro i blindati della polizia».
Fondamentali per l´accertamento della verità sono state le numerose foto scattate quel giorno e poi il filmato di Luna Rossa, il gruppo del regista Francesco Maselli che ha documentato i giorni degli scontri al G8 del 2001.
 

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CITTADINANZA FERITA E TRAUMA PSICOPOLITICO. DOPO IL G8 DI GENOVA: IL LAVORO DELLA MEMORIA E LA RICOSTRUZIONE DI RELAZIONI SOCIALI

Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto
Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico.
Dopo il G8 di Genova: il lavoro della memoria e la ricostruzione di relazioni sociali*
Prefazione di /Nando dalla Chiesa
********

Dieci anni sono ormai trascorsi dal G8 di Genova. Un evento che tuttavia resta impresso nell'immaginario. Difficile lasciare dietro di sé quei drammatici eventi, immortalati da una moltitudine di fotografie e video. Immagini di scontri di piazza, con la morte di Carlo Giuliani, e di manifestanti picchiati a sangue nella scuola Diaz. Poi le notizie sulla violenza di Bolzaneto. Infine sono venuti i processi e le sentenze. Che cosa resta di Genova, oggi? Gli autori, muovendosi per i sentieri di un senso di cittadinanza profondamente ferito e di un diffuso trauma psicopolitico, prendono le distanze da quel pensiero illusorio che si affida passivamente al tempo. Nella speranza che si faccia guaritore. Quasi che a far decantare l'afflizione, essa svanisca.
E che l'indignazione covata dall'ingiustizia patita possa essere erosa dall'oblio. Sapendo però che tutto si può dire del passato, tranne che sia passato, gli autori analizzano scientificamente la natura della sofferenza, individuale e collettiva, generata dal G8 di Genova.
Interrogano le pratiche sociali della memoria, affrontano il problema del vivere comune "offeso" - la frattura tra istituzioni dello Stato e parte dei cittadini - con le reciproche barriere emozionali che continuano a frapporsi a livello interpersonale e intergruppi. Offrendo infine un sapere al servizio della società, aiutandola a concretizzare rispetto e giustizia, per incamminarsi lungo le vie di una matura riconciliazione.
I diritti d'autore del libro sono devoluti al Comitato Verità e Giustizia per Genova.***

Gli autori:
Adriano Zamperini è professore di Psicologia sociale e di Relazioni interpersonali presso l'Università degli Studi di Padova.
Marialuisa Menegatto è psicologa clinica e di comunità, ricercatrice presso la Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace.

Da fine settembre 2011 in tutte le librerie, prima sarà possibile acquistarlo nei luoghi di presentazione pubblica:

9 luglio -  prima presentazione nazionale Genova "Settimana dei diritti" con Nando dalla Chiesa - ore 11,00 Palazzo Tursi, Salone di Rappresentanza

12 luglio - Firenze con ANPI, Comune di Firenze - ore 18,00 Biblioteca delle Oblate

17 luglio - Pisa progetto Rebeldia - ore 17,30 Parco della Cittadella

21 luglio - Genova Decennale 2001-2011 con Enrica Bartesaghi - ore 18,00 Sottoporticato Palazzo Ducale

Per informazioni: http://www.sispa.it/blog/

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GENOVA 2001-2011: INTERVENTO LETTO IN PIAZZA MAGGIORE

Questa è la traccia dell'intervento che ho letto questa sera in Piazza Maggiore prima della proiezione di un frammento di "Bella Ciao" di Marco Giusti e poi della presentazione del film "Noi credevamo" con Francesco Martone.

E' stata una bella serata grazie a Gianluca Farinelli che ha offerto questa possibilità e a Francesco Martone stesso che ha avuto parole forti su riprendendo l'argomento: Genova ha dato la possibilità di far politica ad una intera generazione. Il mio film riguarda l'idea di incompiutezza della democrazia che attraversa il paese dal risorgimento fino a Genova attraversata dal manifestarsi del potere in maniera repressiva.

Le immagini che vedrete tra un po' fanno parte di un racconto di Genova iniziato dieci fa. Un racconto a più voci, fatto di migliaia di videocamere e macchine fotografiche, che insieme alle testimonianze di chi c'era hanno saputo dare al paese un altro modo di vedere quei giorni. Perché Genova è stata soprattutto questo: una manifestazione diffusa e generale, in tutto il paese, la prima davvero internazionale, che ha visto l'incontro di centinaia di migliaia di persone diverse per età, condizione sociale, biografia e percorsi politici. Persone che contestavano un modello sociale ed economico ingiusto che cancellava diritti e metteva in vendita tutto il resto. Una risposta democratica che sanciva la partecipazione, per la prima volta, di una intera generazione, quella cresciuta politicamente negli anni '80 e '90 e al ritorno all'impegno di molte altre persone. Per sé e per il futuro.

Il 16 luglio di 10 anni fa vicino al porto di Genova cominciava il forum dove per la prima volta si parlava di acqua come bene comune avviando quel percorso che poi ha portato ai vittoriosi referendum del 12 e 13 giugno. E ancora si denunciava la speculazione finanziaria e le pratiche di sfruttamento del lavoro che arricchivano pochi e minavano le basi della convivenza civile come poi abbiamo visto con la crisi e la precarietà. Non solo, si denunciava la crisi delle istituzioni democratiche più attente ai diktat del mercato che alle richieste dei cittadini. E dopo la finanziaria che si sta discutendo in queste ore in parlamento torniamo a chiederci: in quale democrazia viviamo se si sceglie di far pagare il conto di questo fallimento alle fasce più deboli privatizzando i servizi e tagliando il welfare, ma lasciando intatte rendite, sprechi e spese militari perché è quello che ci chiedono le banche, l'Europa e i mercati?

Per questo Genova fa anche paura. Perché rispetto a queste domande di partecipazione e di democrazia la risposta fu “la più grande violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente” come ebbe a scrivere Amnesty International. “Un tentativo di golpe del governo fortunatamente andato fallito” come ha scritto più di recente Andrea Camilleri che in alcuni casi è stato risolto con l'archiviazione di processi imbarazzanti, come sarebbe potuto essere quello per l'assassinio di Carlo Giuliani, a in altri, nel silenzio e al volte nel depistaggio di media e politica, è stato messo in evidenza con il processo e la condanna in gradi diversi dei massimi dirigenti delle forze dell'ordine per la Diaz e Bolzaneto. Fatti per “i quali lo Stato non ha ancora chiesto scusa” come ha denunciato il procuratore capo di Genova, Di Noto, e sui quali invece c'è il rischio della prescrizione perché in Italia non abbiamo mai ratificato il reato di tortura. E quindi Genova fa ancora paura perché come potremmo chiamare diversamente quella che abbiamo visto sulla pelle di quei manifestanti colpiti da una repressione generalizzata in Val di Susa e che nei giorni successivi hanno reso pubbliche le loro testimonianze?

Per questo motivo Genova è ancora attuale. Perché quei drammatici avvenimenti non hanno fermato la partecipazione. Anzi. Perché continua a porre domande e a chiedere di trovare soluzioni tutti insieme, impegnandosi in prima persona. Come è successo in questi anni nelle università e tra le fabbriche, a chi lotta contro la precarietà come tratto distintivo di una generazione e tremendo presagio di futuro per tutti, con le mobilitazioni delle donne in difesa della loro dignità, con quelle dei migranti che sono saliti sulle gru per chiedere rispetto e diritti, come sta chiedendo chi denuncia i cambiamenti climatici e la crisi ambientale e non aspetta che le soluzioni vengano dall'alto.
Di tutto questo si sta discutendo a Genova che ci aspetta tutte e tutti alla manifestazione di sabato 23. Perché nulla è stato più come prima e un altro mondo è ancora possibile. E oggi ancor più necessario.

 

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RIFLESSIONE. PASQUALE PUGLIESE: DAL DECENNALE DEL MASSACRO DI GENOVA UN COMPITO PER IL PROSSIMO DECENNIO

Il 20 luglio del 2001, a sera, la tragedia era gia' compiuta. Il dramma sarebbe continuato per altri giorni ancora. Il ritorno pieno della democrazia non e' ancora completo.

Tuttavia il "movimento dei movimenti", che a Genova e' stato massacrato in senso letterale e non figurato, dieci anni dopo - oggi - ha cominciato a vincere.

Alcune delle parole che nelle strade e piazze di Genova sono state spezzate nelle bocche dei manifestanti, impastate nei fiotti di sangue, azzittite dalle sirene - e dalle pale degli elicotteri, dalle vetrine spaccate, dai manganelli picchiati sugli scudi e sulle teste, dai colpi di pistola - sono oggi le parole del "nuovo lessico degli italiani".

La ricerca sul "dizionario degli italiani", pubblicata qualche giorno fa dalla Demos di Ilvo Diamanti, posiziona nel quadrante delle parole positive e importanti per il futuro proprio quelle che da Seattle a Genova a Porto Alegre hanno mobilitato una generazione di attivisti: Solidarieta', Energia pulita, Bene Comune, Partecipazione e, addirittura, Decrescita.

Quando cambiano le parole vuol dire che comincia a cambiare la cultura profonda. Lo dice lo stesso Diamanti: "il lessico degli italiani compilato nell'estate 2011 rivela che questo clima culturale e' cambiato. Insieme al linguaggio. E che il Bene comune, oggi, non occorre piu' farlo di nascosto. Come la Solidarieta'. Pratiche diffuse da tempo nel nostro paese, come dimostra la fitta rete di associazioni volontarie e la crescente propensione al consumo critico e consapevole. Oggi, invece, sono divenute parole di successo". E' una lenta progressiva egemonia culturale che si sta affermando, facendosi strada dentro un ventennio di egemonia razzista, mafiosa e berlusconiana.

Ed e' un'egemonia che ha gia' raggiunto una massa critica capace di incidere politicamente, costruendo e vincendo dal basso - contro tutti e contro tutto - i referendum popolari con i quali sono stati affermati proprio quei principi e, contemporaneamente, messi in campo capacita' e strumenti di partecipazione, vecchi e nuovi.

Come ricorda il documento del Movimento Nonviolento "Dalla Val di Susa al decennale del G8 di Genova" il "movimento dei movimenti" in questo decennio e' riuscito a sottrarsi al destino segnato da chi voleva intrappolarlo nella rincorsa ai vertici del potere, nell'assalto alle zone rosse, nella lotta degli studenti borghesi contro i poliziotti proletari, nel "diritto all'autodifesa", nel vicolo cieco del terrorismo, nelle questioni cruciali per il futuro derubricate a faccende di ordine pubblico. Ha saputo sottrarsi ad un triste "deja' vu"; ed ha intrapreso una strada del tutto nuova e, per certi versi, inedita, spiazzando letteralmente gli apparati e i poteri costituiti. E' diventato un movimento "lillipuziano", cioe' molecolare, capace di radicarsi fortemente sui territori locali nelle mille iniziative di botteghe, comitati, associazioni, movimenti...; "reticolare", cioe' capace di stringere alleanze su impegni comuni, di pensare globalmente agendo localmente, ma in relazione con gli altri; "nonviolento", cioe' capace di impostare campagne volte a comunicare ed educare, a spiegare e formare, a coinvolgere ed allargare il consenso, utilizzando al meglio lo straordinario potere del web.

Naturalmente molte questioni sono ancora aperte, questo "vantaggio" puo' sempre essere perso e non e' difficile smarrire il sentiero sul quale ci siamo incamminati. Bisogna percio' non farsi distrarre dalle sirene "anticasta" che vogliono trascinarci nella "notte in cui tutte le vacche sono nere", per riaffermare i poteri occulti di sempre.

Occorre intelligenza e capacita' di individuare i nodi cruciali da affrontare e sciogliere per una duratura trasformazione profonda, sui quali fare ancora massa critica. A cominciare da un nodo ancora ben integro e saldo, quello della guerra e degli armamenti.

Nonostante le spese militari siano sempre di piu' il vero pozzo senza fondo del bilancio dello Stato che sottrae ingenti risorse a tutti i settori pubblici; nonostante la guerra venga costantemente preparata, pianificata e agita come unico "mezzo di risoluzione delle controversie internazionali"; nonostante questo determini un ribaltamento dello spirito e della lettera della Costituzione che "ripudia la guerra" ed invece e' essa ad essere ripudiata; nonostante tutto cio', le parole "pace", "disarmo", nonviolenza" sono ancora assenti dal "dizionario degli italiani".

Mettercele dentro e fare massa critica per affermarle culturalmente, socialmente e politicamente e' il nostro compito per il prossimo decennio.

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DICHIARAZIONE FINALE COMUNE GENOVA 2011: "LORO LA CRISI - NOI LA SPERANZA"

Assemblea internazionale 24 luglio

La rete italiana verso il FSM nel Maghreb-Mashrek si incontra il 4 settembre a Roma

Noi, partecipanti a Genova 2011 “Loro la crisi- Noi la speranza” riuniti nell’assemblea internazionale del 24 luglio, dopo la grande manifestazione di ieri, ci impegniamo a costruire insieme il percorso che ci porterà al Forum Sociale Mondiale del 2013 che si terrà nella regione Maghreb-Mashrek.

Per la prima volta, i movimenti, gli attori sociali, gli attivisti e le comunità di tutto il mondo si riuniranno nella nostra comune regione mediterranea, ospiti delle rivoluzioni della dignità.

Il Forum e il suo processo di costruzione ci offrono una straordinaria occasione di convergenza nazionale e internazionale per rafforzare il campo di forze e delle alleanze necessari a una vera alternativa alla crisi globale, fondata sulla radicalizzazione della democrazia e dei diritti, su un altro modo di produrre, di vivere, di consumare, di convivere, capace di respingere al mittente le devastanti ricette anticrisi imposte dai poteri dominanti.

Ci impegniamo a costruire insieme due importanti appuntamenti internazionali in Italia:

-        Nei prossimi mesi, un seminario aperto per la ricostruzione di uno spazio pubblico europeo pubblico e partecipato dagli attori sociali che nel nostro continente fanno vivere le lotte, le vertenze, le alternative, le buone pratiche per una Europa diversa.

-        Nel 2012, decennale del FSE di Firenze del 2001, un evento Forum mediterraneo, un grande incontro dei movimenti europei con i protagonisti e le protagoniste delle rivoluzioni della dignità nella riva sud .

Organizzeremo la partecipazione alle manifestazioni contro il G20 a Nizza in novembre, per la giustizia climatica a Durban a dicembre e in Brasile in occasione della conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile Rio+20, nel Forum Mondiale Alternativo per l’Acqua a marzo 2012 a Marsiglia. Ci mobiliteremo per la giornata di azione dei migranti il 18 dicembre del 2011.

La “rete italiana verso il FSM” sarà una rete orizzontale e partecipata, capace di socializzare e democratizzare al massimo le relazioni internazionali altermondialiste, e di assicurare la massima partecipazione degli attori sociali, delle comunità, dei territori.

La rete si riunirà a Roma il 4 settembre per programmare il proprio lavoro. Sarà anche l’occasione per discutere le possibili convergenze di azione sul livello nazionale di mobilitazione, nell’autunno caldo di lotte e di resistenze che tutti e tutte stiamo preparando nel nostro paese.

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Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/11/29/diaz-le-carte-del-processo-in-cassazione.html
DIAZ, LE CARTE DEL PROCESSO IN CASSAZIONE

29 novembre 2011 —   pagina 4   sezione: GENOVA
VENERDÌ scorso un furgone carico dei fascicoli del dibattimento Diazè partito da Genova alla volta di Roma per consegnare tutte le carte necessarie a che si possa celebrare il processo in Cassazione che vede attualmente condannati 24 persone, tra i quali alcuni dei massimi dirigenti della polizia italiana. Pare che i documenti siano partiti nonostante mancassero ancora alcune delle ricevute di ritorno delle notifiche che secondo il presidente della Corte d' Appello Mario Torti erano all' origine del ritardo (per colpa «degli ufficiali giudiziari della capitale»). Si conclude così una telenovela mortificante per la giustizia italiana dove nonostante ripetuti solleciti, anche da parte dell' allora procuratore generale Luciano Di Noto, le carte erano rimaste congelate a Genova, negli uffici della corte d' Appello dove erano state depositate un anno e mezzo fa. Una paralisi che rischia di fare andare in prescrizione anche gli ultimi reati (lesioni gravi e falsi). Il Comitato verità e Giustizia per Genova aveva chiesto un' ispezione al Ministero della Giustizia. La sezione ligure di Magistratura Democratica aveva parlato di precise responsabilità della Corte d' Appello di Genova sottolineando come si violassero precise indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell' Uomo che, per reati di questa natura che vedono imputati rappresentanti delle istituzioni, dice che si deve impedire a tutti i costi la prescrizione. Due giorni fa, a Repubblica, Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale a proposito del ritardo aveva detto «l' amministrazione, che dovrebbe dare il massimo impegno per chiarire le responsabilità dei suoi funzionari, lascia invece scorrere il tempo». - MARCO PREVE

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ARRESTI ILLEGALI AL G8 IN PIAZZA MANIN POLIZIOTTI CONDANNATI ANCHE IN CASSAZIONE

Il Cinti citato qui per il quale "si profila la richiesta di rinvio a giudizio" è Luca Cinti, non Massimo Cinti, vice questore di Imola come ha scritto a giugno il Corrire di Romagna (http://www.veritagiustizia.it/rassegna_stampa/corriere_romagna_g8_vice_questore_accusato_di_falso.php) dopo l'inchiesta riportata su Micromega (http://temi.repubblica.it/micromega-online/genova-2001-impunita-di-stato) e ripresa anche da Repubblica (http://genova.repubblica.it/cronaca/2011/06/22/news/g8_va_in_scena_l_ultima_inchiesta-18055965/)

Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/12/20/arresti-illegali-al-g8-in-piazza-manin.html
Arresti illegali al G8 in piazza Manin poliziotti condannati anche in Cassazione

20 dicembre 2011 —   pagina 7   sezione: GENOVA
DUE manifestanti spagnoli si avvicinarono al gruppo di agenti con le mani alzate ma nel verbale la realtà venne stravolta e i due furono trasformati in violenti "black bloc". Ieri mattina la Cassazione ha confermato la pesante condanna (4 anni) per quattro poliziotti del reparto mobile di Bologna che nel luglio del 2011 durante il G8 si resero protagonisti del reato di arresto illegale in piazza Manin, il luogo in cui decine di pacifisti cattolici della Rete Lilliput vennero picchiati senza motivo dalle forze dell' ordine. In primo grado erano stati tutti assolti e in appello, nel luglio 2010, la sentenza era stata ribaltata. I poliziotti condannati sono Antonio Cecere, Luciano Beretti, Marco Neri e Simone Volpini. Le accuse a loro carico erano quelle di falso ideologico in atti pubblici, calunnia e abuso d' ufficio ma su questi ultimi due reati era stata dichiarata la prescrizione. L' inchiesta che li ha portati sul banco degli imputati riguardava gli avvenimenti del 20 luglio 2001. I poliziotti bolognesi furono inviati in piazza dove pochi minuti prima erano passati i black bloc in fuga. I manganelli si accanirono contro i pacifisti e fra gli arrestati vi furono i due studenti spagnoli che erano stati accusati ingiustamente di aver lanciato una bottiglia incendiaria e di essersi scagliati contro gli agenti impugnando una sbarra di ferro. Ad appellarsi contro la sentenza di primo grado erano stati il pm Francesco Albini Cardona che aveva chiesto4 annie le parti civili rappresentate dagli avvocati Emanuele Tambuscio e Laura Tartarini. I giudici d' appello scrissero in sentenza che: «E' falsa la circostanza secondo cui gli arresti dei due spagnoli sarebbero avvenuti in un contesto di scontri tra manifestanti e polizia. Dai filmati si vede benissimo come gli arrestati si siano diretti a mani nude controi blindati della polizia». Fondamentali per l' accertamento della verità sono state le numerose foto scattate quel giorno e poi il filmato di Luna Rossa, il gruppo del regista Francesco Maselli che ha documentato i giorni degli scontri al G8 del 2001. Questa vicenda ha generato anche un' altra tranche d' indagine che vede indagato per falsa testimonianza il vicequestore Massimo Cinti il quale, in udienza in qualità di teste fornì una versione dell' accaduto palesemente falsa secondo gli stessi giudici che trasmisero gli atti alla procura. Per lui si profila la richiesta di rinvio a giudizio. - MARCO PREVE

 

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G8, LA CASSAZIONE CONFERMA QUATTRO CONDANNE "I MEDIA NON HANNO CONDIZIONATO I GIUDICI"

Fonte: http://genova.repubblica.it/cronaca/2012/01/20/news/g8_la_cassazione_conferma_quattro_condanne_i_media_non_hanno_condizionato_i_giudici-28484504/

La quinta sezione penale della suprema Corte ha convalidato la sentenza di secondo grado emessa contro poliziotti che fecero arresti "consapevolmente indiscriminati"

Un momento degli scontri del G8

I mass media, durante il G8 di Genova, non hanno condizionato i giudici che sono stati liberi di prendere le loro decisioni. Lo ha sottolineato la quinta sezione penale della Cassazione nel convalidare quattro condanne ad altrettanti poliziotti per il reato di falsità ideologica in atti pubblici durante il G8 di Genova nel luglio 2001.

In particolare, la suprema Corte, nel bocciare i ricorsi presentati da Antonio Cecere, Luciano Beretti, Marco Neri e Simone Volpini, ha messo nero su bianco che "operare arresti consapevolmente indiscriminati pure in occasione di tumulti costituisce condotta penalmente rilevante quando del primo evento emerga traccia probatoriamente inequivoca". I fatti analizzati da piazza Cavour, come ricostruisce la sentenza 1906, si sono verificati in occasione di scontri verificatesi tra
manifestanti e polizia nel primo pomeriggio del 20 luglio 2001 a Genova mentre era in corso il G8.

Nel corso delle manifestazioni che si erano realizzate nel centro del capoluogo ligure, in parte con l'autorizzazione delle autorità, in altra parte invece "non autorizzate e violente" i quattro agenti che hanno fatto ricorso in Cassazione avevano redatto i verbali di arresto di due spagnoli, Adolfo Gonzales e Luis Alberto Lorente, e gli atti successivi "incolpandoli falsamente di reati che non avevano mai commesso e avevano conseguentemente anche operati arresti abusivi in loro danno".

Un giudizio non condiviso in primo grado dal Tribunale di Genova che, in primo grado, aveva assolto i quattro agenti di polizia ritenendo che i poliziotti fossero stati tratti in errore dalla 'concitazione del momento' che vedeva da una parte l'azione violenta dei black bloc e dall'altra la dimostrazione autorizzata dei manifestanti pacifisti della rete Lilliput della quale pare facessero parte i due cittadini spagnoli. Giudizio ribaltato dalla Corte d'Appello di Genova il 13 luglio del 2002 che condannava i poliziotti per reato continuato di falsità ideologica in atti pubblici sulla base del fatto che l'arresto dei due spagnoli non era stato niente altro che "un atto abusivo e doloso privo di qualsiasi giustificazione".

Inutile il ricorso dei difensori dei quattro agenti di polizia in Cassazione volto a dimostrare che i quattro erano stati
consapevolmente tratti in errore dalla concitazione dei fatti in piazza Manin. La suprema Corte ha bocciato le tesi difensive e ha evidenziato che "la Corte di merito ha potuto argomentare in maniera del tutto completa e razionale le ragioni della ritenuta falsità, voluta e consapevole, delle attestazioni degli agenti, nel verbale di arresto dei due per flagrante resistenza a pubblico ufficiale e possesso di armi".

In particolare, la Cassazione non accetta la tesi difensiva secondo la quale i giudici sarebbero stati condizionati dal clamore mediatico nel corso del G8. In proposito, la Cassazione rileva che "è errato parlare di severità preconcetta dei giudici di secondo grado o di suggestione operata dagli organi di informazione sui giudici medesimi, atteso che gli argomenti da questi addotti per ribaltare la pronuncia assolutoria dei primi giudici si basa su materiale probatorio descritto come di rara inequivocità e in quanto tale agevolmente valorizzato e ripercorso dai giudici dell'Appello".

(20 gennaio 2012)

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GENOVA G8: QUANDO L'ARRESTO ILLEGALE ERA LA REGOLA

Fonte: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3234

Interni Genova G8 Polizie

La Cassazione conferma le condanne a quattro agenti per un fermo eseguito a Piazza Manin. Ma durante le manifestazioni il 90% degli arresti fu attuato violando la legge. E le forze dell'ordine non hanno mai riconosciuto le proprie responsabilità né fatto i conti con questo spaventoso cedimento etico, politico e professionale
di Lorenzo Guadagnucci - 24 gennaio 2012

Nell'articolo a fianco, uscito sulle pagine genovesi di Repubblica e quindi sfuggito ai più, si riferisce che è diventata definitiva la condanna inflitta a quattro agenti di polizia per un episodio emblematico delle giornate di Genova. Si tratta della carica eseguita a piazza Manin il 20 luglio 2001. Rete Lilliput e gruppi pacifisti vi avevano allestito la propria piazza tematica e centinaia di persone assistettero a un'inimmaginabile successione di eventi.

Prima, il passaggio - indisturbato - di un gruppo appartenente al Black Bloc, entrato quel giorno in azione senza incontrare significative opposizioni da parte delle forze di polizia. Più tardi l'arrivo di un contingente di polizia, inviato proprio all'inseguimento del Black Bloc, nel frattempo però passato oltre. Gli agenti, tuttavia, entrarono in azione, aggredendo decine di manifestanti pacifisti a colpi di calci e manganelli. Un comportamento da squadraccia.

Il processo appena passato in Cassazione si è occupato di una coda di questa sconcertante vicenda e cioè gli arresti eseguiti dopo l'assurdo raid poliziesco (ma esiste una registrazione delle comunicazioni fra la centrale operativa e i reparti arrivati in piazza Manin e si sente la centrale che ordina: "facciamo prigionieri"). I quattro poliziotti condannati arrestarono due cittadini spagnoli accusandoli di atti di violenza e resistenza che non avevano compiuto.

Grazie al lavoro degli avvocati, alle testimonianze che è stato possibile raccogliere, alla tenacia e all'onestà dei magistrati (avendo contro, però, l'istituzione polizia), l'infamante falso è stato smascherato e gli agenti sono stati incriminati, mentre i due cittadini incolpevoli sono passati da imputati a parte lesa.

In questa vicenda, tuttavia, quel che più inquieta è nelle righe finali dell'articolo. Il 90% delle persone fermate durante il G8 furono arrestate in maniera illegittima. Si trattò quindi di un'enorme violazione della legge e dei diritti costituzionali compiuta dalle forze dell'ordine (ammesso che abbia senso usare quest'espressione di fronte a fatti del genere).

Il fatto che la polizia di stato - responsabile a Genova dell'ordine pubblico - non abbia mai ammesso le proprie responsabilità e si sia rifiutata di fare i conti con questo suo drammatico cedimento, è un segnale del profondo malessere che investe la nostra democrazia.

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G8, IL CAPITOLO È CHIUSO FINITO L'ULTIMO PROCESSO

Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/01/27/g8-il-capitolo-chiuso-finito-ultimo-processo.html

27 gennaio 2012 — pagina 1 sezione: GENOVA

IL PIÙ lungo capitolo della storia giudiziaria genovese si è chiuso ieri mattina in un'aula della Corte d'Appello: quando il sostituto procuratore generale Antonio Lucisano ha decretato la prescrizione, rinunciando al ricorso in Cassazione, per l'ultima "tuta bianca" coinvolta nel cosiddetto "processo dei 25", di fatto il palazzo di giustizia di Genova, quasi undici anni dopo, ha chiuso tutte le pendenze con i tre principali filoni scaturiti dalle vicende del G8 del luglio 2001.

IL SIPARIO, nel capoluogo ligure, cala definitivamente sulla brutale irruzione nella scuola Diaz, gli abusi della prigione speciale di Bolzaneto, le devastazioni dei black bloc.

L'ultima pagina l'ha scritta Duccio Bonechi, che oggi ha 35 anni e lavora come produttore di spettacoli, ma nel 2001 era studente di psicologia a Padova e partecipò alle manifestazioni no global assieme ai centri sociali veneti guidati da Luca Casarini.

Nel 2002 fu uno dei 25 indagati nella cosiddetta retata anti black bloc. Il processo che ne seguì registrò pesantissime condanne per il reato di devastazione e saccheggio. Ma il teorema della procura che voleva responsabili del disegno di devastazione anche le tute bianche venne in parte smontato dalla sentenza che per molti imputati accolse solo in parte le richieste dell'accusa. Bonechi, ad esempio, cui veniva contestata la devastazione per aver partecipato all'assalto del blindato dei carabinieri in via Tolemaide, venne condannato solo per resistenza e danneggiamento ad un anno e quattro mesi in primo grado.
Per un difetto di notifica, però, la sua posizione in appello è stata stralciata. Se il fascicolo principale dei "25" è già partito per l'ultimo pronunciamento in Cassazione, ieri Bonechi ha affrontato l'Appello davanti ai giudici della seconda sezione. I suoi legali, gli avvocati Raffaella Multedo di Genova e Anna Maria Alborghetti di Padova, hanno sollevato la questione della prescrizione che è stata accolta dal pg Lucisano.

Chiusi i principali filoni del G8 resta solo un ultimo rivolo. E' il fascicolo che si appresta a chiudere con una richiesta di rinvio a giudizio il pm Francesco Albini Cardona. L'indagato è il vicequestore Massimo Cinti, accusato di falsa testimonianza per aver cercato di coprire le violenze di alcuni agenti avvenute in piazza Manin a danno di pacifisti spagnoli.

- MARCO PREVE

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G8 DI GENOVA, 4 AGENTI RISCHIANO IL POSTO

Domenica 12 Febbraio 2012
Corriere di Bologna

Undici anni dopo Erano al reparto mobile (ex Celere) di Bologna, due sono ancora qui: arrestarono illegalmente due pacifisti spagnoli G8 di Genova, 4 agenti rischiano il posto Interdetti dai pubblici uffici, uno di loro è un sindacalista:
«Paghiamo per tutti»

Rintanato nel suo ufficio sindacale al primo piano della caserma Smiraglia di via Bovi Campeggi, Antonio Cecere fuma una Marlboro dietro l’altra e aspetta di sapere cosa sarà di lui, napoletano di Castellammare, 51 anni, tre figli, sovrintendente del reparto mobile (ex Celere) e segretario bolognese del Siap, terzo sindacato dei poliziotti italiani dopo Siulp e Sap. I casi a quanto pare sono due: o lo cacciano una volta per tutte dalla polizia o lo sospendono per qualche anno. Allo stesso filo sono appesi altri tre agenti, uno — Luciano Beretti, 38 annni — tuttora a Bologna; gli altri due — Marco Neri e Simone Volpini, 36 e 35 — trasferiti a Roma. Sono stati condannati a quattro anni (ridotti a uno per l’indulto) per l’arresto illegale di due spagnoli durante il maledetto G8 di Genova del luglio 2001. Non andranno in carcere ma hanno cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Accadde in piazza Manin, la piazza della Rete Lilliput, delle «mani bianche» e del blocco rosa dove la polizia arrivò inseguendo i «cattivi» vestiti di nero e si abbattè con violenza su gente inerme: ci furono decine di feriti, tra cui l’allora deputata prc Elettra Deiana, una pediatra triestina e qualche bolognese, tutte persone che non avrebbero fatto male a una mosca. Una delle pagine peggiori del G8 di Genova 2001, meno famosa della mattanza alla scuola Diaz e delle torture nella caserma di Bolzaneto.
Dalla centrale raccomandavano via radio di «effettuare fermi», gli unici arrestati furono i due iberici. La sentenza è definitiva,
la Cassazione ha depositato le motivazioni. I poliziotti «bolognesi» saranno i primi in Italia, a quasi undici anni dai fatti, a doversi togliere la divisa. Per sempre, per cinque anni o per due (se applicheranno l’indulto anche all’interdizione). Il procedimento disciplinare si aprirà quando gli atti arriveranno al Viminale. Sarà un precedente importante nell’eventualità che la Cassazione confermi la condanna dei superpoliziotti accusati delle false molotov della Diaz.

«Saremo gli unici a pagare, gli altri li salverà la prescrizione. Non penso a me, a 51 anni senza lavoro, ma alla famiglia e alle famiglie dei miei colleghi», sospira Cecere tra una sigaretta e l’altra. «E pensare che quei ragazzi non li abbiamo toccati, anzi gli abbiamo dato da mangiare». Vero, verissimo, conferma l’avvocato Emanuele Tambuscio, genovese, legale di parte civile per i due spagnoli. Ma è pure vero che li arrestarono senza motivo, attribuendo a uno il lancio di una molotov, all’altro il possesso di un tubo di ferro. «In ordine pubblico non è facile distinguere buoni e cattivi», sottolinea Cecere.
I poliziotti furono smentiti da un filmato: era tutto finito e i due spagnoli si avvicinarono agli uomini in divisa e maschera antigas con un atteggiamento che più pacifico non si può. «Non è così», obietta Cecere. Ma davanti a giudici non ha mai parlato, né ha mai risposto al pm Francesco Albini Cardona: «Me l’ha consigliato l’avvocato», ricorda. Tacere, del resto, era un suo diritto. Ora però gli hanno dato torto. «La sentenza la rispetto, ci mancherebbe, però è stato un processo politico». Giudici comunisti? «Non dico questo, ma quando mai si è visto quattro anni per falso? Neanche le attenuanti, come fossimo delinquenti», dice il poliziotto sindacalista. «Sto pagando 30 mila euro di danni, quando mi sono rotto una spalla in servizio me ne hanno dati 500». Il falso, ad ogni modo, era grave. C’era pure la calunnia: prescritta. Cecere è anche recidivo per calunnia: «Una vecchia storia privata, c’era di mezzo un assegno...», minimizza.

Guai a parlargli del reparto bolognese come di un reparto problematico, i cui uomini finiscono spesso nei guai, dalla falsa
rapina attribuita a un gruppo di nomadi ai denti rotti di una ragazza durante gli incidenti del 12 ottobre 2011 in piazza Cavour. «Ce l’hanno tutti con noi — protesta Cecere — ma poi siamo sempre noi a fare, tra virgolette, il lavoro "sporco", a prenderci gli insulti e gli sputi allo stadio e nelle piazze». I poliziotti li difende tutti, sempre e comunque. «Di destra io? Ma se vengo da una famiglia di comunisti... Noi siamo a-po-li-ti-ci. Certo, gli estremisti di destra almeno rispettano le istituzioni, quelli di sinistra ci odiano».

Alessandro Mantovani
alessandro.mantovani@rcs.it

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G8. IN ARRIVO LE PUNIZIONI PER I CELERINI CONDANNATI E UN'INTERVISTA AUDIO A EMANUELE TAMBUSCIO

Qui trovate l'intervista audio che Giusy Marcante ha fatto questa mattina all'avvocato Emanuele Tambuscio
http://www.archive.org/details/ArrestoIllegaleDeiDueSpagnoliInPiazzaManinGiusiMarcanteIntervista

Fonte: http://radio.rcdc.it/archives/g8-in-arrivo-le-punizioni-per-i-celerini-condannati-95323/
G8. In arrivo le punizioni per i celerini condannati

11 feb. – Saranno i primi poliziotti che subiranno delle conseguenze professionali per fatti accaduti durante il G8 di Genova.
Sono i quattro celerini del VII reparto mobile di Bologna condannati in via definitiva dalla Cassazione per aver arrestato
illegalmente due giovani spagnoli il 20 luglio 2001 in piazza Manin dove si trovavano la rete Lilliput e altre associazioni pacifiste.
Condannati a quattro anni  per falso ideologico e interdetti dai pubblici uffici per cinque anni. Tra di loro c’è anche il segretario bolognese del sindacato di polizia Siap, è Antonio Cecere che in questo momento si è autosospeso dalle sue funzioni in attesa di sapere che provvedimenti prenderà il ministero dell’Interno. Gli altri sono Luciano Beretta, Marco Neri e Simone Volpini. Quello che accadrà a loro dal punto di vista professionale costituirà un precedente anche per gli altri poliziotti le cui sentenze
stanno arrivando in Cassazione, in particolare quelli condannati per la mattanza della scuola Diaz come Francesco Gratteri
(4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici) diventato Prefetto e attuale direttore generale della polizia
criminale. Al Viminale la vicenda è seguita con estrema attenzione e i tempi si stanno stringendo. Anche se gli anni di
interdizione scendessero a due, per effetto dell’indulto del 2006, questi poliziotti dovranno stare lontani dalla divisa,
con conseguenze anche sul loro stipendio

Cecere, trentatre anni di servizio e poco alla pensione, non trattiene un “pagheremo noi per tutto quello che è accaduto”.
Per lui, che quella sera del 20 luglio mise la sua firma sul verbale d’arresto di Adolfo Gonzales Sesma e Luis Alberto
Lorente Garcia, quello non fu un arresto illegale. “E mi assicurai anche che avessero da mangiare” racconta. I due
giovani spagnoli vennero fermati dopo gli scontri in piazza Manin dove gli agenti del settimo erano stati dirottati dal
carcere di Marassi. Accusati di aver lanciato una molotov e un tubo innocenti verso i poliziotti i due ragazzi finirono a Bolzaneto.
L’8 luglio 2009 in primo grado i poliziotti vennero assolti ma in secondo grado, nel luglio 2010, la corte d’appello di
Genova li condannò. E la Cassazione lo scorso dicembre ha confermato. I poliziotti non si sono mai presentati in udienza
e non hanno mai fornito la loro versione dei fatti. Alla base della loro condanna c’è anche un video del collettivo Luna
Rossa.
I fatti di piazza Manin sono visibili su http://www.processig8.org
Pubblicato il 12.02.2012

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CHI S'INDIGNA PER L'EPITETO "PECORELLA", MA NON OSA CRITICARE LA POLIZIA

Fonte: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3331&fromRaggrDet=6

L'innocua provocazione di un manifestante ha creato scandalo in molti commentatori, mentre le manganellate e le cariche gratuite delle forze dell'ordine passano inosservate. E nessuno ricorda nulla dei precedenti, a cominciare da Genova G8. Perché in Italia non si riesce a parlar male della polizia quando se lo merita?

Fa davvero impressione il coro di commenti indignati e perbenisti scatenato dal filmatino che mostra l’innocua provocazione di un manifestante della Val di Susa verso un carabiniere. Si è scomodato Pasolini, si è parlato di squadrismo, si è evocato il rischio di un’escalation di violenze, il tutto senza mostrare il minimo senso del ridicolo, nonostante l’acme della provocazione sia stato individuato - dagli indignati commentatori - nell’epiteto “pecorella”.

Epiteto, peraltro, usato dallo “squadrista” per segnalare alla telecamera che riprendeva la scena, la curiosa condizione che viviamo in Italia, un paese dove i cassieri del supermercato esibiscono sul petto un’etichetta di riconoscimento, ma i poliziotti no: e dire che si tratterebbe di una misura in favore della legalità: o qualcuno ha dimenticato l'impunità ottenuta al G8 di Genova da decine di agenti picchiatori, mai indagati perché non identificabili? (E peraltro nemmeno sottoposti a procedimenti disciplinari, ma questa è una precisa scelta dei vertici delle forze dell'ordine).

Ma in Italia non si può parlare di polizia e forze dell’ordine, se non per omaggiarle, o per scandalizzarsi se un agente fra mille è fatto oggetto di sberleffo. Vorrei chiedere agli indignati commentatori di questi giorni, perché non domandano a chi ha gradi e funzioni di comando, di rispondere ad Alberto Perino, pacifico manifestante che denuncia d’essere stato manganellato senza ragione, riportando la frattura del braccio.

E perché non si indignano, e non si preoccupano per la tenuta democratica del nostro paese, di fronte agli agenti antisommossa che aggrediscono gruppi di cittadini all’interno di una stazione. E ancora: nulla da dire sull’impiego smodato di lacrimogeni, sulle brutalità dello sgombero dell’altra sera a Bussoleno (poche righe in articoli di cronaca del tutto secondari), su Luca Abbà inseguito sul traliccio, o andando indietro di qualche mese sui candelotti sparati ad altezza d’uomo, con sprezzo del pericolo (corso dagli altri) e delle leggi?

Non voglio farne un fatto personale, ma gli indignati commentatori di questi giorni, dov’erano quando dipendenti dello stato, tenuti all’applicazione delle leggi e al rispetto dei diritti costituzionali, massacravano persone inermi durante il G8 del 2001, usando in qualche caso, ad esempio alla scuola Diaz, “armi letali” (definizione del capo del reparto che lo utilizzò) come il manganello denominato Tonfa? Fatti antichi, non pertinenti? Mica tanto, se si pensa che le bravate di Genova, le prove tecniche di colpo di stato, secondo la definizione di Andrea Camilleri (uno che va bene ai benpensanti solo quando scrive fiction), hanno fatto scuola e sono diventate regola.

Sanno o non sanno gli indignati commentatori che la nostra polizia di stato non ha mai rinnegato gli scempi dei corpi e delle leggi compiuti in quelle tragiche giornate? Che non hanno mai chiesto scusa né alle loro vittime dirette né alla cittadinanza? Che i dirigenti - di rango nazionale! - imputati e condannati in appello non hanno subito il minimo rimprovero e oggi occupano posizioni ancora più importanti al vertice della polizia italiana?

Perché non diciamo la verità? La verità è che stiamo subendo un’offensiva autoritaria terribile, con un movimento civile, una fetta importante della popolazione valsusina che vengono criminalizzati, per affermare - più che la volontà di realizzare un’opera inutile e costosa, che non sarà realizzata per mancanza di soldi - un principio di fondo, e cioè che non c’è spazio per mettere in discussione gli affari, cioè i soldi pubblici destinati ad aziende private, né per contestare un modello di
(anti)sviluppo che quanto più è in crisi, tanto meno tollera interferenze di sorta.

Gli indignati commentatori si facciano un esame di coscienza. Si domandino se non stiano partecipando più o meno consapevolmente al teatro della propaganda per la grande opera in quanto tale e si chiedano se la canea scatenata da quella “pecorella” non sia la spia di un accecamento collettivo, di un conformismo così radicato che induce a scandalizzarsi per un epiteto di troppo e a non vedere i manganelli che spezzano le ossa, i lacrimogeni che avvelenano i polmoni, le cariche senza senso e le inutili brutalità contro cittadini che manifestano - che piaccia o meno - il proprio dissenso.

Perché in Italia non è possibile parlare male delle forze di polizia, quando se lo meritano?

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DIAZ, ANCHE UN'ASSOLUZIONE VI CONDANNERÀ

di Lorenzo Guadagnucci - 20 marzo 2012

A giugno il giudizio di Cassazione dopo le condanne inflitte in appello. Ben cinque giorni di udienze! Deciderà la stessa sezione che ha valutato il caso Dell'Utri. Il potere politico si aspetta che le cose siano "rimesse a posto". Ma la condotta tenuta in questi anni dai vertici di polizia, a fronte di fatti storici incontestabili, rende impossibile il recupero di dignità e credibilità.

Quando i giudici del tribunale di Genova, nel maggio 2010, condannarono in appello dirigenti e funzionari coinvolti nell'operazione Diaz, il potere politico giustificò la sua inerzia richiamando il giudizio divino della Cassazione. Solo dopo che la corte di terzo grado si sarà espressa, spiegarono, si potrà eventualmente pensare di fare qualcosa. Quindi no a sospensioni, dimissioni, a qualsivoglia intervento che possa ripristinare la dignità delle istituzioni, compromessa dalle violenze e dai falsi commessi alla scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001 (e dalla loro copertura e legittimazione successiva).

La Cassazione fu chiamata da ministri e leader politici di entrambi i principali schieramenti a "salvare la patria", sottoforma di rigetto dell'inattesa sentenza di secondo grado, che accoglieva la richiesta dei pm e infliggeva pene imbarazzanti a dirigenti di polizia che scelsero undici anni fa - complici i vertici istituzionali - di non dare spiegazioni sull'infamante operazione denominata "perquisizione alla scuola Diaz" e di affrontare i processi cercando di salvarsi dai rigori della legge, trascurando le evidenti implicazioni morali, professionali, politiche.

Ora il giudizio della Cassazione si avvicina (10-15 giugno) e sarà davvero una specie di giudizio divino, viste le sue caratteristiche: due relatori, ben cinque giorni di udienze: neanche per il maxi processo a Cosa Nostra si era mobilitato niente del genere. Le cronache (vedi sotto articolo del Secolo XIX) dicono che la sezione giudicante sarà la stessa che ha recentemente rinviato in appello Marcello Dell'Utri, mentre il procuratore sarà lo stesso che ha chiesto e ottenuto l'assoluzione dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro.

Succederà quello che dovrà succedere, ma una cosa già la sappiamo: la caduta di dignità e di credibilità, causata dal comportamento tenuto  dalla polizia di stato in questi undici anni a fronte di fatti storici incontestatibili (pestaggio sistematico di 93 innocenti, sfiorato omicidio di Mark Covell, ricostruzione falsa dei fatti, arresti sulla base di prove inventate, boicottaggio dell'inchiesta), non potrà essere cancellata nemmeno da un'assoluzione, e men che mai da una provvidenziale prescrizione. Da cittadini, si prova un senso di pena, a constatare il crescente degrado delle istituzioni. 

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Il Secolo XIX - 20 Marzo 2012

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CASSAZIONE L’11 GIUGNO: PRESCRITTE LE CONDANNE DEI DIRIGENTI DI POLIZIA SE CI SARÀ NUOVO PROCESSO

Massacro alla Diaz, gli stessi giudici del caso Dell’Utri

MARCO GRASSO e MATTEO INDICE

A PRONUNCIARE il verdetto decisivo sul massacro alla scuola Diaz nei giorni del G8 2001, sarà la stessa sezione della Suprema Corte che nei giorni scorsi ha cancellato le responsabilità del senatore Pdl Marcello Dell’Utri. E l'att0 finale del processo a carico dei poliziotti imputati per il blitz, che arriva dopo due sentenze discordanti: quella di primo grado ha assolto i superdirigenti dall’accusa di aver falsificato i verbali; quella in secondo li ha condannati. L’udienza é stata fissata giugno di fronte al secondo collegio della quinta sezione della Cassazione, e si protrarrà per cinque giorni (fino al 15). Un'infinità per i tempi del tribunale di ultima istanza, che solitamente liquida in una sola giornata anche i procedimenti complicati. Ma questa non è una sentenza come tante altre. La mole degli atti infatti potrebbe spingere ad accorpare diverse sezioni. In ballo ci sono i destini di imputati che oggi sono ai vertici della polizia italiana. A presiedere la corte sarà il giudice Aldo Grassi, storico esponente di magistratura indipendente, la corrente più conservatrice della magistratura. Nei giorni scorsi il magistrato è stato al centro d’una dura polemica a seguito della sentenza che ha disposto l'annullamento della condanna di secondo grado, otto anni, a Dell'Utri per concorso esterno in associazione (il nuovo processo a carico dell'esponente Pdl farà infatti scattare la prescrizione, ndr). Il caso Diaz rientra nelle competenze della medesima sezione, specializzata in reati commessi nell’amministrazione della giustizia.

Si riparte dal verdetto di appello, che ha condannato sia la mano che la mente del raid nell’istituto dov’erano alloggiati 93 noglobal, sorpresi nel sonno e massacrati di botte. Erano le 23 del 21 luglio 2001, l'ultimo giorno del vertice del G8 di Genova. Una data che, secondo i giudici di secondo grado, sarà ricordata come la notte «che disonora l'italia agli occhi del mondo intero», quella in cui «i diritti fondamentali dell'uomo furono sospesi».

In primo grado, il tribunale di Genova, corte presieduta da Gabrio Barone, autorevole esponente di magistratura indipendente, il processo si chiuse con 13 condanne e un totale di 35 anni e 7 mesi di reclusione per i pestaggi. Tante anche le assoluzioni sedici, quasi tutti i «generali» scesi sul campo insieme alle truppe.

Il secondo grado ribalta completamente quella chiave di lettura. A presiedere la sezione questa volta è Salvatore Sinagra, oggi in pensione, per anni esponente di magistratura democratica, ala progressista della magistratura, prima di sbattere la porta in aperta polemica con il “correntismo” nell’Anm. Vengono condannati 25 imputati su 27, la pena complessiva sale a 85 anni. Pesano soprattutto i falsi, per i verbali di arresto taroccati, il reato pesante in questo contesto, delle lesioni contestate ai picchiatori. E compaiono nomi altisonanti fra quelli dei responsabili. Francesco Gratteri, oggi numero tre della polizia italiana (4 anni); Giovanni Luperi, attuale capo analista dei servizi segreti (4 anni); Gilberto Caldarozzi, vertice dello Servizio centrale operativo, superinvestigatore che ha indagato su Provenzano e sul caso Yara (3 anni e 8 mesi); Spartaco Mortola, ex capo Digos a Genova e al momento direttore della Polfer piemontese (3 anni e 8 mesi); Vincenzo Canterini, ex comandante del primo reparto mobile di Roma (5 anni). Condanne che non hanno portato conseguenze nella carriera dei superpoliziotti, colpevoli e promossi alla direzione di squadre mobili, come Filippo Ferri a Firenze, Salvatore Gava all’Aqui1a, Fabio Ciccimarra a Taranto. Se la Cassazione confermasse quella sentenza, la polizia italiana dovrebbe fare tabula rasa di personaggi di spicco. Un’altra possibilità è l'annullamento del processo, che in sostanza riporterebbe indietro le lancette a un nuovo appello, in cui però la prescrizione sarebbe quasi certa. La Suprema corte potrebbe anche ribaltare il verdetto e assolvere direttamente gli imputati. Come successe per Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e oggi numero uno dei servizi segreti. Condannato in appello, assolto in Cassazione dall’accusa di aver fatto pressioni per modificare le testimonianze sulla Diaz. In quel caso fu il procuratore generale Francesco Iacoviello (vedi box) a chiedere direttamente l’assoluzione.

grasso@ilsecoloxix.it

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DIAZ, CRONACA DI UN MASSACRO QUEL SANGUE NON ANCORA LAVATO

Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/03/22/diaz-cronaca-di-un-massacro-quel-sangue.html

22 marzo 2012 —   pagina 6   sezione: GENOVA

TRA una settimana esatta, giovedì 29 marzo, il cinema Corallo di via Innocenzo IV ospiterà l' anteprima italiana del film "Diaz" di Daniele Vicari, vincitore del premio per il pubblico al recente Festival di Berlino e dal 13 aprile in programmazione in tutte le sale. L' appuntamento è un doveroso omaggio al capoluogo ligure, teatro suo malgrado di quella che Amnesty International ha definito "la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale". Ed è soprattutto una grande occasione, forse l' ultima, per rileggere una pagina di storia che è appena stata scritta, ma che molti di noi hanno colpevolmente rimosso. L' orrore della storia. Il sanguinario assalto alla scuola di via Cesare Battisti. Il massacro dei 93 ospiti, che accolsero a braccia alzate i "celerini" del famigerato - e oggi disciolto - VII Nucleo. Le false prove create ad hoc dalla polizia per "giustificare" la macelleria e il tentato omicidio di un giornalista inglese. Gli arresti illegali, i verbali fasulli. Le complicità e i silenzi di tutte le forze dell' ordine: dagli uomini ai vertici del ministero dell' Interno - capo del dicastero c' era Claudio Scajola, il numero uno della polizia era Gianni De Gennaro - all' ultimo degli agenti. E poi ancora la guerriglia urbana, la violenza del Blocco Nero, gli orrori della caserma di Bolzaneto. In "Diaz" c' è tutto questo. Ed è raccontato con uno straordinario rigore, una assoluta attenzione ai dettagli. E' un film che racconta i fatti, senza prendere posizione. Nessun approccio ideologico. Non c' è bisogno di farlo. Basta affidarsi alla storia. La storia così come emerge in tutte quelle udienze del processo che i genovesi disertarono, a parte le prime date, e che invece Vicari ha voluto riproporre in tutta la loro forza. Ecco come è andata il 20 luglio del 2001. Questa è la verità. Non la dimenticate. Mai. Una poltrona da solo. Due settimane fa sono state organizzate due proiezioni del film per pochi invitati. Gli addetti ai lavori, diciamo così. Una a Milano. Tra i presenti mi risulta ci fossero Salvatore Sinagra, che era il presidente della Corte d' Appello del processo Diaz. Giuseppe Diomede, il giudice che ha scritto quella sentenza: 27 imputati, tra superpoliziotti e funzionari, tutti colpevoli. Enrico Zucca, il pm che per anni ha sostenuto l' accusa, e che per anni ha dovuto sopportare gli attacchi e le trappole di chi non accettava di essere messo in discussione. La seconda al cinema Barberini, a Roma. Io ero lì, con un altro ligure (Dario Freccero), Michele Santoro e il suo storico collaboratore Sandro Ruotolo, poi un giovane regista romano che tutti conoscono come Zoro e altri due o tre invitati. Mi sono scelto una bella poltrona lontano da tutti. Ero arrivato con qualche pregiudizio. Perché questa vicenda l' ho seguita ogni giorno per dieci anni. Ho imparato che ognuno la racconta sempre a modo suo. Amplificando e distorcendo, dimenticando o inventando di sana pianta, in buona o cattiva fede. Questa volta no. Me ne sono accorto dopo qualche minuto. E invece non mi sono accorto che avevo cominciato a commuovermi. Credo che molti genovesi piangeranno, guardando questo film. Mortola, che baffoni. C' è un aspetto surreale e in qualche modo divertente, nella pellicola. Gli sceneggiatori hanno naturalmente cambiato i nomi dei protagonisti. L' attore Claudio Santamaria ad esempio interpreta il ruolo del funzionario che guida l' assalto dei poliziotti armati di "tonfa" e all' improvviso è per un attimo consapevole della follia sanguinaria. Grida: "Basta, basta". Ma poi torna allineato e coperto con i suoi uomini. Si chiama Max Flamini, sullo schermo. Nella realtà è Massimiliano Fournier, quello che in tribunale denunciò la "macelleria messicana". Esiste naturalmente anche uno Spartaco Mortola, il genovese che nel 2001 era capo della Digos e in questa storia è impatanato fino al collo. Bene: Mortola, nella realtà magro e pelato, il "Diaz"è diventato tarchiato, bruno e con i baffoni. Parla in dialetto emiliano. C' è anche Arnaldo La Barbera, il super prefetto che molti - compresi i suoi colleghi - accusarono di essere l' uomo nero venuto da Roma per dare un giro di vite violento ed esemplare, e che morì un anno dopo i fatti: qui è una figura lucida e inquietante, si chiama Carnera. "Un film necessario". «Questo film è necessario. Ora, prima che sia troppo tardi. Di solito vicende così si raccontano al cinema cinquant'anni dopo, quando non c' è più nessuno cui chiedere conto». Claudio Santamaria racconta "Diaz" domani su Il Venerdì di Repubblica, che al film di Daniele Vicari dedica un ampio servizio. Parla anche il regista, che regala un' ultima, amara riflessione sulla assoluta mancanza d' assunzione di responsabilità, in questa pagine nera della storia d' Italia. «Nessun politico, nessun funzionario di polizia, nessun agente. Perché mai uno dei picchiatori avrebbe dovuto ammettere di aver sbagliato, se quelli sopra di lui negavano anche l' evidenza? In questo paese si segue la corrente. Non ci si ferma, anche se andiamo verso il baratro».

- MASSIMO CALANDRI

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"DIAZ", TRA FICTION E REALTÀ: VIDEO DI LORENZO GUADAGNUCCI ED INTERVISTA AD ENRICO ZUCCA

Fonte: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3374&fromRaggrDet=6
Interni I commenti di Enrico Zucca e Lorenzo Guadagnucci 
"Diaz", tra fiction e realtà 
Esce nelle sale il film di Fandango sulla “macelleria messicana” durante il G8 di Genova, nel 2001. Ma manca una riflessione sul ruolo della Polizia di Stato.
Qui la videorecensione di Lorenzo Guadagnucci (dal canale Youtube di Altreconomia)
http://www.youtube.com/watch?v=P1G2vqILsFU
di Pietro Raitano - 28 marzo 2012

Undici anni dopo, il sangue della scuola Diaz è al cinema. “Diaz. Don’t clean up this blood” è il film di Daniele Vicari (prodotto da Domenico Procacci) che ricostruisce la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, quando 200 agenti di polizia irruppero nel “dormitorio” che ospitava i manifestanti venuti a Genova per il summit dei G8, in via Battisti, seminando manganellate, violenza, paura, menzogne. Il film è nelle sale italiane dal 13 aprile, dopo essere stato presentato al 62° Festival del cinema di Berlino (dove ha vinto il premio del pubblico). Noi di Altreconomia eravamo davanti alla Diaz  quella notte. Dentro c’era il nostro collega Lorenzo Guadagnucci, che ha vissuto sulla sua pelle quella che Amnesty ha definito la più grave violazione dei diritti umani dalla Seconda guerra mondiale. Abbiamo visto il film in anteprima, a inizio marzo, con Enrico Zucca, Sostituto procuratore generale a Genova, pubblico ministero nel processo Diaz -quello dov’erano imputati 29 appartenenti alle forze dell’ordine-. Quello di Vicari è un film violento, duro, difficile da digerire. È stato girato in Romania, ma sembra un documentario per la resa realistica delle immagini. I nomi sono stati cambiati, ma tutti i protagonisti sono ben riconoscibili.  
Con Enrico Zucca e con Lorenzo prendiamo spunto dal film per “ritornare” a Genova, a quella notte. E a tutto quello che ne è seguito. 

Zucca: “La tecnica è quella realistica dei film di guerra, si ha la sensazione di essere dentro la Diaz, al momento del blitz contro i ribelli il cui covo è stato individuato. La violenza della reazione è sempre in primo piano, quasi ripetitiva e ossessiva. Vuole disturbare, mettere a disagio. Talora il film è esageratamente filologico: quanto raccontato nel processo è riprodotto fedelmente. Eppure, se guardiamo proprio alla vicenda personale di Guadagnucci (che nel film viene chiamato Luca Gualtieri ed è interpretato da Elio Germano, ndr), la violenza da lui subita e testimoniata è stata maggiore. La ferocia, la follia e l’odio degli assalitori che colpiscono lui e i suoi casuali vicini di sventura, non si vedono. La giovane americana che gli sta accanto in ginocchio, aspettando l’arrivo dei poliziotti in posizione di resa, e che viene colpita per prima con un calcio che la fa cadere all’indietro, non si vede. Non si coglie la progressione della violenza sui feriti, che diventa tortura, poiché ritorsiva e ingiustificata. Altre scene fra le più cruente che ci si aspetterebbe di vedere non ci sono. Lena, una giovane tedesca, e il suo compagno si rifugiano in uno sgabuzzino al quarto piano. La polizia arriva: Lena viene picchiata e trascinata per i capelli per due rampe di scale. Nel film il poliziotto la trascina a corpo morto, ma non per i capelli. Chi conosce la vicenda processuale scopre che il regista sorprendentemente rinuncia a descrivere alcune delle azioni più brutali. Il pestaggio di Mark Covell, per quanto in evidenza, è ripreso trascurando l’esposizione del corpo esanime per lungo tempo prima di ricevere i soccorsi. Dettagli? I fatti sono già così intollerabili che lo spettatore ignaro probabilmente immagina che il regista abbia invece esagerato. L’esposizione della violenza, cui sembra essere affidata una funzione di per sé valutativa, è tuttavia riduttiva rispetto ai fatti reali, quasi come se l’autore si sia contenuto per timore di apparire non credibile. 
D’altro lato, le scene che riguardano Bolzaneto sono più caricate: un segno di maggiore libertà narrativa che dimostra come gli abusi nell’uno e nell’altro contesto sono stati diversamente ammessi e stigmatizzati di fronte all’opinione pubblica. 
Va detto che se la scelta è quella di far parlare i fatti, allora non c’è spazio per l’equilibrio. Le cose vanno viste come sono. I giudizi e le riflessioni possono invece essere equilibrati, ma se uno cerca l’equilibrio nel racconto è già fuori dal reale”. 

Lorenzo: “Vedrò il film all’uscita nelle sale, quindi non posso dire niente su questo punto. Ripensando però a quello che ho vissuto, credo che l’aspetto più difficile da restituire al pubblico, di quanto accaduto dentro la scuola, sia la paura. Per me, il momento più duro di quella notte è stato dopo il pestaggio. In quel momento eravamo nella palestra al pian terreno, da una parte i feriti, dall’altra chi stava meglio, sotto il pieno controllo degli agenti. In quel frangente, che è stato molto lungo, molti di noi hanno avuto paura di essere solo all’inizio della disavventura. Qualcuno ha pensato a un colpo di Stato, altri hanno avuto il timore d’essere uccisi: le minacce e le affermazioni dei poliziotti legittimavano questi pensieri. Ricordo i pianti, il terrore, il sentirsi inermi di fronte a persone che avevano il dominio della situazione. Solo l’arrivo della prima ambulanza ha rotto questo clima”. 

Zucca: “Il film asseconda la versione che il massacro cessa perché Michelangelo Fournier (capo del VII nucleo sperimentale del I reparto mobile di Roma, nel film chiamato Max Flamini e interpretato da Claudio Santamaria, ndr),  pensa che una giovane tedesca, Melanie J., sia morta dopo il pestaggio che subisce. La scena è ben ricostruita. Addirittura c’è il dettaglio di Fournier che cerca -con un calcetto- di capire se la ragazza dà segni di vita. Un gesto significativo di uno stato d’animo: non è un soldato che si china su un ferito...”. 

Lorenzo: “Questo è un aspetto che non è stato colto: il fatto che alla scuola Diaz non sia morto nessuno è un evento casuale. Lo stesso Fournier -quello che ha descritto la Diaz come una ‘macelleria messicana’- ha detto in tribunale che il manganello ‘tonfa’, per come è presentato agli stessi agenti che dovranno utilizzarlo, è un arma potenzialmente letale. Gli agenti picchiatori, alla scuola Diaz, hanno agito prendendosi il rischio di uccidere. Io stesso ricordo una gragnuola di colpi, contro di me, sferrati senza il minimo riguardo: ho protetto la testa con le braccia, ritrovandomi con gli avambracci scarnificati. Se quei colpi mi avessero raggiunto alla testa... Del resto l’episodio di Melanie parla chiaro: quella macchia rossa vicino alla sua testa non era materia cerebrale, ma poteva esserlo...”.

Lorenzo, tu e il Comitato “Verità e giustizia per Genova” siete stati coinvolti nella realizzazione del film? 
“Non c’è stato coinvolgimento. Incontrai il produttore Domenico Procacci e il regista Daniele Vicari all’inizio del loro lavoro, prima ancora che ci fosse una sceneggiatura, forse tre anni fa. Fu uno scambio di idee, poi loro proseguirono per la loro strada. Solo un paio di volte Vicari mi chiese poi delle informazioni, ma solo per qualche dettaglio. Hanno lavorato in piena autonomia, senza coinvolgere me né il Comitato. È una scelta del tutto legittima, che non mi ha creato alcun disagio: stiamo parlando di fatti storici, che ciascuno può far propri ed elaborare in un libro, un film, un documentario, un fumetto, come tanti altri hanno fatto. Il problema con la Fandango è nato quando hanno annunciato l’avvio delle riprese. Il produttore precisò che non sarebbe stato un film contro la Polizia e disse di avere inviato la sceneggiatura al capo della Polizia, Antonio Manganelli. Su questo punto il mio dissenso è stato netto. E lo confermo. Quando si realizza un’opera come questa, cioè il racconto con lo strumento del cinema di un gravissimo caso di abuso di potere, compiuto da un corpo dello Stato che nel frattempo non lo ha rinnegato, né ha cambiato i propri vertici, io credo che si compia un’operazione politico-culturale che comprende non solo la pellicola, cioè il film che si vedrà nelle sale, ma anche il discorso pubblico che si costruisce intorno alla realizzazione del film. A cominciare dal primo annuncio pubblico, che infatti guadagnò importanti titoli sui giornali. In quel momento Domenico Procacci, come ho avuto modo di dirgli anche di persona, ha fatto un grave errore, perché la sua apertura al capo della Polizia è stata del tutto gratuita e immeritata, e ha creato quindi grande ambiguità. Voglio spiegare bene che cosa intendo dire: sono stato fra i primi a cercare un dialogo con le forze dell’ordine, organizzando a Genova -con Altreconomia e Peacelink- un convegno con le vittime della Diaz e i sindacalisti di polizia, addirittura nel luglio 2002, quindi con le ferite ancora freschissime. Fu un’apertura che denotava grande maturità da parte delle vittime degli abusi, ma che non fu colta da nessuno. Poteva dare esiti importanti, originali, creativi, e fu invece lasciata cadere. Il dialogo è importante, ma per essere una cosa seria, deve rispettare certe condizioni, altrimenti diventa una capitolazione di fronte al più forte, a chi detiene il potere. Non ha senso proporre oggi un’apertura di credito unilaterale a vertici della polizia che nell’insieme in questi anni hanno operato in maniera assolutamente inaccettabile, senza compiere un solo gesto di ripudio di quell’episodio, senza mai chiedere scusa, arrivando a ostacolare la stessa inchiesta della magistratura, come più volte denunciato dagli stessi magistrati della pubblica accusa. A undici anni di distanza, non possiamo ignorare le promozioni dei funzionari sotto inchiesta, la scelta di 25 imputati su 27 di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande dei pm, la totale impermeabilità allo stesso esito del processo d’appello, che ha portato a condanne pesanti per altissimi dirigenti di polizia, rimasti tutti al loro posto: in qualsiasi altro Paese europeo sarebbero stati sospesi dagli incarichi. Se la Polizia di Stato, i suoi vertici, in questi undici anni avessero agito con lealtà e trasparenza, chiedendo scusa, rimuovendo i funzionari imputati, avviando azioni disciplinari contro gli agenti picchiatori, allora sì avrebbe avuto senso la proposta di dialogo da parte di Procacci. Ma non è questa la nostra condizione. Perciò quell’apertura di credito unilaterale era ed è del tutto fuori luogo”. 

Zucca: “Spenderei però una parola a ‘difesa’. I fatti della Diaz sono nella sostanza raccontati -magari non tutti con il giusto approfondimento, né con la giusta attenzione e chiarezza di messaggio, ma ci sono-. La critica ai limiti e alle cautele del film non può prescindere dal riconoscimento della drammatica limitazione della libertà di informazione sulla vicenda nel contesto italiano. Sono i media italiani che si sono paralizzati quando sono emerse responsabilità più vaste, quei media che hanno taciuto anche durante lo svolgimento del giudizio in cui le testimonianze raccontavano quello che ora osa mostrare solo il film. Lo stesso hanno fatto la politica e le istituzioni, che hanno coperto e rimosso. Il film cautamente si adegua e non solo, in alcuni passi ricostruttivi, sceglie la versione degli imputati, rispetto a quella contrastante delle vittime. Se vogliamo, l’unico messaggio netto che ha dato è che i black bloc erano (anche) alla Diaz. Questo non risparmierà certo al film l’ostracismo e il rischio di uscire dal circuito più vasto, perché il corpo di polizia all’opera alla Diaz, nel volto più favorevole che può mostrare, che non è completamente marcio, raggiunge solo il cinismo indifferente”. 

Lorenzo: “Sono passati 11 anni e sono successe tante cose. Io capisco la scelta di raccontare un episodio così grave e cruento per mostrarlo, visto che non ci sono state immagini a documentarlo, almeno non all’interno della scuola. Ma a distanza di tanto tempo, se c’è una cosa importante da far capire ai cittadini rispetto a quel che sta accadendo nella Polizia, nei poteri, nelle relazioni fra i cittadini e le autorità, è che si è creato un precedente, tra violenze e falsificazioni. Io penso che sia peggio quello che è successo dopo la notte alla Diaz che non il pestaggio in sé. Poteva esserci una risposta democratica, liberatrice, delle istituzioni a quell’episodio, in modo da circoscriverlo. Invece si è scelto di leggittimare quegli abusi, di tutelarne i responsabili -responsabili intendo sotto il profilo morale e professionale, al di là delle questioni  penali-. Così a quel danno, già grave, si è aggiunto un carico di sistematiche violazioni dell’etica democratica, nei rapporti coi cittadini e con la magistratura, fino a degradare l’immagine della polizia di stato e la sua capacità di mantenersi lungo i binari della correttezza istituzionale.  Ecco, a 11 anni di distanza, qual è l’informazione vera da trasmettersi. Concentrarsi sul racconto del pestaggio, per me, è troppo poco”. 

Zucca: “Non si è trattato della solita vicenda italiana: incompetenza e mano pesante. In realtà ci sono le deviazioni tipiche degli episodi più bui nella storia repubblicana, con i depistaggi, le omissioni, i silenzi. È il deragliamento degli apparati dello Stato, che finora nelle democrazie era emerso solo in situazioni di guerra o di seri attacchi di tipo eversivo, attuato in un contesto che è invece quello dei più modesti binari di gestione dell’ordine pubblico, per quanto gravi gli atti di contestazione violenta nel G8. 
Questo aspetto il film non lo rappresenta con il dovuto risalto, ma solo implicitamente, quando mostra la perquisizione con modalità anomale, la vicenda delle molotov (portate nella scuola di proposito dalla Polizia, ndr). Tutta la falsa costruzione delle prove è narrata velocemente e rimanda a informazioni che il film non offre. La chiave di lettura, che in apparenza è forte e quasi provocatoria, allude a scenari grandiosi da complotto ordito dall’alto, nella pur realistica rappresentazione del funzionario venuto da Roma (Arnaldo La Barbera, direttore dell’Ucigos, la struttura antiterrorismo di coordinamento delle Digos italiane: è morto nel 2002, ndr). Spesso quando si tuona contro i nemici lontani e inafferrabili si teme di affrontare quelli più vicini e visibili. Il film utilizza la efficace tecnica di inserire in sequenza filmati originali e quelli della fiction, assolutamente identici. Tuttavia nel filmato reale colpisce la presenza dei funzionari che comandano l’operazione, un ‘direttorio’ spesso riunito sul campo che decide nelle svolte cruciali. Quel gruppo che è protagonista, nella sua presenza ostentata, scompare invece dal film, nella ricostruzione del teatro della tragedia. La raffigurazione mancante è tuttavia fondamentale perché si possa formulare un giudizio. Quanti sanno che quei funzionari presenti, ma ‘scomparsi’, si sono dichiarati estranei sostenendo soltanto di essere arrivati qualche minuto dopo, quando tutto era ‘finito’ e di non aver potuto neppure immaginare la provenienza della violenza? Eppure dalle decisioni di quei vertici sono scaturiti i verbali d’arresto per i 93 occupanti della Diaz, cioè l’umiliazione totale e finale: mettere le vittime nella condizione di doversi giustificare. Alla denuncia di questa umiliazione il film non contribuisce e rimane pertanto una storia a metà, come se non ci fossero le condizioni per raccontarla tutta. Ma anche con queste riserve il film è l’occasione per non perdere la memoria degli eventi, in una democrazia che non ha ancora maturato consapevolezza del suo vero malessere”. 

Lorenzo: “Per questo dobbiamo evitare che la conclusione dei processi, e questo stesso film, siano una sorta di ‘consegna alla storia’ di qualcosa di concluso. La vicenda non è affatto chiusa. Un film sulle violenze alla Diaz si poteva fare già nel 2002. E avrebbe aiutato. Nel 2012 non possiamo permetterci di fare un salto indietro di 11 anni, pensando che il problema sia il fatto in sé. La poca credibilità democratica dell’istituzione Polizia di Stato è il problema”. ---

Un po' di storia
Per l’irruzione alla scuola Diaz-Pertini sono stati imputati 29 agenti, funzionari e dirigenti della Polizia di Stato. La sentenza di primo grado è stata pronunciata oltre otto anni dopo, il 13 novembre 2008, e ha sancito la condanna di 13 imputati. Il 18 maggio 2010, la sentenza d’appello: condannati 25 imputati, un assolto e due prescritti. Fra i condannati (al massimo 4 anni di carcere) figurano altissimi dirigenti della polizia e dei servizi segreti, come Francesco Gratteri, all’epoca direttore del Servizio centrale operativo (Sco) della Polizia di Stato e oggi capo della Direzione centrale anticrimine; Giovanni Luperi, all’epoca vicedirettore dell’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali (Ucigos, oggi Direzione centrale della polizia di prevenzione, Dcpp) e oggi capo del Dipartimento analisi dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi, il servizio “segreto” civile); Gilberto Caldarozzi, all’epoca vicedirettore e oggi direttore dello Sco. L’11 giugno inizieranno i lavori della Corte di Cassazione: dureranno per 5 giorni, al termine dei quali sarà emessa la sentenza definitiva di terzo grado. Per il procedimento sono stati nominati ben due relatori, eventualità rara: indice chiaro della complessità della vicenda.

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IL TRAUMA DEL G8 IN DIAZ: UNA COMMISSIONE PER LA VERITÀ E LA RICONCILIAZIONE?

[Ancora su Diaz un post interessante di TRAME - Centro di studi interdisciplinare su memorie e traumi culturali che riassume parte del dibattito e prova a fare un parallelo con Romanzo di una strage. Di mio aggiungo solo un paio di cose
- C'è una differenza. Della Diaz e di molte altre cose successe a Genova sappiamo tutto. Le prove sono inconfutabili. E questo al di là di come si pronunceranno i giudici a giugno. Ovvero se sanciranno anche con una sentenza queste evidenze. Di questo nel film non si parla ma sono una buona parte delle risposte alle domande che Vicari auspica che il film ingeneri nel pubblico. A Piazza Fontana, e a Piazza della Loggia per rimanere nella cronaca, come ha scritto ieri perfino il Corsera i depistaggi hanno fatto in tempo a cancellare le prove con il risultato di inficiare anche il percorso in tribunale.
- Alla Diaz erano coinvolti solo i poliziotti, i Carabinieri hanno avuto un altro ruolo a Genova. Per esempio nella carica illegittima, e sfuggita a qualsiasi controllo della questura, al corteo dei disobbedienti. Che per questo ha opposto "legittima difesa" come ha scritto anche il tribunale.
E faccio notare che in questi giorni non si sono sentite voci provenienti da parte di questa istituzione. Anche perché non ha rappresentanti sindacali. Il che è solo una delle tante questioni politiche a margine di tutta la vicenda.

"Sembra che film come questi, ma anche Romanzo di una strage, abbiano un’altra funzione: quella di elaborare il trauma e di promuovere una memoria condivisa, come se fossero delle specie di commissioni alternative per la verità e la riconciliazione. Nel film di Giordana, questo avviene tramite l’idea stessa che ci furono due bombe, una anarchica e una di destra, o anche nel modo in cui i personaggi di Calabrese e di Pinelli si specchiano: nonostante appartengano a due parti ideologicamente opposte, lo spettatore non può che simpatizzare con entrambi. In altre parole, c’è una specie di “spartizione” delle colpe, dove nessuno è colpevole e tutti sono colpevoli. Diaz usa un meccanismo un po’ diverso ma l’effetto è simile: identifica i due colpevoli – i Black Block e la polizia – ma li fa pentire pubblicamente. Lascia allora in mezzo le vittime, come se questi si trovassero semplicemente nel posto sbagliato nel momento sbagliato, e più che un problema che ci riguarda tutti – in quanto cittadini di una Stato che chiaramente accetta (se non sollecita) questo tipo di comportamento dai suoi funzionari – viene presentato come un’operazione di ordine pubblico sfuggita al controllo. Per avere un’idea più complessiva, il nostro ‘dovere civile’ sarebbe di vedere anche il documentario dal titolo provocatorio di Carlo A. Bachschmidt, andato in onda (troppo tardi nella serata) su Rai3 pochi giorni dopo l’uscita di Diaz: Black Block."]

Fonte: http://centrotrame.wordpress.com/2012/04/16/diaz/
l trauma del G8 in Diaz: una commissione per la verità e la riconciliazione?
DI ANDREA HAJEK

A poche settimane dall’uscita di Romanzo di una strage, il nuovo film di Marco Tullio Giordana su Piazza Fontana, nelle sale italiane arriva un altro brutto ricordo del nostro passato: Diaz. Non pulire quel sangue (Daniele Vicari, 2012). Un film difficile che fa discutere ancora di più, soprattutto per la distanza minore che lo separa dai fatti traumatici rappresentati, cioè la violenza esercitata dalla polizia sui manifestanti no global che si trovarono all’interno della ex-scuola A. Diaz,adibita a dormitorio durante il G8 a Genova nel 2001, e le torture inflitte sui 61 arrestati nella caserma del Bolzaneto, nei giorni seguenti. Non un film dunque sulla morte di Carlo Giuliani, che avvenne il giorno prima, ma su un incidente ancora più macabro e, soprattutto, meno mediatico.

Molti hanno ancora una memoria diretta degli scontri, che siano stati fisicamente a Genova o che abbiano vissuto quei giorni tramite i mass media, e quindi la ferita è più ‘fresca’ rispetto alle stragi degli anni ’70. Di conseguenza, è più difficile arrivare ad una versione che tutti possano condividere, visto anche il forte carattere ideologico di quello scontro e delle memorie individuali e collettive dei suoi vari protagonisti e testimoni, che si rispecchiano anche nelle critiche al film. Così Vittorio Agnoletto – leader del Genoa Social Forum – sul quotidiano comunista Il Manifesto critica, tra l’altro, il fatto che Diaz non spiega che cosa ha portato i 300.000 manifestanti a Genova nel 2001 (11 aprile 2012). Altre voci dalla sinistra replicano invece che non importa poi così tanto, perché ‘quello successo alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto – ovvero la sospensione della democrazia – non è mai giustificabile. MAI’ (Giacomo Russa Spena, Caro Agnoletto, ti sbagli di grosso…).

Anche dal centro e da destra arrivano letture diverse: La Stampa incita i suoi lettori a vedere il film per ‘dovere civile’, parlando di ‘una testimonianza artistica indelebile grazie alla quale la ferita possa finalmente sanarsi’ (Antonio Scurati, Diaz, il film che sana una ferita), e Il Sole 24 Ore lo descrive ‘un capolavoro senza se e senza ma’ (Boris Solazzo, Diaz capolavoro e Morante buon esordio: il meglio viene dall’Italia). Un giornalista de Il Giornale dichiaratamente di parte riguardo ai fatti di Genova , invece, rievoca con esagerazione ‘le devastazioni e la morte di Carlo Giuliani con un estintore in mano pronto per essere scagliato contro la camionetta dei carabinieri’ (Alessandro Gnocchi, Diaz, Scurati ha visto solo metà film). Certo, contro un estintore (vuoto) lanciato da un ragazzo alto 1,65 m, una camionetta blindata non ha alcuna possibilità! Questo tanto per capire quant’è ancora facile fare polemica sul G8.

Tutto sommato, sia per Agnoletto che per Il Giornale si è detto troppo poco, ma per motivi diversi. Questo mette in evidenza quanto la memoria dell’assalto alla Diaz non sia tuttora condivisa, nonostante le sentenze ottenute. Eppure Diaz ci prova. Prova a creare condivisione, innanzitutto nel mostrare la violenza gratuita e selvaggia dei carabinieri – ritratti come un branco di cani da caccia che nemmeno i propri superiori riescono a tenere – e sulla quale la critica sembra in generale d’accordo, sia a destra che a sinistra. Il problema sta nella questione di chi ha avuto la responsabilità per quella ‘macelleria messicana’. Su questo piano Diaz svolge un lavoro simbolico che potrebbe essere interpretato in termini di rielaborazione di un trauma, e di riconciliazione: mi riferisco in particolare alla scena dove il dirigente di polizia che ha il comando operativo del suo reparto durante la irruzione nella Diaz (Claudio Santamaria, che molti ricorderanno – ironicamente – nei panni di Andrea Pazienza, eroe di uno degli ultimi movimenti di protesta degli anni ’70), chiede scusa ad una delle vittime del massacro. Questo ‘I’m sorry’ (la ragazza è straniera) sembra un mea culpa pubblico inteso a ottenere una riconciliazione simbolica di quello scontro tra Stato e cittadinanza.

In modo simile, i famigerati Black Block che furono i veri responsabili dei danni materiali che hanno dato tanto fastidio agli italiani (ma senza che le forze dell’ordine cercassero mai di fermarli), se la cavano abbastanza bene. Nessun accenno alla possibilità che fossero degli infiltrati della polizia, anzi, essi fanno parte integrante del movimento no global. Secondo il film sono inoltre quelli che, indirettamente, provocano l’intervento nella Diaz, quando – in giornata – assaltano una camionetta della polizia. I più duri sentono che tira una brutta aria e se ne vanno, mentre un’altra parte riesce a trovare rifugio in un bar di fronte alla ex-scuola, prima che inizi il massacro. Quando, la mattina dopo, tornano sulla scena del delitto, uno di loro si fa prendere dal senso di colpa, urlando che erano venuti per loro. Qui bisogna dare ragione ad Agnoletto, perché in questo modo il film è, sì, una visualizzazione di una memoria scomoda e dunque una denuncia che forse riuscirà ad aggiustare l’immagine mediatica del G8 troppo incentrata sulle violenze materiali dei Black Block; ma è anche una versione troppo semplicificante, che assolve sia le ‘mele marce’ all’interno dell’apparato di polizia, sia i Black Block. Ovviamente un film non deve essere un manifesto politico. Ma un discorso un po’ più approfondito sui potenti che tiravano i fili di quest’orribile beffa alla democrazia, e che – purtroppo – continuano a tirarli, avrebbe dato al film più valore.

Sembra che film come questi, ma anche Romanzo di una strage, abbiano un’altra funzione: quella di elaborare il trauma e di promuovere una memoria condivisa, come se fossero delle specie di commissioni alternative per la verità e la riconciliazione. Nel film di Giordana, questo avviene tramite l’idea stessa che ci furono due bombe, una anarchica e una di destra, o anche nel modo in cui i personaggi di Calabrese e di Pinelli si specchiano: nonostante appartengano a due parti ideologicamente opposte, lo spettatore non può che simpatizzare con entrambi. In altre parole, c’è una specie di “spartizione” delle colpe, dove nessuno è colpevole e tutti sono colpevoli. Diaz usa un meccanismo un po’ diverso ma l’effetto è simile: identifica i due colpevoli – i Black Block e la polizia – ma li fa pentire pubblicamente. Lascia allora in mezzo le vittime, come se questi si trovassero semplicemente nel posto sbagliato nel momento sbagliato, e più che un problema che ci riguarda tutti – in quanto cittadini di una Stato che chiaramente accetta (se non sollecita) questo tipo di comportamento dai suoi funzionari – viene presentato come un’operazione di ordine pubblico sfuggita al controllo. Per avere un’idea più complessiva, il nostro ‘dovere civile’ sarebbe di vedere anche il documentario dal titolo provocatorio di Carlo A. Bachschmidt, andato in onda (troppo tardi nella serata) su Rai3 pochi giorni dopo l’uscita di Diaz: Black Block.

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G8 GENOVA: MINACCE A PM MAXIPROCESSI VIGILIA PROIEZIONE 'DIAZ'

Fonte: http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012/04/18/APHL3eKC-minacce_sulla_film.shtml#axzz1sJ34WnIZ

Dopo il film sulla Diaz, minacce ai Pm Marco Grasso e Matteo Indice

Genova - La lettera contiene un messaggio netto ancorché sconclusionato, sintetizzabile in una serie d’intimidazioni ai magistrati che hanno indagato sul comportamento della polizia durante il G8 del luglio 2001 a Genova; in particolare sui pm che hanno condotto inchieste e processi sul raid alla scuola Diaz, dove dormivano decine di noglobal, e sui pestaggi nella caserma di Bolzaneto, il luogo in cui alcuni degli antagonisti arrestati (e a stretto giro scarcerati) furono condotti. Ma più della reale pericolosità degli “avvertimenti” - frutto secondo i più d’un pazzo, comunque poco confortante - a colpire è la tempistica dell’azione, sulla quale lavorano sia la Digos che la squadra mobile. Secondo le poche indiscrezioni filtrate in queste ore dalla questura, sull’incartamento sarebbero state rilevate alcune impronte potenzialmente utili agli accertamenti.
La busta è stata fatta arrivare in tribunale nei giorni (forse nelle ore) di poco successivi alla proiezione in anteprima, all’ombra della Lanterna, del film “Diaz - non lavate questo sangue”, pellicola di Daniele Vicari che ricostruisce il massacro compiuto dagli agenti nell’istituto di Albaro (i processi sono stati seguiti dal principio alla fine dai pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini). E, sebbene in modo più sommario, fissa in sequenze-choc pure le torture praticate nell’edificio solitamente sede del Reparto Mobile che, all’epoca, fu riadattato a carcere provvisorio (in quel caso le indagini e le udienze sono state coordinate dai pubblici ministeri Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello).

Fonte: http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201204181001-ipp-rt10033-g8_genova_minacce_a_pm_maxiprocessi_vigilia_proiezione_diaz

(AGI) - Genova, 18 apr. - Una lettera minatoria e' stata inviata circa venti giorni fa ai magistrati che si occuparono dei maxi processi conseguenti ai disordini di strada contestuali al G8 di Genova del 2001.
La lettera, indirizzata ai magistrati Enrico Zucca, Vittorio Ranieri Miniati, Patrizia Petruzziello e Francesco Cardona Albini, e' stata recapitata in tribunale. La lettera, secondo quanto appreso, dovrebbe essere giunta a palazzo di giustizia giovedi' 29 marzo, alla vigilia della proiezione della prima, proprio a Genova, del film 'Diaz', che ricostruisce i fatti del luglio del 2001 e vuole essere una denuncia degli abusi perpetrati su alcuni manifestanti dalle forze di polizia. La notizia, riportata stamani dal quotidiano genovese 'Il secolo XIX' e' stata confermata dal procuratore di Genova Michele Di Lecce.

Fonte: http://www.genova24.it/2012/04/g8-minacce-di-morte-ai-magistrati-che-hanno-indagato-sulla-polizia-lettera-anonima-in-tribunale-31614/

G8, minacce di morte ai magistrati che hanno indagato sulla polizia: lettera anonima in Tribunale

Genova. Dopo la proiezione del film Diaz, gli animi non si placano e sono arrivate anche minacce ai giudici che hanno indagato sulla polizia per i fatti del G8. Una busta contenente intimidazioni, infatti, è stata recapitata in Tribunale.

Tornando ai fatti di quella notte, si svolgerà nei giorni 11,12,13,14 e 15 giugno a Roma l’ultimo capitolo del processo del G8 del 2001 relativo alle violenze all’interno della scuola Diaz. Il processo di appello si è chiuso nel maggio 2010 con 25 condanne di colpevolezza che hanno colpito anche alcuni altissimi funzionari della polizia di Stato.

Sulla sentenza incombe il rischio della prescrizione: se il reato di calunnia si è già prescritto, per i vertici della polizia resta in piedi il reato di falso per il quale la prescrizione scatta dopo 12 anni e mezzo dal fatto. A giugno, la quinta sezione della Cassazione potrebbe confermare la sentenza d’appello oppure rinviare gli atti a Genova.

In quest’ultimo caso si potrebbe superare la fatidica scadenza del 21 gennaio 2013, che vanificheranno questi lunghi anni di processi.
Prescrizione a rischio anche le il reato di lesioni di cui sono imputati i poliziotti appartenenti al disciolto nucleo antisommossa costituito all’interno del Reparto mobile di Roma e comandato da Vincenzo Canterini.
Nel processo Diaz sono coinvolte circa 90 parti civili, tra queste alcune che hanno documentato lesioni permanenti in seguito alle violenze di quella che un poliziotto presente quella notte definì una “macelleria messicana”.

http://www.cittadigenova.com/Genova/Cronaca/Diaz-Minacce-ai-magistrati-che-hanno-50456.aspx

Diaz/Minacce ai magistrati che hanno indagato sulla Polizia
Genova - Una busta con alcune intimidazioni sarebbe stata recapitata in Tribunale dopo la proiezione del film 'Diaz' in merito agli abusi compiuti dalle forze dell'ordine all'interno della scuola nei giorni del G8. Nella lettera vi sarebbero alcune intimidazioni ai pm per i quali è stata aumentata la sorveglianza. Intanto a giugno la Cassazione è chiamata a pronunciarsi definitiva proprio nel processo sull'irruzione alla Diaz che in secondo grado ha visto la condanna di dirigenti di polizia per la
falsificazione delle prove e depistaggi.

http://brescia.corriere.it/brescia/notizie/cronaca/12_aprile_17/DIAZ-2004118353064.shtml

Nessuna risposta, tante domande nel bel film di Daniele Vicari. Domenica applausi al Sociale

Dal romanzo di una strage alla "macelleria messicana" della scuola Diaz.
C'è un cinema italiano necessario che "fa memoria" e che è dovere civile vedere, a prescindere dai sopracciò estetici, perché è un test etico per lo spettatore. Quello che è avvenuto la notte del 21 luglio 2001 al G8 di Genova è uno scempio vergognoso, indegno di Paese civile: «La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la
seconda guerra mondiale» secondo Amnesty. Undici anni dopo, l'alone di quella macchia nazionale è ancora indelebile. Grida orrore e rabbia.
Quello di Daniele Vicari è un film potente e crudo, senza manicheismi e preconcetti, che racconta fatti ricavati dagli atti processuali, che prende le distanze dai Black Block (la loro violenza viene denunciata all'inizio) e non mette alla gogna le forze di polizia indistintamente e per partito preso. Non dà risposte (non le dà la giustizia, a maggior ragione non le dà il cinema), pone solo domande. E gli interrogativi sono tremendi, perché introducono al "buco nero" della verità. Sia pure solo
storica, abbiamo imparato ad accontentarci solo di quella ormai. Vicari segue i destini incrociati di alcuni personaggi. Un affresco polifonico (anche di linguaggi) e corale senza protagonismi narranti. Carlo Guliani è già stato ucciso. Tra i migliaia di manifestanti ci sono un giornalista di un foglio di centro-destra, che è andato lì per dovere di cronaca, un vecchio sindacalista Cgil, tanti giovani pacifisti o anarchici che si sono riuniti per protestare contro i potenti della terra. Tutti confluiscono nel complesso scolastico Diaz-Pascoli, adibito per l'occasione a dormitorio, quando poco prima della mezzanotte il blitz dei poliziotti scatena l'inferno furibondo e immotivato con l'ignominiosa appendice alla caserma di Bolzaneto. La scena del denudamento della ragazza tedesca (non è una invenzione) - oscenamente fastidioso - vale come manifesto imperituro della violazione della dignità della persona. Le didascalie in coda con il bilancio di cronaca e storia giudiziaria costituiscono una riflessione amara e indigesta. "Diaz" è un film importante e coraggioso, complesso nella sua partitura (documentario, lirico, di denuncia, poetico-politico...) che sbreccia gli omissis e non concede vie di fuga.
Da vedere di precetto, nonostante le presumibili riserve (per alcuni, immagino) di carattere ideologico. La fine della proiezione, domenica pomeriggio al Sociale, è stata salutata dagli applausi. A teatro spesso gli applausi sono di cortesia, al cinema traducono invece una emozione verace. Buon segno.
"Diaz. Non pulire questo sangue" di Daniele Vicari con Elio Germano, Claudio Santamaria, Renato Scarpa, Alessandro Roja (Italia, 2012). Al Sociale. 

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VIOLENZE ALLA DIAZ, L'ULTIMO ATTO L'11 GIUGNO IN CASSAZIONE

 [Un buon articolo che riassume tutte le questioni in ballo per il terzo grado di giudizio sulla Diaz. MT]

Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/04/20/violenze-alla-diaz-ultimo-atto-11-giugno.html
Violenze alla Diaz, l'ultimo atto l'11 giugno in Cassazione
20 aprile 2012 —   pagina 11   sezione: GENOVA

DEVE essere ancora assegnato, a uno dei sostituti procuratori della Cassazione, il fascicolo del processo che si aprirà l'11 giugno innanzi alla Suprema Cortea funzionari e agenti della polizia, condannati per il sanguinoso blitz della notte del 21 luglio nella scuola Diaz durante il G8. Il fascicolo non sarebbe nelle mani del sostituto Francesco Iacoviello, il magistrato che il 22 novembre ha chiesto l'assoluzione dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro in uno dei filoni giudiziari del G8 e, il 9 marzo, l'annullamento del verdetto Dell'Utri.
Per quanto riguarda la prescrizione, il termine è il 21 settembre. Ci sarebbe il tempo per un eventuale appello bis ma, probabilmente, non quello per tornare in Cassazione una seconda volta. Il faldone Diaz è arrivato alla Suprema Corte il 26 novembre. Anche se non si conosce ancora il nome di chi rappresenterà la procura dell'alta corte, risulta già composto il collegio della Quinta sezione penale che si occuperà del caso Diaz. Tre dei cinque componenti sono gli stessi che hanno deciso il processo Dell'Utri: oltre al presidente titolare Aldo Grassi,i consiglieri Stefano Palla e Gerardo Sabeone. Gli elementi nuovi sono i consiglieri Piero Savani e Paolo Antonio Bruno. Il compito della stesura della sentenza, è stato affidato ai giudici Savani e Palla. La circostanza che il fascicolo non sia stato ancora assegnato non significa che il faldone Diaz non possa toccare a Iacoviello, che durante la requisitoria su De Gennaro non ha usato mezze parole sulle violenze della polizia. Intanto, in Cassazione, l'11 giugno ci sarà il processo ai 25 dirigentie agenti della polizia condannati complessivamente a 98 anni e tre mesi di reclusione dalla Corte di Appello di Genova - il 18 maggio 2010 - per violenze e soprusi vari nei confronti dei 93 noglobal ospitati nella Diaz, 60 dei quali rimasti feriti.

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LA RESISTIBILE ASCESA DEL DOTTOR DE GENNARO

FONTE: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3442

Già capo della polizia, poi del Dipartimento che coordina i servizi segreti, è stato nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Nel 2001 era il responsabile dell'ordine pubblico quando al G8 di Genova fu compiuta, secondo Amnesty International, "una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente". Un piccolo promemoria sulle ispezioni ignorate, le promozioni dei dirigenti imputati, i processi affrontati.
di Lorenzo Guadagnucci - 11 maggio 2012

Il dottor Gianni De Gennaro è stato nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché capo dell'Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. Un doppio ruolo inedito, rilevantissimo.

Del resto il dottor De Gennaro era il capo della polizia quando a Genova, nel 2001, fu compiuta "una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia più recente" (parole di Amnesty International). A lui fu inviata, dal dottor Pippo Micalizio, inviato a Genova per un'ispezione interna sul blitz alla scuola Diaz, un rapporto che consigliava di prendere provvedimenti disciplinari per i dirigenti più importanti che parteciparono all'operazione; provvedimenti che non furono presi.

Era il capo della polizia quando venivano rinviati a giudizio quegli stessi dirigenti, poi assolti in primo grado, e nel frattempo passati a ruoli gerarchicamente ancora più importanti. Era invece capo del Dipartimento che coordina i servizi segreti quando quei dirigenti sono stati condannati in appello, senza dimettersi né essere sospesi.

Era il capo della polizia quando ha incontrato nel suo ufficio a Roma l'ex questore di Genova, Francesco Colucci, alla vigilia della deposizione di quest'ultimo al processo Diaz: fu un incontro teso a trovare "la consonanza per l'accertamento della verità", secondo il dottor De Gennaro, un'induzione alla falsa testimonianza secondo i pm. Colucci è oggi imputato per falsa testimonianza, il dottor De Gennaro è stato assolto in primo grado, condannato in appello, assolto in Cassazione.

Era il capo della polizia e poi il capo del Dipartimento suddetto negli undici anni che sono trascorsi, senza che nessuno abbia avuto la decenza dichiedere scusa per le violazioni delle leggi e dei diritti umani compiute alla Diaz, a Bolzaneto e nelle strade di Genova, violazioni che sono ormai una verità storica.

Possiamo ben dire che il dottor De Gennaro si è meritato il posto di sottosegretario e Autorità delegata per la sicurezza. 

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G8 DI GENOVA, I PROCESSI NON FINISCONO MAI: VICE QUESTORE RINVIATO A GIUDIZIO PER FALSA TESTIMONIANZA

[La Piazza era Piazza Manin dove c'era Rete Lilliput. La vicenda dei poliziotti è stata raccontata sul Corriere di Bologna da Alessandro Mantovani (http://ur1.ca/97xgh). Oggi Cinti è dirigente a Imola (http://ur1.ca/97xhu)]

Fonte: http://www.genova24.it/2012/05/g8-di-genova-i-processi-non-finiscono-mai-vice-questore-rinviato-a-giudizio-per-falsa-testimonianza-32855/
ARTICOLO N° 32855 DEL 11/05/2012 - 16:33
G8 di Genova, i processi non finiscono mai: vice questore rinviato a giudizio per falsa testimonianza

G8 Genova, forse l’ultimo processo: Massimo Cinti rinviato a giudizio per falsa testimonianza
Processo G8, pm Zucca: “Su falsa testimonianza giudici di Genova concordi in entrambi i gradi di giudizio”
Genova, auto in mare: il comandante della Moby Otta rinviato a giudizio per duplice omicidio
G8 Genova: condannato prefetto De Gennaro per falsa testimonianza, il difensore: “Confidiamo in cassazione”
Genova, sequestrò moglie e figlia del socio: rinviato a giudizio

Genova. I processi del G8 di Genova sembrano non finire mai. Mentre a giugno a Roma si terrà davanti alla Corte di Cassazione la fase conclusiva del processo Diaz e mentre ancora si attende una data per il processo di Bolzaneto, anche il Tribunale di Genova è ancora impegnato con il G8 di 11 anni fa.

Questa mattina infatti il gip Nadia Magrini ha rinviato a giudizio per falsa testimonianza il vice questore della polizia di Stato Luca Cinti . Il 20 luglio, poi dopo le 15, il reparto mobile di Bologna, comandato da Conti, caricò i manifestanti pacifici riuniti nella piazza e arrestò due ragazzi spagnoli accusandoli di resistenza. I due furono poi prosciolti da ogni accusa mentre sono stati condannati in via definitiva per “falso e calunnia” quattro poliziotti di quel reparto (Antonio Cecere, Luciano Berretti, Marco Neri e Simone Volpini), oggi sospesi dal servizio.

Nell’ambito del processo d’appello contro i quattro Cinti, che era il loro superiore, testimoniò in aula di aver visto il momento dell’arresto aggiungendo che uno dei due arrestati aveva in mano una spranga. Fatto non vero che ha spinto il presidente della corte d’appello a rinviare gli atti alla Procura di Genova. Oggi il rinvio a giudizio, chiesto dal pubblico ministero Francesco Cardona Albini e dagli avvocati di parte civile Emanuele Tambuscio e Laura Tartarini.

“Sono nove fino a oggi gli appartenenti alle forze dell’ordine condannati in via definitiva per falso e calunnia nell’ambito dei processi relativi ai fatti del 2001 e oltre una ventina fra Diaz e Bolzaneto. E’ un fatto che non può passare inosservato” ha commentato l’avvocato Tambuscio. “Anche nell’ambito del processo a 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio – racconta il legale – ci furono 4 appartenenti alle forze dell’ordine che testimoniarono il falso e per i quali il tribunale chiese la trasmissione degli atti. In quel caso, però, la procura non si mosse per tempo, lasciando cadere il reato in prescrizione”.

La prima udienza del processo si terrà il prossimo 18 ottobre.

Katia Bonchi

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VIOLENZE NELLA CASERMA DI BOLZANETO, LO STATO DOVRÀ RISARCIRE DIECI MILIONI

Fonte: http://genova.repubblica.it/cronaca/2012/06/01/news/violenze_nella_caserma_di_bolzaneto_lo_stato_dovr_risarcire_dieci_milioni-36343417

Violenze nella caserma di Bolzaneto lo Stato dovrà risarcire dieci milioni
La Cassazione  condanna i ministeri della Difesa, Interno e Giustizia al pagamento delle provvisionali. Chi ha subito violenza durante i G8
sarà risarcito

Violenze nella caserma di Bolzaneto lo Stato dovrà risarcire dieci milioni Soccorsi ai manifestanti dopo gli scontri Lo Stato dovrà risarcire per le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto, nel luglio 2001, nel corso del G8. Lo ha stabilito la Quinta sezione penale della Cassazione che ha respinto il ricorso dei ministeri della Difesa, Interno e Giustizia contro la condanna al pagamento delle provvisionali.

La Corte d'appello di Genova, il 5 marzo 2010, aveva stabilito che, malgrado la prescrizione dei reati, i quarantaquattro imputati e i "responsabili civili" (i tre ministeri), dovessero pagare le provvisionali. Ma ancora nessun risarcimento era stato liquidato. Ora la Cassazione, bocciando definitivamente i ricorsi dei ministeri, ha dato l'ok ai risarcimenti.

La cifra che lo Stato e gli imputati devono versare è alta: sommando le provvisionali che la sentenza d'appello aggiunge a quelle del primo grado si arriva a 10 milioni di euro. In appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati alla maggior parte degli imputati (su 44, solo 7 vennero condannati in sede penale), ma stabilirono che tutti dovevano risarcire chi aveva subito violenze.

(01 giugno 2012)

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CASSAZIONE DIAZ, LUNEDÌ IL PROCESSO, CAMBIO IN EXTREMIS AL VERTICE DEL COLLEGIO GIUDICANTE

Fonte: http://www.genova24.it/2012/06/cassazione-diaz-lunedi-il-processo-cambio-in-extremis-al-vertice-del-collegio-giudicante-34278/
ARTICOLO N° 34278 DEL 07/06/2012 - 18:59

Genova. Le motivazioni non sono note ma desta senza dubbio una certa sorpresa che, a meno di una settimana dall’inizio del processo di
Cassazione per il fatti relativi alla scuola Diaz, vi sia un cambio al vertice del collegio giudicante.

Aldo Grassi, presidente della quinta sezione della Corte di Cassazione che dovrà giudicare 25 tra poliziotti e funzionari, condannati in secondo grado dalla Corte di appello di Genova, è stato sostituito da Giuliana Ferrua, magistrato torinese e sorella di Paolo Ferrua, docente di procedura penale proprio all’ateneo genovese.

Il collegio che si occuperà del caso è composto da 5 giudici. Oltre alla presidente Ferrua, ci sono due giudici che alcuni mesi fa hanno deciso (insieme all’ex presidente Aldo Grassi) il processo Marcello Dell’Utri: si tratta dei magistrati Stefano Palla e Gerardo Sabeone.
Gli altri due consiglieri sono Piero Savani e Paolo Antonio Bruno.

Lunedì 11 giugno il processo si aprirà con la relazione del giudice.
Martedì 12 giugno a parlare sarà il procuratore generale Pietro Gaeta.
Le giornate di mercoledì, giovedì e venerdì saranno invece dedicate alle discussioni degli avvocati di parte civile e dei difensori degli imputati. Venerdì 15 giugno in serata, o forse in nottata, sarà emessa la sentenza.

Le motivazioni della sostituzione restano al momento un mistero: “Non lo sapevo – dice Giorgio Zunino, difensore di Pietro Troiani – ma la
notizia non mi pare sia così stupefacente e non penso che questo rappresenti un problema per nessuno. Diverso sarebbe stato se a una
settimana dall’inizio delle udienze fossero cambiati i relatori, che sono i giudici che in questa fase, hanno studiato il processo in maniera più approfondita per illustrarlo ai colleghi, ma non è questo il caso.”

Tra le questioni preliminari che potrebbero pesare sul processo c’è la recente sentenza della Cedu, che è stata utilizzata dai difensori dei funzionari di polizia assolti in primo grado ma condannati in appello per chiedere l’annullamento della sentenza.

Altra questione, che tocca ancora una volta i funzionari sarebbe una contraddizione nella senteza tra il dispositivo e le motivazioni:
“Secondo i legali dei funzionari condannati – spiega Emanuele Tambuscio, avvocato di alcune delle parti civili del processo – nel dispositivo letto in udienza i loro assistiti risulterebbero assolti dal reato di calunnia, mentre nelle motivazioni la Corte di appello ha dichiarato il reato prescritto con conseguente condanna dei poliziotti al risarcimento dei danni”.

“Secondo noi – dice Tambuscio – si è trattato di un semplice errore materiale facilmente rimediabile con una correzione mentre secondo i legali dei poliziotti in caso di conflitto prevale ciò che sta scritto nel dispositivo. In ogni caso essendo l’argomento controverso ne chiedono l’esame da parte delle sezioni unite della Cassazione”.

“La questione non riguarda direttamente il mio assistito, che in appello dal reato di calunnia è stato assolto senza nessun tipo di contrasto, ma è evidente che in caso di conflitto prevalga il dispositivo” dice Zunino.

Se venisse accolta la richiesta dei legali dei funzionari la conseguenza sarebbe più che ovvia: un ulteriore allungamento dei tempi del processo e la certezza della prescrizione per tutti i reati.

Katia Bonchi

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CASSAZIONE DIAZ, IL PG GAETA CHIEDE IL RIGETTO DI DUE DEI RICORSI PRESENTATI DAI LEGALI DEI POLIZIOTTI: DOMATTINA LE SUE CONCLUSIONI

Fonte: http://www.genova24.it/2012/06/cassazione-diaz-il-pg-gaeta-chiede-il-rigetto-di-due-dei-ricorsi-presentati-dai-legali-dei-poliziotti-domattina-le-sue-conclusioni-34475/

Roma. E’ cominciata questa mattina la prima udienza del terzo capitolo del processo Diaz, di fronte alla quinta sezione della Corte di Cassazione di Roma, presieduta da Giuliana Ferrua.
Dopo la relazione da parte dei giudici, la presidente ha preso la parola per smentire le notizie uscite in questi giorni sugli organi di stampa secondo le quali il cambio alla presidenza del collegio giudicante sarebbe stato un evento improvviso: “Ho ricevuto l’incarico agli inizi di aprile – ha spiegato la presidente – quindi voglio tranquillizzare i presenti: ho avuto tutto il tempo di studiare il processo”.
Nel pomeriggio sono cominciate le conclusioni del procuratore generale in Cassazione Pietro Gaeta. Il pg, che ha parlato per circa 1 ora e 30, ha analizzato alcune questioni preliminari.
Anzittutto, Gaeta ha preso in esame il ricorso presentato dalla Procura di Genova che in sostanza chiedeva, in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo di configurare anche nel nostro ordinamento come tortura le violenze alla scuola Diaz, rendendo in questo modo il reato imprescrivibile. La competenza, secondo il pubblico ministero Enrico Zucca, sarebbe spettata alla Corte costituzionale. Per il pg Gaeta, invece, la Corte costituzionale non può introdurre in ogni caso una norma che allunghi il tempo di prescrizione di un reato. Per il pg, in pratica, il reato di tortura non può essere introdotto nel nostro ordinamento (che non lo prevede) per via giudiziaria, ma solo tramite una legge.
Il pg poi ha analizzato il ricorso degli avvocati di alcuni funzionari imputati che chiedevano l’annullamento del processo in base a una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il pg, tuttavia, ha spiegato come il caso affrontato da Strasburgo ”sia diverso da quanto avvenuto in questa vicenda che si basa su molte fonti di prova, mentre il verdetto ‘europeo’ si riferisce ad un processo dove l’unica fonte di prova era un solo teste”. Posizione condicisa dagli avvocati di parte civile.
Infine Gaeta ha esaminato un ulteriore motivo di ricorso presentato dai legali dei 13 funzionari che firmarono il verbale di arresto per i 90 ragazzi della Diaz, firma per la quale sono stati condannati in secondo grado per falso e calunnia (reato quest’ultimo caduto nel frattempo in prescrizione). Secondo i legali, ci sarebbe stato un contrasto tra il dispositivo, che non avrebbe previsto la condanna per calunnia e le motivazioni della sentenza, dove invece la calunnia veniva dichiarata prescritta. Anche in questo caso, il pg ha dato ragione agli avvocati di parte civile: Gaeta ha infatti spiegato che nel dispositivo c’è la condanna dei funzionari alle “disposizioni civili previste per il reato di calunnia”, per cui non esiste nessun contrasto e anche quel ricorso deve essere, a suo avviso, rigettato dalla Corte.
Domani, il procuratore generale terminerà le sue conclusioni, esaminando nel dettaglio i ricorsi dei 25 imputati, e deciderà se chiedere o meno la conferma della condanna di appello per ciascuno.
Poi sarà la volta dell’avvocatura dello Stato che rappresenta il ministero dell’Interno, cui seguiranno le conclusioni degli avvocati di parte civile, che proseguiranno anche nella giornata di mercoledì. Le udienze di giovedì e venerdì saranno dedicate alle conclusioni dei difensori dei poliziotti e nella serata di venerdì la Corte emetterà la sentenza.
Katia Bonchi

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NASCE IL COMITATO 10×100, UNA RACCOLTA FIRME PER I CONDANNATI DEL G8 DI GENOVA

11 giugno 2012

m.d.v.

Nel giorno in cui la V sezione della Cassazione si riunisce per dire l’ultima parola sui fatti della scuola Diaz, nasce il Comitato 10×100, pronto a battersi per “la liberazione dei compagni e delle compagne accusate di devastazione e saccheggio per i fatti del G8 di Genova 2001..

Il nome del Comitato rimanda alla condanna inflitta a dieci persone – per un totale di cento anni di carcere – accusate di devastazione e saccheggio durante le manifestazioni di undici anni fa nel capoluogo ligure. “C’è chi vorrebbe che di quelle giornate rimanessero solo delle sentenze dei tribunali – si legge sul sito del Comitato -: l’assoluzione per lo Stato e i suoi apparati e la condanna di 10 persone accusate di devastazione e saccheggio. Dieci persone a cui vorrebbero far pagare il conto, con 100 anni di carcere, per aver disturbato i piani dei potenti della terra. Un reato che prevede condanne dagli otto ai quindici anni e che risale al Codice Rocco, emanato durante il regime fascista ed usato contro chi si opponeva alla dittatura. E’ così che oggi la magistratura lo applica con lo stesso intento”.

La raccolta firme, cominciata nella giornata di ieri, mira a riunire i 300mila che manifestarono a Genova nel luglio del 2001, oltre a tutti quelli che “non hanno mai smesso di lottare e di sognare”. Si andrà avanti fino al prossimo 13 luglio, quando è prevista l’udienza in Cassazione per i manifestanti condannati. Le firme stanno arrivando a centinaia e tra i nomi illustri spiccano quelli di Erri De Luca, Giuliana Sgrena, Lea Melandri, Teatro Valle Occupato, Adriano Chiarelli, Sandro Medici, Francesca Koch e tanti altri.

“Non possiamo permettere – si legge ancora nell’appello online – che dopo dieci anni Genova finisca così, per questo facciamo appello al mondo della cultura, dello spettacolo, ai cittadini e alla società civile a far sentire la propria voce firmando questo appello che chiede l’annullamento della condanna per devastazione e saccheggio per tutti gli imputati e le imputate”.

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GENOVA 2001, NOMI E COGNOMI

Segnalo il mio pezzo sulla sentenza Diaz che cerca di fare un po' il punto sulle tante cose scritte dai giornali in questi giorni.
http://comune-info.net/2012/07/genova-2001-nomi-e-cognomi/

Marco Trotta

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I NO GLOBAL ITALIANI ERANO SPIATI

Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-no-global-italiani-erano-spiati/2187007
di Stefania Maurizi

Le telefonate e le mail dei membri del movimento anti globalizzazione sono state messe sotto sorveglianza, anche su pressione degli Stati Uniti. Lo rivela un cablo diffuso dal sito di Julian Assange
(16 luglio 2012)
Vittorio Agnoletto Vittorio AgnolettoLe condanne definitive contro i vertici della polizia per i fatti del G8 di Genova hanno riacceso l'attenzione sul movimento no global. Ma dai file della diplomazia Usa rivelati da WikiLeaks si scopre che la rete di Vittorio Agnoletto era oggetto di attenzioni molto particolari. Un rapporto trasmesso nel febbraio 2003 a Washington dall'ambasciata americana di Roma analizza la forza del movimento e i suoi leader. C'è il timore che le proteste possano fermare la partenza di truppe e materiali statunitensi dalle basi italiane verso l'imminente guerra contro l'Iraq.

«Il dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell'Interno ha creato un centro di monitoraggio della crisi e lavora a una serie di tattiche con i rappresentanti delle Ferrovie. E' stato attivato un sistema di contromisure, che include una pesante sorveglianza delle comunicazioni dei manifestanti». Dunque e-mail e telefonate dei pacifisti erano spiate. Da chi? Dalla polizia italiana, dal Sismi o dalla Cia?

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G8 DI GENOVA: OGGI AL VIA PROCESSO PER FALSA TESTIMONIANZA A VICEQUESTORE DI POLIZIA

Fonte: http://www.genova24.it/2012/10/g8-di-genova-oggi-al-via-processo-per-falsa-testimonianza-a-vicequestore-di-polizia-41317/

ARTICOLO N° 41317 DEL 18/10/2012 - 12:58
G8 di Genova, i processi non finiscono mai: vice questore rinviato a giudizio per falsa testimonianza
G8 Genova, forse l’ultimo processo: Massimo Cinti rinviato a giudizio per falsa testimonianza
Processo G8, pm Zucca: “Su falsa testimonianza giudici di Genova concordi in entrambi i gradi di giudizio”
G8 Genova: condannato prefetto De Gennaro per falsa testimonianza, il difensore: “Confidiamo in cassazione”
Chiavari, omicidio Vaccaro: oggi inizia il processo

Genova. Non c’è fine per i processi collegati al G8 di Genova del 2001. A undici anni dai fatti, questa mattina ha preso il via davanti al giudice monocratico Carla Pastorini il processo a carico del vicequestore della Polizia di Stato Luca Cinti, ex dirigente del reparto mobile di Bologna.

Il 20 luglio, poi dopo le 15, il reparto mobile di Bologna, comandato da Cinti, caricò i manifestanti pacifici riuniti in piazza Manin e arrestò due ragazzi spagnoli accusandoli di resistenza. Gli agenti sostennero che i due fossero armati di spranga e molotov, ma un video scagionò i due manifestanti.

I quattro poliziotti responsabili dell’arresto (Antonio Cecere, Luciano Berretti, Marco Neri e Simone Volpini), invece, sono stati condannati in via definitiva a 4 anni di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per “falso e calunnia” e sono attualmente sospesi dal servizio.

Nell’ambito del processo di primo grado contro i quattro, Cinti (che era il loro superiore) testimoniò in aula di aver visto il momento dell’arresto aggiungendo che uno dei due arrestati aveva in mano una spranga. Di fronte alla visione del filmato, che mostrava invece i due spagnoli assolutamente disarmati e inermi di fronte all’arresto, Cinti disse anche che non era certo che si trattasse proprio dei due spagnoli arrestati.

Peccato però che i due giovani siano stati gli unici arrestati in piazza Manin in tutta la giornata del 20 luglio, ragion per cui il presidente della corte d’appello rinviò gli atti alla Procura di Genova, su richiesta del pubblico ministero Francesco Cardona Albini e degli avvocati di parte civile Emanuele Tambuscio e Laura Tartarini.

Quella di oggi è stata solo un’udienza filtro e il processo è stato rinviato all’8 novembre per la richiesta prove.

 

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G8, LE VIOLENZE ALLA DIAZ E A BOLZANETO VANNO A STRASBURGO. LE MOTIVAZIONI DEL RICORSO: “PENE NON EFFETTIVE, MANCA IL REATO DI TORTURA”

ARTICOLO N° 44991 DEL 03/01/2013 - 15:01

Genova. “Il G8 è un capitolo chiuso” aveva detto il capo della polizia Antonio Manganelli al quotidiano nazionale Repubblica un paio di mesi fa, in risposta alle polemiche scoppiate dopo le manifestazioni degli studenti a Roma.

Non la pensa allo stesso modo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che ha inviato in questi giorni al Governo italiano una serie di quesiti preliminari all’esame del ricorso presentato da alcune parti civili relative al processo per le violenze nella caserma di Bolzaneto, processo su cui la Cassazione si pronuncerà il prossimo maggio.

E un analogo ricorso verrà depositato nelle prossime settimane anche per i fatti della scuola Diaz.

“Sarà anche un capitolo chiuso ma dipende come, visto che per i fatti di Bolzaneto le condanne sono quasi tutte prescritte così come sono prescritti i poliziotti del reparto mobile di Roma responsabili dei pestaggi dentro la scuola Diaz” spiega l’avvocato Emanuele Tambuscio, uno dei legali che nel 2010 ha depositato il ricorso alla Corte europea per i fatti di Bolzaneto.

“Per le violenze e umiliazioni subite da centinaia di ragazzi portati a Bolzaneto nei giorni del G8 non c’è stata una sanzione effettiva. La Corte d’Appello non ha potuto far altro che dichiarare la prescrizione della gran parte dei reati perché anche se questi fatti, come scrivono i giudici genovesi nella sentenza, rientrano nella definizione di trattamento inumano e degradante previsti entrambi dalla convenzione internazionale sui diritti umani sottoscritta dall’Italia, non sono sanzionati in maniera efficace dalla legge italiana che prevede solo reati minori con prescrizione brevissima di 7 anni e mezzo. Il risultato è che tutti i responsabili sono stati condannati ma la loro pena è stata prescritta e non hanno avuto nessun tipo di sanzione”.

La giurisprudenza della Corte dice espressamente che la punizione dei responsabili delle violazioni dell’art.3 non può essere elusa dalla prescrizione e i responsabili devono essere sospesi in via cautelativa per tutto il corso del processo, ma questo non è accaduto: “Non ci sono stati neanche provvedimenti disciplinari nel corso del procedimento mentre al contrario molti hanno avuto avanzamenti di carriera anche rilevanti”.

“Infine per ammissione dello stesso Tribunale, sia nel processo Diaz sia quello di Bolzaneto non si è potuto identificare tutti i responsabili, non per colpa della Procura che ha fatto tutto il possibile, ma per una mancanza di collaborazione da parte delle istituzioni e dei vari ministeri di appartenenza, Interno, Giustizia e Difesa, che non hanno collaborato in nessun modo nell’individuazione di tutti i responsabili”.

La principale causa della mancata risposta giudiziaria dal punto di vista della pena effettiva è data dal fatto che l’Italia non ha mai introdotto nel suo ordinamento il reato di tortura.
Sul punto, l’Italia ha ratificato la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo del 1955 e un’analoga e più specifica convenzione relativa al reato di tortura firmata all’Onu nel 1984 (e ratificata nell’88) ma, l’Italia non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura.

La Procura generale di Genova ha sollevato il problema davanti alla Corte di Cassazione nel procedimento Diaz ma la Corte ha risposto che la situazione può essere risolta solo con un intervento legislativo. E non si tratta semplicemente di un ritardo o di una disattenzione. Nel corso degli anni il nostro Paese ha ricevuto una serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni.

Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano l’arresto illegale, le lesioni e l’omicidio”. Ma le sentenze sul G8 dimostrano che non è così: i reati sono prescritti e nessun colpevole sarà penalmente punito, mentre il reato di tortura è imprescrivibile.

Katia Bonchi

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G8 DI GENOVA, VICEQUESTORE DI POLIZIA A PROCESSO PER FALSA TESTIMONIANZA: “L’ARRESTO DEGLI SPAGNOLI A MANIN FU PASTICCIO IN QUESTURA”

Fonte: http://www.genova24.it/2013/01/g8-di-genova-vicequestore-di-polizia-a-processo-per-falsa-testimonianza-larresto-degli-spagnoli-a-manin-fu-pasticcio-in-questura-45233/
ARTICOLO N° 45233 DEL 09/01/2013 - 14:59

G8 di Genova, vicequestore di polizia a processo per falsa testimonianza: “L’arresto degli spagnoli a Manin fu pasticcio in Questura”

Genova. E’ stato interrogato questa mattina nell’ambito del processo a suo carico per falsa testimonianza Luca Cinti, vicequestore di polizia e dirigente del Reparto mobile di Bologna nei giorni del G8 del 2001.

Il 20 luglio, poco dopo le 15, il reparto mobile di Bologna, comandato da Cinti, caricò i manifestanti pacifici riuniti in piazza Manin e arrestò due ragazzi spagnoli accusandoli di resistenza. Gli agenti sostennero che i due fossero armati di spranga e molotov, ma un video scagionò i due manifestanti. I quattro poliziotti responsabili dell’arresto (Antonio Cecere, Luciano Berretti, Marco Neri e Simone Volpini), invece, sono stati condannati in via definitiva a 4 anni di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per “falso e calunnia” e sono attualmente sospesi dal servizio.

Nell’ambito del processo di primo grado contro i quattro, Cinti (che era il loro superiore) testimoniò in aula di aver visto il momento dell’arresto aggiungendo che uno dei due arrestati aveva in mano una spranga. Di fronte alla visione del filmato, che mostrava invece i due spagnoli assolutamente disarmati e inermi di fronte all’arresto, Cinti disse anche che non era certo che si trattasse proprio dei due spagnoli arrestati.

E questa mattina in aula, davanti al giudice monocratico Carla Pastorini, al pubblico ministero Francesco Cardona Albini e agli avvocati di parte civile Emanuele Tambuscio e Laura Tartarini, Cinti ha stupito tutti: “Non abbiamo arrestato i due spagnoli, probabilmente in Questura è stato fatto qualche pasticcio”.

In pratica Cinti ha sostenuto che i suoi uomini hanno arrestato due persone di cui una armata di spranga, ma che non si tratterebbe dei due spagnoli. Peccato però che i due giovani siano stati gli unici arrestati in piazza Manin in tutta la giornata del 20 luglio.

La tesi difensiva di Cinti sarebbe che gli spagnoli siano stati arrestati per sbaglio, mentre i veri responsabili dei disordini sarebbero rilasciati dalla Questura. Tesi che ha lasciato parecchio perplesso il difensore di parte civile Emanuele Tambuscio: “E’ stato un interrogatorio piuttosto surreale – spiega il legale – anche perché i quattro poliziotti del Reparto mobile di Bologna, condannati in via definitiva per l’arresto illegale dei miei clienti, hanno firmato il verbale d’arresto dei due spagnoli e mai, durante i lunghi anni in cui è durato il processo a loro carico, hanno accennato a uno scambio di persona “.

Katia Bonchi

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INGROIA E IL G8 DI GENOVA, LE POLEMICHE SI SPOSTANO SUI CANDIDATI: TRA LORO LUIGI LI GOTTI, EX DIFENSORE DI GRATTERI NEL PROCESSO DIAZ

Genova. E’ ancora bufera sulle candidature presentate dalla lista Rivoluzione civile di Antonio Ingroia. Dopo le polemiche sulle dichiarazioni dell’ex pm di Palermo, che avrebbe definito “comprensibile” la solidarietà con i poliziotti condannati dalla Diaz, precisando però che “la legge va applicata anche nei confronti degli uomini migliori“, ora sono alcuni candidati a riaccendere la polemica relativa al G8 di Genova. La prima patata bollente è saltata fuori ieri, dopo che è stata ufficializzata la candidatura di Claudio Giardullo, poliziotto e segretario nazionale del Silp, noto per essersi espresso contro l’introduzione del reato di tortura in Italia e contro i caschi identificativi per le forze dell’ordine.

Ma oggi è un altro candidato a suscitare mal di pancia a sinistra: si tratta di Luigi Li Gotti, avvocato ed ex sottosegretario alla Giustizia dell’Idv (ma in passato militava in An), noto per aver difeso parecchi pentiti di mafia ma anche per essere stato il primo difensore dell’ormai ex capo dello Sco Francesco Gratteri nel processo per le violenze alla scuola Diaz. Li Gotti lasciò la difesa di Gratteri a metà del 2006, per incompatibilità con l’incarico di sottosegretario alla Giustizia, ma il 6 luglio 2012, immediatamente dopo la sentenza Diaz, non ha mancato di continuare a difendere sul suo blog l’”amico” Gratteri, appena condannato in via definitiva dalla Cassazione per falso e calunnia, definendo fra l’altro la sentenza della Suprema Corte una “matrioska giudiziaria”. Li Gotti è stato scelto da Ingroia come capolista al Senato in Sicilia.

Su twitter i commenti scandalizzati si stanno moltiplicando, ma anche fuori dalla “rete” le perplessità non sono poche. Haidi Giuliani, la mamma di Carlo che a Ingroia aveva alcuni giorni fa scritto una lettera aperta proprio per chiedere che nel programma di Rivoluzione civile venissero accolte alcune istanze relativa alla necessità di una diversa gestione dell’ordine pubblico (no ai gas cs, caschi di riconoscimento, sì al reato di tortura) non commenta nel dettaglio le candidature ma garantisce che “queste battaglie verranno portate avanti, perché quello che accadde a Genova non si verifichi più”. Sulla lista, il commento è disincantato: “Dobbiamo fare i conti con la realtà perché non c’erano alternative, in pochi mesi cambiare si può non è stata in grado di costruire da sola un’alternativa a sinistra. Ora ciò che conta è tirare fuori il meglio da queste candidature, valorizzando quelle che consideriamo valide, e cominciare a lavorare a un’alternativa vera”.

Anche Antonio Bruno, del Comitato Verità e Giustizia, preferisce non commentare i candidati più criticati: “Ci sono alcune candidature ottime, come quella di Alberto Lucarelli e di Ilaria Cucchi e altre che non condivido Per il resto – assicura Bruno – non faremo sconti a nessuno: vogliamo l’introduzione in Italia del reato di tortura”.

Katia Bonchi

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VIOLENZE ALLA DIAZ SUL DANNO ALLO STATO È GUERRA DI PROCURE

Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/02/12/violenze-alla-diaz-sul-danno-allo-stato.ge_019.html?ref=search

LO STATO va risarcito da parte dei suoi stessi uomini condannati per la bestialità della notte del 21 luglio 2001 alla Diaz: perché quanto è successo in quelle ore di follia di quasi dodici anni fa, nella scuola genovese, fa ipotizzare «un possibile danno erariale e all'immagine subita dall'amministrazione per gli interni». Benissimo: ma tocca a Genova, dove il fascicolo è già stato aperto da tempo, occuparsene, oppure a Roma, visto che sulla vicenda sta indagando la Procura regionale del Lazio per la magistratura contabile e l'indagine stessa è stata portata ad esempio dal Procuratore generale Salvatore Nottola tra i 300 milioni di euro spese inutili? Il conflitto di competenza, insomma, si scontra con un dato accertato ovunque: e cioè quanto l'immagine della Polizia sia stata sporcata da quanto avvenuto alla Diaz. Ma a Genova, peraltro, erano aperti da tempo fascicoli analoghi non solo sulla Diaz, ma anche sulle torture di Bolzaneto e sulla vicenda dell'allora vicequestore Perugini immortalato mentre prendeva a calci in faccia un minorenne; a Roma invece si apprende che, dopo la sentenza della Cassazione che ha acclarato le responsabilità, sul danno erariale sta indagando la Procura regionale del Lazio della magistratura contabile, perché è il Viminale, sede del ministero degli Interni e quindi di stanza a Roma, ad essere ipotizzato come parte lesa. Ma la Procura genovese ha scritto una lettera urgente alla Procura generale nazionale perché il conflitto di competenza venga risolto e si decida chi deve continuare l'indagine.
Sulla quale, come spiega Ivan De Musso, presidente della sezione giurisdizionale per il Lazio, ora c'è il segreto istruttorio.

«La Procura laziale sta lavorando - spiega De Musso Quando il danno all'immagine ha l'origine in una causa penale, non è pregiudiziale attenderne la fine, ma a quanto mi risulta sulla Diaz è avvenuto.
Quindi le persone ritenute responsabili dovrebbero essere state le stesse che hanno danneggiato l'immagine della polizia e del ministero egli Interni». L'indagine verrà illustrata il prossimo 20 febbraio, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario per la sezione laziale della Corte dei Conti. O clamorosamente tutto si fermerà per decidere se siano gli uffici della capitale o di Genova ad occuparsene? E si vedrà, in quell'occasione, se anche l'immagine di Genova, oltre che quella della polizia, sia stata danneggiata da quanto avvenne alla Diaz,o se il rimborso verrà valutato solo nei confronti del ministero dell'Interno. «Noi non chiedemmo un risarcimento sotto quel profilo, ci vennero invece rimborsati i danni materiali - ricorda Giuseppe Perìcu, sindaco di Genova nei giorni del G8 - Una quindicina di miliardi di vecchie lire, con i quali riuscimmo a rifondere i danni ai privati che avevano subito danni, oltre che quelli lamentati dal Comune. Ne restituimmo anche una parte, oltre un miliardo e mezzo che poi ci venne restituito. Peraltro ci sono tutti i presupposti giuridici sul danno d'immagine per la Polizia e il ministero dell'interno». © RIPRODUZIONE RISERVATA

DONATELLA ALFONSO 12 febbraio 2013 7 sez. GENOVA

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UN FILM RIAPRE IL CASO DI CARLO GIULIANI

Fonte: http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=51332&typeb=0&Un-film-riapre-il-caso-di-Carlo-Giuliani

Una pistola difettosa, i carabinieri sosia, un bossolo mai analizzato. Tutte le zone d'ombra di Piazza Alimonda in The Summit di Fracassi e Lauria. [Checchino Antonini]
mercoledì 13 febbraio 2013 14:57
di Checchino Antonini

Pum! Pum! Due spari e poi un grido disperato: «Nooo! Bastardi! L'avete ucciso!». E poi, ancora, due carabinieri sosia. Un bossolo mai analizzato. L'assalto a una camionetta. La paura degli occupanti. Anzi, la paura di chi si trovava là intorno. Un estintore di troppo. Un sasso apparso dal nulla. Un viaggio in ospedale. E, infine, una pistola avvolta dal mistero. Questa è la storia di una trappola per un ragazzo minuto e per tutti quelli come lui. E' la storia di Carlo Giuliani che dodici anni dopo viene raccontata di nuovo e le domande che pone meriterebbero risposte da un tribunale. Ben altro che l'archiviazione posticcia disposta due anni dopo.

A raccontarla di nuovo è un docu-film che verrà presentato alla stampa domani, in contemporanea a Roma e Milano, prima di prendere la via delle sale. Franco Fracassi e Massimo Lauria, cineasti e giornalisti di Popoff, hanno lavorato più di tre anni a "The summit", presentato in anteprima a Berlino dove la critica ne apprezzò la carica dirompente delle immagini inedite e delle decine di interviste.

Genova, 20 luglio 2001. Ore 17.27. Due colpi di pistola venivano sparati a brevissima distanza temporale da una pistola che si trovava all'interno del Defender. Carlo Giuliani si trovava a oltre cinque metri dalla jeep. Troppo lontano per essere realmente minaccioso. Uno dei due proiettili colpì il volto del ragazzo allo zigomo sinistro.

«Due colpi sparati ad altezza d'uomo - dirà il perito balistico Claudio Gentile ai due filmaker - sul muro della canonica della chiesa di piazza Alimonda venne rinvenuta una traccia da proiettile. Vennero effettuati dei prelievi d'intonaco. Esaminati al microscopio elettronico venne stabilito che c'erano le tracce di piombo e di altri metalli, per cui sicuramente era l'impatto di un proiettile. Anche quel colpo era passato ad altezza d'uomo, ma in una direzione completamente diversa rispetto a quello sparato a Giuliani».

Chi c'era a bordo?

In una foto del Defender si vedeva chiaramente un carabiniere che si teneva la testa tra le mani girava le spalle a Giuliani. Si è sempre detto che si trattava del carabiniere Dario Raffone, al momento dello sparo a bordo del Defender. Ma se fosse stato il carabiniere Mario Placanica, colui che si è auto accusato di aver ucciso Carlo? In questo caso l'omicida sarebbe stato qualcun altro. Seppure ferito, Raffone si presenterà al pronto soccorso solo la mattina seguente.

Secondo Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, «i carabinieri hanno impiegato la notte per trovare un sosia di Placanica per poter inscenare un finto scenario, che vedeva Placanica come assassino e Raffone come comprimario innocente». A sparare era stato un ufficiale dell'Arma, che andava protetto. Anche perché in questo caso non avrebbe sparato certamente per legittima difesa. Si voleva il morto».

Il perito principale della famiglia Giuliani si chiama Roberto Ciabattoni, lavora all'Istituto centrale per il restauro come fisico diagnostico. Ciabattoni ha un'indole analitica. Ed è anche molto bravo a spiegare le cose: «Se questo nella foto non è Raffone, ma Placanica. Se lui stava sopra, chi stava sparando?». Il balistico Gentile osserva la pistola con Fracassi e Lauria: «Ecco la pistola in atto di sparo. Per svariato tempo, per parecchi secondi, è in questa posizione. Non è certo una posizione di impugnatura istintiva o di persona presa dal panico, ma è molto più assimilabile ad una posizione di tiro consolidata da chi ha una certa esperienza».

Ciabattoni osserva nel film che la persona che spara indossa un passamontagna in dotazione ad alcuni corpi dei carabinieri, «e comunque solo ed esclusivamente agli ufficiali e non agli uomini ordinari di truppa».

Il numero degli occupanti del mezzo era importante: Massimiliano Monai, manifestante genovese, si trovava vicino a Carlo al momento dello sparo ricorda solo di aver visto Placanica ma lo vide «accucciato che si teneva la testa con le mani, inerme». Jim Mattews, no global inglese: «È difficile dirlo. Penso fossero quattro o cinque». Ufficialmente su quella jeep c'erano tre carabinieri: Filippo Cavataio (l'autista), Raffone e Placanica. Forse non è il numero giusto.

Ma allora perché nascondere il quarto uomo? Era forse stato lui a sparare? «La posizione è di una persona che sta sotto, adagiata su eventuali cose che ci sono, perché abbiamo visto dalle foto di repertazione del Defender che era pieno di oggetti - riprende Ciabattoni - quindi, la persona adagiata su queste cose, sta in posizione contratta perché non può stare stesa. E' leggermente rannicchiata con i piedi che si alzano verso il vetro posteriore. E c'ha una persona sopra che lo copre quasi completamente, e questa persona sta in posizione di alzare la testa, con la mano sinistra scoprirsi il volto. Questo è visibile in una foto della consulenza e spara senza però vedere dove sta sparando. Spara per forza a una altezza che non può essere in aria, perché sennò avrebbe bucato il tetto della camionetta».

Forse Giuliano Giuliani potrebbe aver ragione. Però, per il momento prove decisive non sono state trovate. Troppo indaffarati a trovare elementi per l'archiviazione.

Cominciano a esserci troppe stranezze

C'è, però, ancora un'altra cosa curiosa. Ed è già la terza. Mario Placanica, dopo essere stato assolto per legittima difesa (per essere precisi il procedimento era stato archiviato in fase istruttoria), e dopo essersi dimesso dall'Arma, ha deciso di far riaprire il procedimento penale. Placanica ha già fornito sei versioni diverse della stessa storia. Sulla sua credibilità, quindi, ci sono forti dubbi. Però, resta il fatto che è disposto a rischiare la galera pur di far verificare da un giudice l'attendibilità delle sue affermazioni.

Il suo avvocato è Carlo Taormina, che tra l'altro nel periodo del G8 era sottosegretario all'Interno. Anche lui risponde alle domande di Fracassi e Lauria per dire che, se il proiettile estratto dal capo di Carlo fosse di tipo non "camiciato", non rivestito, allora «non è proveniente dalla pistola di Placanica».

E il balistico Gentile concorda, senza saperlo, con Taormina: «Si capisce se un proiettile è stato sparato da un'arma se le righe che porta quel proiettile sono riconducibili alla canna di quella stessa arma. Purtroppo il proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani è rimasto nella sua testa e non è mai stato repertato». Quindi non si può sapere se apparteneva all'arma di Placanica.

Pensandoci meglio: non è stato mai repertato? Avete presente un qualsiasi film su un delitto? Qual è una delle prime cose che vengono fatte? L'autopsia e l'analisi dei proiettili. Lo sa anche un bambino che se c'è il proiettile piantato nel cranio del morto va estratto ed analizzato. Ebbene, la scientifica in questo caso se l'è semplicemente scordato nella testa di Carlo.

Haidi Giuliani ci disse in proposito: «Quando si trattava di fare il funerale a Carlo ci suggerirono che, siccome non c'era posto, la cosa migliore era cremarlo. Ci suggerirono una cosa subdola: "Se voi non foste credenti potreste cremarlo". All'epoca eravamo sconvolti. Non riflettemmo sulle conseguenze di quella scelta. E così demmo l'assenso. Oggi, grazie a quella scelta, e a quel suggerimento, non è più possibile fare autopsie. E il proiettile non è stato repertato».

Le sorprese non sono finite.

«Proiettile e bossolo vanno considerati come due entità separate». Il primo fornisce dice ancora Gentile». Sul primo, infatti si leggono le righe della canna. Il bossolo si può ricondurre a una specifica arma se porta tutte le impronte balistiche primarie, delle quali tre sono impresse sul carrello otturatore, che può essere totalmente interscambiabile, ed una deriva dall'espulsore che è calettato. Il fusto su cui è montato l'espulsore può essere smontato per cui, mantenendo il contrassegno del fusto originario, può essere montato un espulsore diverso. Questo espulsore ha in mezzo due spine. Di queste due spine, quella più piccola che sembra un cilindretto non può sfuggire, anche se rimaneggiata, perché è elastica e si espande all'interno del suo foro. L'altra, invece, è trattenuta in sede perché viene ribattuto leggermente il metallo del fusto sulla testa di quel chiodo. Ma se questa ribattitura non è fatta bene, o addirittura si dimenticano di farla, siccome non entra a pressione, cade giù, semplicemente per forza di gravità».

Durante lo "smontaggio di campagna" (fatto manualmente, senza attrezzi), è successo proprio questo. La spina che ha la funzione di espellere il bossolo lontano dall'arma, è caduta, per semplice gravità, invece doveva rimanere fissa. «E' una cosa anomala», ripete il perito. «Ci ha fatto subito pensare che su quell'organo si fosse intervenuti». La pistola in questione venne consegnata dai carabinieri al magistrato solo molti giorni dopo. L'Arma spiegò che la pistola, prima di Genova, era nello stock spedito alla Fabbrica d'armi di Terni per una revisione generale. Lì si sarebbe verificato l'errore dell'armaiolo. Ma lì non vengono registrate le operazioni effettuate.

È una spiegazione plausibile? «No».

Le è mai capitato un caso del genere? «Una sola volta nella mia carriera. In un altro caso di omicidio i periti riscontrarono che la spina, la stessa spina che nel caso Giuliani era caduta liberamente, lì era trattenuta da ribattute anomale, che erano state fatte successivamente. In quel caso l'imputato fu accusato di aver modificato la propria arma per non farla identificare come l'arma dell'omicidio, e venne condannato».

La storia di Carlo non è un cold case, le giornate del luglio genovese ci dicono quanto fu a rischio la vita dei manifestanti e la democrazia di questo Paese. E gli attori di quel luglio sono ancora lì. Eccetto Carlo.

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G8: L'ARMA DI PLACANICA FU MANOMESSA? FILM RIAPRE CASO GIULIANI

Fonte: http://genova.repubblica.it/dettaglio-news/16:34-16:34/4305042
G8: l'arma di Placanica fu manomessa? Film riapre caso Giuliani
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - Tra gli interrogativi che ancora circondano l'uccisione di Carlo Giuliani durante le manifestazioni contro il G8 del 2001 ne spunta un altro di cui finora non si era parlato: l'arma di Mario Placanica potrebbe essere stata "manomessa". E' quanto rivelano i due registi del docufilm "The Summit: i 3 giorni della vergogna", che proprio oggi esce nelle sale, partendo da Genova, Franco Fracassi e Massimo Lauria. I due, nel corso delle ricerche per il film, arrivano a uno degli ex periti della famiglia Giuliani, Claudio Gentile: ai due registi il perito spiega che l'arma attribuita a Placanica aveva una parte, la cosiddetta "spina", che cadeva per semplice gravita' pur non dovendolo fare: un segno di possibile ''intervento sull'arma''. L'affermazione viene inserita nel film facendola pronunciare ad un attore, come se fosse una fiction. L'affermazione viene confermata dal perito all'Adnkronos, ma con una premessa: "il dato di fatto e' che la spina e' caduta, dopo di che ci si puo' fare tutte le considerazioni che si crede, ma non possono passare da me. Se questa cosa fosse entrata in maniera diversa nel processo -dice Gentile- ne avremmo anche potuto parlare. Purtroppo cosi' non e'". Il che vuol dire che un fatto del genere potrebbe far riaprire il processo, come chiede la famiglia Giuliani? "Purtroppo questo era un processo di Stato. Nella mia vita ho perso solo 4-5 processi, ed erano tutti processi di Stato. Non ci spero. Ma riprendendo la cosa in una certa maniera, e' possibile". (segue)
(20 febbraio 2013 ore 16.48)

Fonte: http://genova.repubblica.it/dettaglio-news/16:35/4305044
G8: l'arma di Placanica fu manomessa? Film riapre caso Giuliani (2)
(Adnkronos) - Di certo si tratta di "materiale in grado di riaprire il caso -afferma Massimo Lauria- e per molti motivi sarebbe necessario. Nel film non abbiamo potuto inserire la testimonianza del perito per mancanza della sua autorizzazione, quindi abbiamo usato l'escamotage di far recitare le sue parole a un attore". Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, e' rimasto sorpreso anche se solo parzialmente dalla novita' emersa durante la lavorazione del film. "Sono aspetti assolutamente tecnici, sui quali non mi pronuncio. Di certo -dice all'Adnkronos- la necessita' di riaprire il caso di Carlo c'e'. Noi vogliamo ottenere un processo vero, con dibattimento, per arrivare alla verita'". Ma per Giuliani sono altri gli aspetti piu' rilevanti che non sono emersi nel corso degli anni, "a cominciare dal vilipendio del corpo di Carlo, ancora con attivita' cardiaca, da parte di un vigliacco mascalzone che spacco' la sua testa con un sasso". Secondo Giuliani "bisogna restare ancorati a due fatti non smentibili: primo, lo sparo e' diretto e non fu deviato da nessun sasso volante o altro; secondo, Carlo si trovava a 4 metri dalla camionetta e non a meno di un metro come e' stato sostenuto".
(20 febbraio 2013 ore 16.48)

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DIAZ, CARCERE O PENE ALTERNATIVE PER I POLIZIOTTI CONDANNATI: AD APRILE LA DECISIONE, MA DALLA POLIZIA SILENZIO SUI PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI

Fonte: http://www.genova24.it/2013/03/diaz-carcere-o-pene-alternative-per-i-poliziotti-condannati-ad-aprile-la-decisione-ma-dalla-polizia-nessun-provvedimento-disciplinare-47928/

Articolo n° 47928 del 07/03/2013 - 15:21

Genova. Il Tribunale di Sorveglianza di Genova dal 10 aprile prossimo sarà chiamato a decidere le modalità con le quali i 17 alti funzionari della Polizia di Stato condannati in via definitiva per falso e calunnia nel processo Diaz dovranno scontare la pena (dagli otto mesi all’anno, per effetto dell’indulto che ha cancellato tre anni).

Le alternative teoriche sono la detenzione in carcere, l’affidamento in prova al servizio sociale o la detenzione domiciliare.

La Corte di Cassazione, nella sentenza emessa il 6 luglio scorso, aveva usato espressioni molto dure contro di loro, negando la concessione delle attenuanti generiche e sottolineando “l’assenza di qualunque segno di resipiscenza”, cioè di pentimento rispetto al reato commesso.

Se è vero che essendo i funzionari tutti incensurati sembra piuttosto probabile che la misura prescelta dal Tribunale di sorveglianza sia l’affidamento in prova, una recente decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che ha disposto il carcere per gli agenti condannati per l’omicidio colposo di Federico Aldovrandi (comunque non espulsi dalla Polizia) costituisce un recente precedente che può preoccupare i condannati.

Le udienze (non pubbliche) davanti al Tribunale di Sorveglianza potrebbero essere anche l’occasione per sapere, in assenza di ogni comunicazione da parte del Ministero dell’Interno, se i funzionari condannati sono stati espulsi dalla Polizia o solo sospesi con la possibilità di farvi rientro, come è stato finora per tutti gli altri nove poliziotti condannati in via definitiva in altri processi del G8 di Genova, che hanno conservato il loro posto di lavoro, nonostante la sospensione imposta per via giudiziaria (interdizione temporanea dai pubblici uffici) dalle sentenze di condanna.

Inoltre, per quanto riguarda il processo Diaz gli altri 8 agenti condannati solo per lesioni gravi con pena poi prescritta (tutti appartenenti al disciolto settimo nucleo del I reparto mobile di Roma, quello comandato da Vincenzo Canterini) molto probabilmente non hanno subito né subieranno alcun procedimento disciplinare (facoltativo, in questo caso) e continueranno quindi il loro servizio in Polizia senza alcuna conseguenza per la mattanza di quella notte.

Le parti civili del processo Diaz lamentano la assoluta mancanza di assunzione di responsabilità e di scuse da parte dei condannati. A livello istituzionale c’è stata solo la frase dell’attuale capo della Polizia Antonio Manganelli, dopo la sentenza di Cassazione (“ora è il tempo delle scuse”), bilanciata però dall’espressione di personale solidarietà per i condannati espressa dall’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. Le parti civili sottolineano anche come tutti i risarcimenti siano stati pagati dal ministero e vi sia la concreta possibilità , vista una legge approvata dal 2010, che non vengano mai richiesti ai condannati.

Katia Bonchi

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G8 DI GENOVA, VICEQUESTORE DI POLIZIA CONDANNATO A DUE ANNI PER FALSA TESTIMONIANZA TRIBUNALE DI GENOVA

Articolo n° 47958 del 08/03/2013 - 11:17

Genova. Il giudice monocratico Carla Pastorini, ha condannato a due anni per falsa testimonianza con sospensione condizionale della pena il dirigente di Polizia Luca Cinti, ex comandante del reparto mobile di Bologna all’epoca del G8 di Genova del 2001.

Il 20 luglio, poco dopo le 15, il reparto mobile di Bologna, comandato proprio da Cinti, caricò i manifestanti pacifici riuniti in piazza Manin e arrestò due ragazzi spagnoli accusandoli di resistenza. Gli agenti sostennero che i due fossero armati di spranga e molotov, ma un video scagionò i due manifestanti. I quattro poliziotti responsabili dell’arresto (Antonio Cecere, Luciano Berretti, Marco Neri e Simone Volpini, tutti sottoposti di Cinti), invece, sono stati condannati in via definitiva a 4 anni di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e sono attualmente sospesi dal servizio.

Nell’ambito del processo di primo grado contro i quattro, Cinti (che era il loro superiore) testimoniò in aula di aver visto il momento dell’arresto aggiungendo che uno dei due arrestati aveva in mano una spranga. Di fronte alla visione del filmato, che mostrava invece i due spagnoli assolutamente disarmati e inermi di fronte all’arresto, Cinti disse anche che non era certo che si trattasse proprio dei due spagnoli arrestati.

Il 9 gennaio di quest’anno, interrogato in aula nel processo a suo carico dal pubblico ministero Francesco Cardona Albini e dagli avvocati di parte civile Emanuele Tambuscio e Laura Tartarini, Cinti ha invece sostenuto che gli spagnoli siano stati arrestati per sbaglio da qualcun altro, mentre i veri responsabili dei disordini sarebbero rilasciati per errore dalla Questura. “Non abbiamo arrestato i due spagnoli, probabilmente in Questura è stato fatto qualche pasticcio”.
In pratica Cinti ha sostenuto che i suoi uomini hanno arrestato due persone di cui una armata di spranga, ma che non si tratterebbe dei due spagnoli. Peccato però che i due giovani siano stati gli unici arrestati in piazza Manin in tutta la giornata del 20 luglio.

Tesi considerata “surreale” sia dal pubblico ministero che dagli avvocati di parte civile, ma ribadita in aula dal legale di Cinti durante la discussione finale. Il legale ha anche sostenuto che, di fatto, il suo cliente avrebbe fatto nel processo di primo grado contro i suoi sottoposti, una testimonianza “scomoda ma favorevole ai due spagnoli”.
Nelle controrepliche il pubblico ministero, che aveva chiesto per Cinti due anni di reclusione, ha definito “assurda” tale affermazione, visto che “in primo grado, proprio anche grazie alla ricostruzione di Cinti che aveva messo l’accento su una grande confusione sia in piazza che nella fase degli arresti, il Tribunale decise di assolvere i quattro del reparto mobile”. Di diverso parere sono state invece la Corte di appello di Genova e la Cassazione.

Redazione

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ANTONIO MANGANELLI, LA POLIZIA DI STATO E GENOVA G8

La morte del capo della polizia e il cordoglio per una fine prematura.
Nel diluvio di commenti, un contributo utile a inquadrare meglio la figura di un uomo dello Stato e le sue scelte su un caso delicato, affrontato in modo pessimo da lui e dal suo predecessore. La questione delle "scuse" per la Diaz: tardive, ambigue e reticenti
http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3978

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LA NEMESI DEL SUPERPOLIZIOTTO GRATTERI DALLA DIAZ ALLA CARITAS UN MANIFESTANTE FERITO DURANTE GLI SCONTRI DEI G8

Fonte: http://genova.repubblica.it/cronaca/2013/04/03/news/g8_gratteri_condannato_al_volontariato_vuole_don_ciotti_ma_andr_alla_caritas-55839063/

Il prefetto, uno dei super poliziotti condannati per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz al G8 del 2001, sconterà un anno di pena alternativa al carcere in un centro anti-usura. Vuole Don Ciotti ma andrà alla Caritas

di MARCO PREVE

Dove sconterà il suo anno di espiazione alternativa al carcere il prefetto Franco Gratteri, uno dei super poliziotti condannati per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz al G8 del 2001? Fino a venerdì sembrava che lo avrebbe fatto in un'associazione anti racket legata a Libera, il coordinamento di 1500 sigle che da quasi vent'anni è simbolo di antimafia e soprattutto educazione alla legalità.

Ma ieri, dall'entourage di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, è stato annunciato che sarà invece un'associazione anti-usura della Caritas ad accogliere Gratteri. Sempreché, naturalmente, il Tribunale di Sorveglianza decida di accogliere la sua istanza, così come quella di altri sedici tutti funzionari esclusi due ispettori della celere di Roma) per l'affidamento in prova al servizio sociale.

Il 10 aprile, davanti al presidente della Sorveglianza, il giudice Giorgio Ricci, prendono il via le udienze che decideranno se per i 17 si apriranno le porte del carcere o quelle delle pene alternative. Considerato che l'indulto garantisce un colpo di spugna a tre anni, i 17 condannati rischiano da un minimo di cinque mesi al massimo di un anno. Tra l'altro, abitualmente, per concedere le pene alternative il giudice deve valutare oltre ai precedenti, al pentimento del reo e al suo desiderio di redimersi, anche le altre eventuali conseguenze subite in seguito alla sentenza.

A Bologna, il giudice ha di recente deciso di mandare in carcere gli agenti responsabili della morte di Federico Aldrovandi.
Per quanto riguarda la vicenda Diaz, le udienze della sorveglianza forse saranno finalmente l'occasione per capire se la polizia abbia avviato procedimenti disciplinari nei confronti dei dirigenti condannati. Un mese di telefonate e mail all'ufficio stampa della polizia non hanno permesso di sciogliere il mistero, anche se, proprio a ridosso di Pasqua è circolata la voce che qualcosa, a 12 anni dalle violenze, le calunnie e i clamorosi falsi - dai verbali alle molotov introdotte dalla stessa polizia - si stia finalmente muovendo.

Ma se per i condannati ("che hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero ", secondo i giudici della Cassazione) è scattata l'interdizione dai pubblici uffici, è invece un dato di fatto che gli agenti del reparto mobile di Roma che sono stati salvati penalmente dalla prescrizione - ma non civilmente per i risarcimenti - restino ad oggi ai loro posti nonostante le decine di feriti anche gravi provocati dalle loro manganellate.

Quanto a Gratteri, l'ex capo dell'anticrimine nonché protagonista dell'antimafia, è oggi in pensione forzata, e per evitare il carcere, assieme ai suoi legali ha dovuto pensare ad un'associazione in cui prestare volontariato quotidianamente per un anno, visto che non è concepibile una pena alternativa con "prestazioni occasionali".

Ancora venerdì scorso ecco cosa diceva Francesca Rispoli, della presidenza di Libera a Roma: "Sì, il prefetto Gratteri ha chiesto di poter essere inserito da noi. Ci stiamo lavorando, stiamo prendendo in considerazione la cosa. E' in fase di analisi la posizione della persona e l'eventuale compatibilità con i lavori socialmente utili all'interno delle nostre strutture ma non c'è ancora una decisione".

Mentre all'interno di Libera cominciava già a serpeggiare qualche imbarazzo (don Ciotti partecipò in piazza Alimonda alle celebrazioni del decennale del G8), la situazione si è sbloccata e proprio dallo staff del sacerdote torinese ieri è arrivata la precisazione: "Il prefetto Gratteri si è appoggiato ad una struttura della Caritas".

(03 aprile 2013)

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UN BEL VIDEO

Un bel video fatto con contributi anche bolognesi a proposito di violenze a G8 di Genova ed il ricorso fatto dalle parti civili di Bolzaneto alla corte dei diritti dell'uomo a Bruxelles messo a punto anche da Valerio Onida. Il problema non è solo la mancanza del reato di tortura in Italia, ma anche che i risarcimenti attesi non sono mai arrivati e i poliziotti coinvolti han continuato a far carriera

http://www.corriere.it/inchieste/reportime/societa/processo-g8-violenze-bolzaneto-sotto-lente-corte-europea/5ee5ef84-4ae0-11e3-bfcf-202576418f24.shtml
 

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G8 DI GENOVA, CONFERMATA IN APPELLO CONDANNA PER FALSA TESTIMONIANZA PER VICEQUESTORE DI POLIZIA

Fonte: http://www.genova24.it/2014/05/g8-di-genova-confermata-appello-condanna-per-falsa-testimonianza-vicequestore-di-polizia-67652/
G8 di Genova, confermata in appello condanna per falsa testimonianza per vicequestore di polizia
Articolo n° 67652 del 19/05/2014 - 16:17

Genova. La terza sezione della Corte di appello di Genova ha confermato questo pomeriggio la condanna a 2 anni con la condizionale per Luca Cinti, vicequestore di polizia e dirigente del Reparto mobile di Bologna nei giorni del G8 del 2001.

I fatti. Il 20 luglio, poco dopo le 15, il reparto mobile di Bologna, comandato da Cinti, caricò i manifestanti pacifici riuniti in piazza Manin e arrestò due ragazzi spagnoli accusandoli di resistenza. Gli agenti sostennero che i due fossero armati di spranga e molotov, ma un video scagionò i due manifestanti. I quattro poliziotti responsabili dell’arresto (Antonio Cecere, Luciano Berretti, Marco Neri e Simone Volpini), invece, sono stati condannati in via definitiva a 4 anni di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per “falso e calunnia” e sono attualmente sospesi dal servizio. Nell’ambito del processo di primo grado contro i quattro, Cinti (che era il loro superiore) testimoniò in aula di aver visto il momento dell’arresto aggiungendo che uno dei due arrestati aveva in mano una spranga. Di fronte alla visione del filmato, che mostrava invece i due spagnoli assolutamente disarmati e inermi di fronte all’arresto, Cinti disse anche che non era certo che si trattasse proprio dei due spagnoli arrestati.

La tesi sostenuta da Cinti è stata da quel momento che gli spagnoli siano stati arrestati per sbaglio, mentre i veri responsabili dei disordini sarebbero stati rilasciati per errore dalla Questura. Tesi che non ha convinto il giudice di primo grado Carla Pastorini (che lo aveva già condannato a due anni con la condizionale), né i giudici della Corte di appello.

Katia Bonchi

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